So che molte
delle mie storie americane cominciano con “Tempo fa avevo uno studente che…”.
Vent’anni fa, quando abitavo a New York, non conoscevo solo studenti, ma ora
più meno è così. Non appartengo a chiese o a circoli del tiro a segno, e
insegno in un dipartimento di lingue straniere dove la maggior parte dei miei
colleghi sono come me, venuti da altrove. I miei studenti sono la mia
principale finestra sull’America. In questi giorni in cui Donald Trump appare
contemporaneamente fragilissimo e indistruttibile (perché sta montando una
marea contro di lui, e perché pare uscito dal Covid come il Nerone di
Petrolini, “più bello e più superbo che pria”) uno in particolare mi viene in
mente spesso. Qualche anno fa stavo insegnando un corso sulle idee della modernità
e avevo uno studente afroamericano di piccola statura, magro, che entrava in
classe sempre con la stessa felpa grigia col cappuccio alzato sulla testa –
lo hood che anche visto da lontano mette terrore all’America
bianca. Non parlava mai, si sedeva appoggiato al muro, discosto dagli altri,
sembrava volesse sparire. Io cercavo di parlare per tutti, anche per quelli che
mi chiedevano se la Rivoluzione Francese fosse venuta prima o dopo le Crociate,
ma mi rendevo conto che non riuscivo a parlare per lui. Cose come l’idealismo,
il marxismo, il darwinismo e il positivismo erano ostiche per chiunque, ma per
lui, me ne rendevo conto, dovevano essere assolutamente irreali, le tipiche
menate che si fanno i bianchi. Però era lì anche lui, dopotutto si era iscritto.
Bene, ora
lasciatemi parlare un momento di George Floyd e di Breonna Taylor. Le storie le
sapete, ma alcuni particolari è bene tenerli in mente. George Floyd è nato
nella North Carolina ma è cresciuto nella Third Ward di Houston, il quartiere
afroamericano che confina con la mia università, il più povero della città,
dove ci sono ventinove chiese e nemmeno una clinica. Giusto per mettere le cose
in chiaro, oltre a essere un giocatore di football, baseball, e un rapper,
George Floyd era stato arrestato otto volte per possesso di droga, furto,
violazione di domicilio, e aveva scontato quattro anni di carcere, dal 2009 al
2013. Giusto per metterle ancora più in chiaro, nella Third Ward questo è
normale, si passa dal lavoro precario alla prigione e dalla prigione al lavoro
precario senza soluzione di continuità. Per chi vive nella Third Ward, essere
stato in prigione è come aver avuto il morbillo. Il quartiere era miserabile
quando l’ho attraversato la prima volta e lo è ancora adesso. In quarant’anni è
cambiato solo ai margini, dove sono state costruite casette linde e decorose
che gli abitanti del quartiere non si possono permettere. Più ne costruiscono,
più loro se ne devono andare (si chiama gentrification, o
imborghesimento urbano).
Dopo essere
uscito di prigione, George Floyd si era trasferito a Minneapolis dove lavorava
come buttafuori in un locale. Il 25 maggio del 2020 sapete cosa è successo.
Arrestato per aver pagato un droghiere con un biglietto da 20 dollari falso, è
morto soffocato quando l’agente Derek Chauvin l’ha immobilizzato premendogli il
ginocchio sul collo per un tempo calcolato in otto minuti e quarantasei
secondi, incluso un minuto dopo che Floyd era già morto. Le sue ultime parole
sono state: “Mi manca il fiato”. Nel frattempo, a causa della pandemia, a molta
altra gente stava mancando il fiato, e a molti manca anche adesso. Io
attraverso spesso la Third Ward in macchina, cosa che molti miei colleghi
americani non farebbero mai. Anni fa una che lo faceva era anche stata
bonariamente preso in giro: “Oh, a lei piace passare per lo ‘hood”—che
qui sta per neighborhood, quartiere, ma suona come il cappuccio di
felpa del mio studente silenzioso.
Breonna
Taylor, ventisei anni, il 13 marzo del 2020 stava dormendo insieme al suo
ragazzo nella sua casa di Louisville, Kentucky. La polizia bussa alla porta nel
corso di un’operazione antidroga. Kenneth Walker, il ragazzo di Breonna, dice
di non aver sentito i poliziotti bussare. Se li è trovati davanti al buio dopo
che questi hanno sfondato la porta, non li ha riconosciuti, ha preso la sua
pistola e ha sparato, colpendo un poliziotto a una gamba. I poliziotti hanno
risposto con trentadue colpi. Sei hanno colpito Breonna Taylor, uccidendola. La
casa non è nemmeno stata perquisita. Il 23 settembre 2020 l’agente Brett
Hankison è stato incriminato per “condotta pericolosa” perché sparando mentre
si trovava ancora all’esterno ha rischiato di colpire la casa dei vicini. La
città di Louisville ha compensato la famiglia di Breonna Taylor con 12 milioni
di dollari, ma nessuno degli altri agenti è stato incriminato. Nella casa
vicina abitano dei bianchi.
