Di cosa si ha paura? Beh, dipende. In Italia, stando ai sondaggi, innanzitutto
del terremoto. In seconda posizione delle cose che succedono in politica e al
terzo posto dell’inquinamento. Il quarto posto di questa classifica - stilata
da Demos - invece è occupato da una paura un po’ strana: quella “per il futuro
dei propri figli”. Una paura strana perché troppo generica, potrebbe essere,
per esempio, che ne includa altre, come quella che i propri figli vivano un
terremoto o una crisi economica e questo la farebbe ricadere nella prima o
nella seconda paura più comune. Insomma, sulle paure c’è un po’ di confusione,
ma va bene così, chi mai pretenderebbe di imbrigliare nella logica di un
sondaggio qualcosa di così radicato, profondo e istintivo come la paura. Nemmeno
la razionalità e il linguaggio riescono a renderne conto, la paura sfugge,
scivola via, perché delle ragioni non ha bisogno e le disconosce.
La paura serve alla nostra specie (e non
solo alla nostra) un po’ come a una casa serve un antifurto, non importa che si
sappia cosa ci accade, importa solo che si attivino le sirene dell’allarme in
modo che qualcuno accorra in nostro soccorso - e può tranquillamente capitare
che sia un falso allarme. La paura è un’ammissione di incompletezza, di
bisogno del prossimo. La paura ci ricorda che non si può vivere da soli, si ha
bisogno di un rapporto con gli altri, col mondo esterno, con i suoi mostri e i
suoi eroi, nella speranza che i secondi arrivino a salvarci dai primi.
La storia della paura è, prima ancora
che culturale, biologica: la nostra specie è andata avanti così, a tremare
dietro a un cespuglio sperando che quella grossa tigre dai denti a sciabola non
sentisse il nostro odore, è questo sentimento ad aver dato ai nostri muscoli
l’energia per scappare più veloce, la freddezza utile a non correre rischi
inutili, la furbizia utile a seguire una logica di ferrea
sopravvivenza. Siamo vivi grazie alla paura, ecco perché oggi le frasi
motivazionali come “non bisogna avere paura” o “male non fare paura non avere”
sono roba che non sta né in cielo né in terra: senza paura si vive
malissimo. Persino il pompiere, in barba al mito, ha paura, ed è grazie
alla paura che salva quelle vite. La paura, proprio come il dolore, serve per
renderci conto dei nostri limiti, per sapere cosa c’è oltre le nostre capacità
e per trovare il giusto equilibrio tra capacità, possibilità e rischio. Un
surfista che non ha timore del mare è un suicida e non uno sportivo, un
investitore che non conosce il valore dei rischi che prende fallirà e così via,
se uno scrittore non riesce a provare un minimo di timore per una cosa
complessa e millenaria come la scrittura è difficile che farà i giusti sforzi
per comprenderne l’ampiezza e la portata.
Come dire, per quanto ci piaccia
straparlare di coraggio e di “abbattere” le nostre paure, la verità è che da
queste paure dipendiamo intimamente, è a queste che dobbiamo il nostro essere
vivi, capaci di capire ciò che ci sta intorno e rispettarlo. La paura non
è un sentimento negativo, è una necessità, un bisogno così importante da essere
fondamentale nella vita di tutti noi. Per questo, di nascosto la coltiviamo.
Se la paura ci circonda sin da quando
siamo piccolissimi (in una sgridata di un genitore, in un animale che ci appare
minaccioso o in un angolo buio della casa in cui siamo cresciuti) c’è un
luogo particolare in cui la affrontiamo di continuo: le narrazioni. Le
storie hanno sempre un aspetto spaventoso, persino quelle più innocue che
risalgono ai racconti degli anni della prima infanzia, come le fiabe dei
fratelli Grimm. Quella di cappuccetto rosso, per esempio, o quella di Hänsel e
Gretel sono storie che prevedono che si provi paura come requisito essenziale
del racconto. Ma attenzione, mica le fiabe mettono paura perché, in quanto
bambini, a quell’età ci fa paura qualunque cosa, no: ci fanno paura perché
fanno, obiettivamente, paura. Restando sull’esempio delle storie dei fratelli
Grimm, beh, può sembrare bizzarro ma secondo molti esperti le vicende narrate
sono le rappresentazioni simboliche di alcune paure: la paura dell’abbandono,
quella di perdersi e quella di diventare adulti… Altro che paura come
sentimento negativo o inutile, cosa c’è di più formativo del cominciare ad
affrontare questi problemi? Sono gli stessi, a pensarci bene tocca
ammetterlo, che poi bisognerà affrontare da adulti, a qualsiasi età.
E alla fine è per questo che la paura
serve, è un mezzo, un modo per arrivare a scoprire il mondo, indagarne gli
aspetti più difficili, più intriganti e oscuri come l’ignoto, la solitudine, la
violenza e la sessualità. Nella letteratura, questi aspetti della vita
hanno trovato uno spazio sconfinato, per lo stesso motivo per cui le proprie
inquietudini è più semplice appuntarle su un diario che manifestarle
direttamente a chi ci circonda. Che senso avrebbe sostenere razionalmente
che bisogna temere i clown? Mentre invece un romanzo come It di
Stephen King è un mezzo perfetto per dare spazio a
un’inquietudine che milioni di persone hanno provato nella vita: non importa se
i clown non siano davvero pericolosi, una statistica sulla effettiva
pericolosità dei pagliacci non renderà mai l’idea della sensazione di sconforto
e di timore che si ha davanti a un adulto con un naso a palla, le scarpe troppo
grandi e un trucco pallido e malinconico che lo rende contemporaneamente
angosciante e stranamente simpatico.
