[…] Abbiamo sempre bisogno di un punto esterno sul quale poggiare per poter adoperare efficacemente la leva della critica. Questo vale particolarmente per i fatti psicologici, in cui, per natura, siamo molto più coinvolti con la nostra soggettività che in qualsiasi altra scienza.
Per esempio, come potremmo renderci conto delle caratteristiche
nazionali, se non avessimo mai avuto l’occasione di considerare la nostra
nazione dall’esterno? Considerarla dall’esterno significa considerarla dal
punto di vista di un’altra nazione. Per poterlo fare dobbiamo acquistare una
sufficiente conoscenza dell’anima collettiva straniera, e nel corso di questo
processo di assimilazione urtiamo in tutte quelle incompatibilità che
costituiscono il pregiudizio e le caratteristiche nazionali. Tutto ciò che ci
irrita negli altri può così portarci alla comprensione di noi stessi.
Capisco l’Inghilterra soltanto quando vedo in che cosa io, svizzero,
non mi adatto ad essa. Capisco l’Europa, il nostro problema più grande, solo
quando vedo in che cosa io, come europeo, non mi adatto al mondo.
Grazie alla mia conoscenza di molti americani, e ai miei viaggi in
America e all’interno di quel continente, ho acquistato una considerevole
conoscenza e capacità di critica del carattere europeo; mi è sempre parso che
non ci possa essere nulla di più utile, per un europeo, che osservare l’Europa,
una volta o l’altra, dalla cima di un grattacielo.
Quando contemplai perla prima volta lo spettacolo europeo dal Sahara,
mi resi conto di quanto completamente, persino in America, fossi ancora
impacciato e legato dalla coscienza culturale dell’uomo bianco.
Fu allora che maturò in me il desiderio di portare più a fondo i
paragoni storici. Il viaggio seguente mi condusse in compagnia di alcuni amici
americani, a visitaregli indiani del Nuovo Messico, i Pueblos, costruttori di
città. “Città”, tuttavia, è una parola troppo grossa: ciò che essi costruiscono
in realtà sono solo villaggi; ma le loro case assiepate, costruite l’una
sull’altra, suggeriscono la parola “città”, come pure il loro linguaggio e
tutte le loro maniere.
Fu quella la prima volta che ebbi l’occasione di parlare con un
non-europeo, cioè con un non-bianco. Era un capo dei Pueblos Taos, un uomo
intelligente, dell’età di quaranta o cinquant’anni. Il suo nome era Ochwìa
Biano (Lago di Montagna). Potei parlare con lui come raramente ho potuto con un
europeo. Certamente era prigioniero del suo mondo, così come un europeo lo è
del proprio, ma che mondo era!
Parlando con un europeo ci si incaglia sempre nei banchi di sabbia
delle cose conosciute da tempo ma mai comprese; con questo indiano invece la
nave galleggiava su mari profondi, sconosciuti. E non si sa che cosa sia più
affascinante, se la vista di nuove spiagge o la scoperta di nuove vie d’accesso
a ciò che ci è noto da sempre e che abbiamo quasi dimenticato.
“Vedi” diceva Ochwìa Biano “quanto appaiono crudeli i bianchi. Le
loro labbra sono sottili, i loro nasi affilati, le loro facce solcate e
alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso, come se stessero
sempre cercando qualcosa.
Che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualche cosa, sono sempre
scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non li capiamo.
Pensiamo che siano pazzi.” Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero
tutti pazzi. “Dicono di pensare con la testa” rispose.” Ma certamente. Tu con
che cosa pensi?” gli chiesi sorpreso. “Noi pensiamo qui”, disse, indicando il
cuore.
M’immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia
vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo
bianco. Era come se fino a quel momento non avessi visto altro che stampe
colorate, abbellite dal sentimento.
Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole, svelato una
verità alla quale siamo ciechi. Sentii sorgere dentro di me, come una informe
nebulosa, qualcosa di sconosciuto ma pure di profondamente intrinseco. E da
questa nebulosa, immagine dopo immagine, si districarono dapprima le legioni
dei Romani che piombavano sulle città dei Galli, e i tratti decisi di Cesare,
di Scipione l’Africano, di Pompeo; poi vidi l’aquila romana sul Mare del Nord e
sulle rive del Nilo Bianco; e poi sant’Agostino che portava ai Britanni il
credo cristiano sulla punta delle lance romane, e la più gloriosa conversione
dei pagani ottenuta con la forza da Carlo Magno; infine le schiere predatrici e
omicide dei Crociati. Con una fitta segreta mi resi conto della vuotezza del
tradizionale romanticismo intorno alle Crociate! Poi seguirono Colombo, Cortés,
e gli altri conquistadores che con il fuoco, la spada, la tortura e il
cristianesimo atterrirono persino questi remoti Pueblos, che sognavano
pacificamente, al sole, loro padre. Vidi le isole dei Mari del Sud, con la loro
popolazione decimata dall’acquavite, dalla sifilide, dalla scarlattina;
contagio mutuato dai panni che erano costretti a indossare. Era abbastanza.
Ciò che noi dal nostro punto di vista chiamiamo colonizzazione,
missioni per la conversione dei pagani, diffusione della civiltà e via dicendo,
ha anche un’altra faccia, la faccia di un uccello da preda, crudelmente intento
a spiare una preda lontana, una faccia degna di una razza di pirati e di
predoni.
Tutte le aquile e le altre fiere che adornano i nostri stemmi mi
parvero gli adatti rappresentanti psicologici della nostra vera natura.[…]
Nell’estate del 1959 a Bollingen, Jung scrisse per la sua
autobiografia il capitolo sul Kenya e l’Uganda. Il capitolo relativo agli
indiani del Nuovo Messico – i Pueblo – è tratto
da un manoscritto inedito.
(Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung - raccolti ed editi
da Aniela Jaffé
traduzione di Guido Russo edizione riveduta e cresciuta)
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