Tra il primo
gennaio e il 28 settembre 2020 la polizia americana ha ucciso 721 persone. Dal
gennaio 2017 ad oggi, ne ha uccisi 3705. Statistiche precise sulle percentuali
divise per razza non sono ancora disponibili. Ma nel 2015, su un totale di 990
persone uccise, i neri sono stati 258. Sono il 13,4% della popolazione, ma
costituiscono il 26% delle vittime (gli ispanici, che sono il 16,7% della
popolazione, nel 2015 sono stati il 17% delle vittime). Non mi occupo in questa
sede dei casi in cui la violenza della polizia era più o meno “giustificata”.
La vera questione è che se a rimanere ucciso per sbaglio è un bianco, il
poliziotto rischia la prigione. Se a rimanere ucciso per sbaglio è un nero,
molto spesso il poliziotto non rischia nulla. Perché vi dico tutto questo?
Perché ciò
che sta facendo a pezzi gli Stati Uniti non è solo il divario fra democratici e
repubblicani. C’è una faglia sismica che rimane aperta fra coloro che
dovrebbero essere uniti, ma non lo sono, e forse non lo saranno mai più. Non
importa quanti cambiamenti possa introdurre l’amministrazione Biden (posto che
vinca, cosa sulla quale non mi sento ancora di scommettere). La differenza razziale
non è più superabile, ha preso il sopravvento. E la potenza di fuoco della
polizia non potrà essere temperata da nessuna modesta police reform (non
si creda, ad esempio, che i poliziotti neri siano più teneri dei bianchi con
quelli della loro razza). L’impossibilita di trovare un punto d’incontro che
renda più facile la vita lo vedo anche nell’ambiente che conosco meglio, quello
universitario.
Il 3
settembre 2020 leggo su yahoo.news che un professore di comunicazioni della
University of Southern California è stato posto in congedo in seguito alla
denuncia di un gruppo di studenti afroamericani. In una lezione il professore
aveva parlato delle “parole riempitive” che si usano per colmare i vuoti del
discorso (in italiano sarebbero “cioè”, “no”, “niente”), aggiungendo che una
tipica parola riempitiva in cinese è “nèi-ge”. Gli studenti afroamericani hanno
accusato il professore di averla pronunciata in un modo che la faceva sembrare
simile alla n-word (non la trascrivo, ma la potete immaginare).
Hanno chiesto a studenti cinesi i quali hanno confermato che la pronuncia usata
dal professore è diversa da quella comune in Cina, dove le due sillabe vengono
ben scandite. E, hanno aggiunto, c’è chi sa che è meglio non pronunciarla in
America. Una parte del loro esposto va citata più estesamente:
“La nostra
salute mentale è stata compromessa. Dare [a questo professore] il potere di
assegnarci i voti ci fa sentire profondamente a disagio. Preferiremmo non
seguire il suo corso piuttosto che dover sopportare l’esaurimento emotivo di
dover reggere un insegnante che ha in disprezzo la diversità culturale e le
sensibilità e di conseguenza crea un ambiente che respinge gli studenti neri.
[L’incidente] ha avuto un impatto negativo sulla nostra capacità di
concentrarci adeguatamente nello studio (…) Alla luce dell’assassinio di George
Floyd e Breonna Taylor, delle recenti e continue proteste collettive e del
risveglio sociale dell’intera nazione, questa non è una situazione che possiamo
tollerare”.
Il preside
di facoltà ha immediatamente sospeso il professore e ha assegnato il corso a un
altro insegnante. Il professore si è difeso affermando che insegna quel corso
da dieci anni, che l’esempio gli è stato fornito da studenti stranieri e che
lui l’ha usato molte volte senza che mai ne nascessero problemi. Dato che la
parola non era inglese, non gli era venuto in mente che potesse costituire un
insulto razziale. Detto questo, si è scusato per non aver considerato tutte le
maniere “differenti e aggiuntive” in cui un particolare esempio può essere
inteso da membri dell’uditorio “che si basano sulle loro esperienze vissute.”
Ora, i
lettori che mi hanno seguito fin qui (e se hanno avuto questa pazienza li
ringrazio) si chiederanno: ma davvero la salute mentale di questi giovani
iscritti a una Master in Economia è stata compromessa dalla pronuncia di una
parola cinese? Ma lo sanno com’è il mondo del business? Che cosa si aspettano
di trovare quando avranno finito l’università, pace e amore?