Servono le storie, servono i racconti
perché un sentimento collettivo prenda forma: It di King è innanzitutto un sentimento collettivo che si
incarna in una narrazione. Da qui il grande successo, dai tanti elementi della
fiaba, dai rimandi a Lovecraft e dalla scelta dell’autore statunitense di
indagare uno dei temi più spaventosi in assoluto: il trauma infantile, la
possibilità che la nostra memoria si trasformi in una condanna. Chi pensa
di non temere una cosa come la memoria è solo perché non si è mai guardato
dentro con sufficiente sincerità. Leggere It, soprattutto se lo si fa
da adulti, è un ottimo modo per mettere in ordine i propri timori.
Certo, dalla paura rifuggiamo, ma ci
serve, la coltiviamo perché è l’unico processo mentale utile ad affrontare le
nostre fobie, ma anche i nostri traumi. Da questa necessità viene il successo
di molti dei successi di Stephen King, non solo quello di It. E per avere
l’idea della potenza di queste storie è sufficiente sapere che quello di
Stephen King è un successo planetario, secondo la BBC sarebbero oltre 350
milioni le copie vendute - e stiamo parlando di un autore ancora in vita...
Ma anche il successo delle storie frutto
di altre menti geniali come quella di Lovecraft o di Bram Stoker si deve a una volontà di
incarnare nelle storie la paura traumatica, quella più vicina all’ansia e
all’angoscia. Stoker, per esempio, che scrisse Dracula alla
fine dell’ottocento, ripropose, con un mix di fiction ed elementi storici
distorti, alcune credenze riconducibili a Vlad terzo di Valacchia, conosciuto
anche come Vlad l’impalatore, un sovrano che salì al trono della Transilvania -
oggi provincia della Romania - diventando famoso in tutto l’impero per la sua
crudeltà. Vlad è esistito davvero, apparteneva alla casa dei Drăculești, e
anche se non era davvero un vampiro portò avanti una politica così cruenta da
rendere piuttosto accurata la definizione di “assetato di sangue”.
Insomma, il timore per il personaggio del conte Dracula, nato poi da una
penna inglese tre secoli dopo la morte del sovrano, è decisamente giustificato.
Le storie spaventose sono un modo di
affrontare le proprie paure, ma molte di queste non sono personali, sono
pubbliche, storiche, riconducibili a traumi vissuti da migliaia di persone che
li hanno trasmessi oralmente o per iscritto, tramutandoli in storie che servono
da monito e da cura collettiva.
Affrontare le proprie memorie è roba da
eroi (da eroi veri), per questo servono delle storie con dei mostri per
farsi forza, per trovare un nemico e dargli un nome, per mettere a fuoco i
propri fantasmi. E questo vale sia per quelli personali che per quelli
collettivi. Il grado di attrazione che proviamo nel rivivere queste paure è
direttamente proporzionale all’importanza che queste hanno nella nostra
quotidianità. Ecco perché le storie spaventose sono così importanti: sono un
modo per sentire che le nostre preoccupazioni più profonde e scabrose non
attanagliano solo noi, sono pane per i denti di tutti.
L’horror è, in questo senso, il genere
letterario più importante. Segnare sul calendario una data in cui il
genere ha preso forma è difficile, ma sono in tanti a sostenere che la prima
delle storie ascrivibili al genere è Il castello
di Otranto, di Horace Walpole. Anche questa una storia scritta da
mani inglesi, ma ambientata in Italia, in una città salentina il cui celebre
castello esiste per davvero. E anche il personaggio principale della vicenda è
ispirato alla vera storia della vita di Manfredi di Sicilia, ultimo sovrano del
Regno di Sicilia al trono intorno alla metà del duecento. Nessuna storia di
fantasia, per dirla in altre parole, è davvero solo una storia.
Quello di Walpole è considerato il primo
horror, ma tecnicamente sarebbe il primo esempio di romanzo gotico, in ogni
caso, a prescindere dalla categorizzazioni, ciò che importa è che
dal Castello di Otranto in poi la paura si unirà alle vicende
romantiche, facendo finalmente spazio all’angoscia, al timore e al terrore.
Ma la paura, non è una prerogativa
dell’horror, il meccanismo mentale che si innesca col timore che si lega alla
tensione e alla curiosità funziona allo stesso modo con molti altri generi e
sottogeneri: i romanzi gialli, i noir, i thriller e così via. Quella tensione
che ci strega e ci fa leggere pagina dopo pagina senza badare al tempo che
passa si deve al nostro bisogno di paura, di tensione emotiva, è un processo
mentale primordiale, che ha trovato spazio sin dai primi racconti trasmessi
oralmente millenni fa. Il connubio tra paura e narrazione è una roba serissima
che fortunatamente non verrà certo spazzata via dal nostro bisogno di
razionalità e di controllo. La storia della paura nella narrativa è enorme, ma
non c’è bisogno di conoscerla tutta per festeggiare Halloween, per andare al
cinema o per leggere un racconto o un romanzo horror: che sia Pet Sematary di
Stephen King, un vecchio Piccoli Brividi ritrovato in cantina o una meraviglia di
cui oggi si parla molto come Il Re in
giallo di Robert W. Chambers.
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