Posso
fornire due considerazioni. La prima è questa. Se io posso rischiare di essere
sospeso, investigato, magari bollato come razzista e anche licenziato perché ho
usato una parola non inglese che sembra simile ha una parola che in inglese è
proibita (la possono usare solo i rapper e, per qualche strana ragione, gli
attori nei film di Quentin Tarantino), e l’ho fatto davanti a studenti di una
laurea specialistica, persone adulte, che si sono iscritte al mio corso e che
dunque possono avere un’idea di che cosa parlerò in classe, in questa battaglia
non mi potranno avere come alleato, e non perché io non voglia essere dalla
loro parte, ma perché non saprei proprio come aiutarli. Come posso
lottare assieme a chi ti giudica razzista per una parola detta in un’altra
lingua e senza alcuna intenzione malevola (decido per ora di dar credito al
professore accusato). Mi viene in mente quello che disse Malcolm X a una
ragazza bianca benintenzionata che una volta gli chiese che cosa potesse fare
per aiutare la causa dei neri. “Niente,” rispose Malcolm X.
Certo, il
professore in questione non è stato molto scaltro. Io, nell’università
americana, ho imparato da tempo a camminare sulle uova. Il che non vuol dire
nulla, domani stesso le potrei rompere e ritrovarmi in una frittata, ma facciamo
un esempio. Se dovessi raccomandare a degli studenti avanzati di letteratura
italiana di consultare l’edizione Meridiani Mondadori dei Promessi
sposi curata dal professor Salvatore Silvano Nigro, mi farei scrupolo
di premettere che sto usando un cognome molto comune in italiano, la cui
pronuncia, se pensata in inglese, corrisponde a un termine che negli anni
Sessanta non era visto come un insulto (come lo è ora per alcuni), ma anzi
denotava orgoglio razziale. A dire il vero non lo pronuncerei nemmeno, lo
scriverei sulla lavagna oppure (se insegnassi online) digiterei nome e cognome
nella colonna chat di Teams, facendo notare che va scritto con la “i” e non con
la “e”. E lo farei anche se non avessi studenti afroamericani in classe (e non
li avrei, figuratevi cosa gli importa della letteratura italiana), perché
dovrei tener conto della salute mentale di molti sensibilissimi bianchi. Anche
loro mi potrebbero denunciare.
Ma quanto ho
appena detto non fa di me un insegnante, fa di me soltanto un paraculo. Poiché
vivo in questo paese e ho scelto di viverci, devo essere capace di mettermi
anche in panni che non potrò mai indossare, quelli degli studenti afroamericani
che si sono sentiti umiliati da una parola cinese pronunciata male. So che non
è possibile, ma di questi tempi è un dovere anche pensare l’impossibile. E devo
ammettere che non gli posso dare torto. Perché, in fondo, in che cosa consiste
il white privilege, il privilegio di essere bianchi? Semplicemente
in questo: quando un bianco parla con un nero, il bianco può anche dimenticarsi
che sta parlando con un nero; si chiama color blindness, essere
ciechi al colore della pelle. Una volta era considerato un fine nobile. Anche
Martin Luther King l’aveva detto: bisogna che un uomo venga giudicato dalla
sostanza del suo carattere, e non dal colore della sua pelle. Ma non è andata
così. Il bianco può anche dimenticarsi che sta parlando con un nero; il nero
non può. Deve portare il peso del suo colore 24 ore al giorno, non può mai
dimenticare che se quella sera mentre torna a casa incrocia un poliziotto, a
casa sua potrebbe non arrivarci mai. Non può dimenticare che mentre dorme nel
suo letto la polizia può entrare, sparargli e non soffrire nessuna conseguenza.
È facile far passare per isterici gli studenti che hanno denunciato il loro
professore di comunicazioni per una parola cinese mal pronunciata, ma la realtà
è che vivono nella paura.
I miei
studenti sono in larga maggioranza ispanici. Neri ne ho sempre avuti pochi, e
per lo più ragazze. Siccome sanno già che il peso della loro famiglia graverà
tutto su di loro, hanno i nervi più saldi. Ma voglio tornare adesso al mio
studente con la felpa grigia e il cappuccio che gli scendeva sugli occhi. Un
giorno in classe ho parlato di Kafka, ho letto l’apologo della porta della
legge e ho fatto vedere lo stesso apologo visualizzato nel film di Orson Welles
tratto dal Processo. Per la prima volta, lo studente ha
alzato la testa e i suoi occhi mi hanno guardato dal fondo del cappuccio. Alla
fine della lezione è venuto da me e con voce sussurrata, cospiratoria, per non
farsi sentire da nessun altro, mi ha chiesto: “Dove posso trovare qualcosa
di questo Kafka?” Forse per la prima volta aveva scoperto un punto in
comune tra la sua paura e quella provata da un’altra razza.
Se potessi
rivolgermi agli studenti che hanno denunciato il loro professore di
comunicazioni, gli direi qualcosa che preferirebbero non sentire. Gli dovrei
dire, in questo paese sarete sempre una minoranza. Eravate il tredici per cento
trent’anni fa e lo siete ancora adesso, mentre gli altri, gli ispanici e gli
asiatici, stanno aumentando. Avete bisogno di tutti gli amici che potete
trovare, anche se di noi come amici preferireste fare a meno, anche se vi
stiamo sulle palle, anche se avete ragione voi. Avevo detto allo studente con
il cappuccio in testa che poteva venire a parlarmi quando voleva, poteva
scrivermi, telefonarmi, ma non l’ha mai fatto, anzi poco tempo dopo ha
abbandonato il corso. Per lui non ho potuto fare niente, come diceva Malcolm X.
***
Quello che
ho fatto dopo la morte di George Floyd è stato scrivere questi versi, tradotti
con l’aiuto di una mia ex studentessa, Amanda Pascali, che qui ringrazio.
Fiato
Non è la
fine del mondo, non è del mondo la fine,
è qualche
linea di febbre, è una corona di spine.
Non è la
fine di niente, è una questione di fiato,
forse ne
abbiamo fin troppo, forse l’abbiamo sprecato.
Fiato che
appanni gli occhiali, fiato che resti nel naso,
fiato che
torni giù in gola, fiato che non ci fai caso.
Fiato che
soffi su Adamo, fiato dell’ultimo fiato,
fiato che va
restituito, come un biglietto scaduto.
Dice che gli
manca il fiato, con un ginocchio sul collo,
dicono se
l’è cercata, per un biglietto fasullo.
Ci segua
senza fiatare, solo un normale controllo,
otto minuti
e quaranta, con un ginocchio sul collo.
Non è la
fine del mondo, non è del mondo la fine,
provati
ancora la febbre, prendi le tue medicine.
Fiato ce n’è
così tanto, fiato ce n’è così poco,
puoi
risparmiarlo o gridare, senti che c’è pure l’eco.
Fiato di
gente rabbiosa, gente che soffia sul fuoco,
fiato di
gente distratta, che prende tutto per gioco.
Fiato che
sali a spirale, quando si dice la messa,
fiato che
sei scienza esatta, come un registro di cassa.
La corte si
è ritirata, non hai sentito il martello?
Hanno
respinto il reclamo, hanno negato l’appello.
Noi non ci
siamo mai visti, tre volte al canto del gallo,
otto minuti
e quaranta, con un ginocchio sul collo.
Sembra un
castigo di Dio, sembra una maledizione,
è una
questione di fiato, è un’eccessiva pressione.
No, non
cambiare discorso, no, non mi prendere in giro,
è una
questione di fiato, è la metà di un respiro.
Breath
It’s not the
end of the world, the world is not at its end,
It’s just a
fever, it’s a corona of thorns.
It’s not the
end of anything, it’s a matter of breath,
Perhaps we
have too much of it, perhaps we have wasted it.
Breath that
fogs up your glasses, breath that lingers in your nose,
Breath that
retreats into your throat, breath you take for granted.
Breath that
blows on Adam, breath of the last breath,
Breath
overdue, like an expired ticket.
He says he
can’t breathe, with a knee on his neck,
They say he
had it coming, because of a forged bill.
Follow us,
don’t even breathe, it’s just a regular check,
Eight
minutes and forty, with a knee on his neck.
It’s not the
end of the world, the world is not at its end,
Check your
temperature again, take your medicine.
There’s so
much breath, yet so little of it,
You can save
it or scream; listen closely, there’s an echo in here.
Breath of
mad people, people who fan the flames,
Breath of
careless people, people who mistake all of this for a joke.
Breath that
flows in a spiral when you say Mass,
Breath,
which is exact science, like a cash register.
The court
has adjourned, haven’t you heard the gavel?
They have
rejected the complaint; they have denied the appeal.
We never saw
each other, three times at the rooster’s crow,
Eight
minutes and forty, with a knee on his neck.
It looks
like God’s scourge, it looks like a curse,
It’s just a
matter of breath, it’s just an excess of pressure.
Please,
don’t change the subject, please don’t play with me,
It’s just a
matter of breath, it’s the other half of the wind.
https://www.doppiozero.com/materiali/america-conflitti-insanabili
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