Un’opinione ormai diffusa sul piano internazionale ma anche tra la
cittadinanza è il disastro, dovuto al non rispetto delle leggi, che
circonda il mondo dell’Università italiana. La ragione principale non è
attribuibile ad una sorta di genetica mancanza di moralità dei singoli docenti
o a una propensione a non rispettare le regole degli italiani in generale, ma è
dovuta soprattutto all’assetto del sistema universitario in vigore, e cioè
all’eccessiva autonomia concessa agli atenei (da decenni, anzi per essere
più tranchant addirittura, con modalità diverse, dai tempi
dell’Unità; sul tema rimando a questa sintetica ricostruzione storica sul “feudalesimo
del reclutamento italiano”). I rettori degli atenei e i direttori dei
dipartimenti contribuiscono fortemente a determinare i meccanismi di scelta
della classe accademica attraverso concorsi clientelari, con una attività
di cooptazione non virtuosa, mascherata da finta selezione
pubblica. E non pagano nessuna penale o sanzione se la baracca (dal punto di
vista del bilancio dei conti, dell’erogazione del servizio didattico, della
produttività scientifica e del merito) continua a marciare malissimo e nemmeno
se qualcuno, come è accaduto di recente (ci sono sentenze con reati
pesantissimi) viene preso con le mani nel sacco, perché il ministero competente
non esercita alcuna forma di controllo e garanzia.
Quanto questo modello di estrema autonomia localistica sia
pericoloso e rischioso ce lo ricordano le tante storie di quello che accade
nelle cliniche e negli ospedali che riducono in modo estremo, spesso criminale,
le loro prestazioni e il loro livello di qualità per favorire guadagni di
singole persone o lobbies. La regola di questo meccanismo malato e, alla lunga,
micidiale consiste nel garantire di fatto quel diritto del singolo potente
docente (il cosiddetto “barone”, prima tradizionale, adesso
tecno-bibliometrico) di sistemare sempre e solo la “merce” del posto, cioè i
candidati interni. Un metodo che umilia costantemente la competizione
scientifica e il confronto intellettuale. Si può parlare, senza scomporsi più
di tanto, di mafia accademica perché, semplicemente, la modalità di azione è la
stessa, cioè tutelare il potere locale a qualunque costo.
La cosa assurda è che questo meccanismo a scapito di molti e a favore di
pochi, che provoca un impoverimento culturale e scientifico dell’intero sistema
e che lo rende sempre meno competitivo economicamente rispetto ad altri paesi
più avanzati, è sostanzialmente previsto per legge. Il modo in cui i potentati
accademici gestiscono (e appaltano) il loro potere attraverso la selezione di
altri docenti a livello locale, infatti, è disciplinato dai regolamenti (diversi)
di ciascuna università, direttamente richiamati dalla cosiddetta “legge
Gelmini”. Successivamente all’emanazione del bando e in diretta applicazione
della legge 240 del 2010 sono state previste alcune procedure selettive, aperte
alla partecipazione di tutti i docenti abilitati di ogni settore
scientifico-disciplinare su scala nazionale, e altre procedure valutative, cui
possono partecipare solo gli abilitati interni all’ateneo. Le singole
università provvedono, quindi, a disciplinare le modalità attraverso le quali i
vari dipartimenti individuano i bandi da emanare, le regole per costruire la
programmazione e le regole delle procedure selettive o valutative e, infine, il
procedimento per la chiamata dei professori (art. 18, comma 1 e 24, comma 2).
Uno studio di due docenti italiani, pubblicato sulla rivista scientifica inglese
“The Lancet”, ha dimostrato come, sul reclutamento per professori ordinari e
associati (anni 2012-2019) delle università toscane alla facoltà di medicina
(Firenze, Pisa e Siena), il 94,3% delle selezioni siano state vinte da studiosi
o medici interni, affiliati al dipartimento che bandiva, e che il
73,9% di essi aveva un solo candidato, quello che doveva vincere. Per fare solo
un altro esempio (ma va detto che, con sfumature più o meno gravi, la prassi è
in uso in tutti i settori di tutti dipartimenti di tutti gli atenei italiani),
all’Università di Foggia è stato calcolato che nello stesso tipo di
reclutamento (anni 2016-2018) su 48 concorsi, in 43 casi ha vinto il candidato
interno, in 41 casi si è presentato un solo candidato, soltanto 2 concorsi hanno
condotto all’assunzione di un esterno (sempre unico candidato) e in soli 9 casi
vi è stato un confronto reale tra candidati, mentre nell’unica occasione in cui
il vincitore era un esterno, l’università non ha proceduto alla chiamata.
Ora, stando a questi dati incontrovertibili e alle numerose sentenze citate
nel mio precedente articolo, appare evidente quanto il sistema del concorso
pubblico all’Università sia una farsa e quanto, invece, attraverso la manipolazione
di meccanismi precisi, oliati e consolidati nel corso degli anni (per
non dire dei decenni), ad esempio le modifiche, anche retroattive, dei
regolamenti dei singoli atenei per pilotare i risultati delle selezioni nella
direzione desiderata, le oligarchie accademiche (per usare un termine soft)
mantengano e anzi consolidino localmente il loro potere, usando risorse
pubbliche per fare interessi privati o comunque di pochi.
Ma proviamo ad entrare più nel merito della questione.
Spesso accade che alcuni atenei modifichino, alla bisogna, i propri
regolamenti, e in particolare per ciò che riguarda le regole relative ai lavori
delle commissioni valutative e per ciò che attiene i criteri
con cui ciascun dipartimento formula i bandi di concorso. Il
risultato è un organigramma di regolamenti degli atenei italiani assolutamente
diversi, incoerenti e, spesso, in contrasto gli uni con gli altri. Tali
modifiche hanno ricadute immediate sia sulla situazione interna dei
dipartimenti, sia sull’esito dei concorsi e sulla selezione e l’avanzamento di
carriera dei docenti. In certi casi le modifiche riguardano una
sopravvalutazione dei compiti istituzionali, come ad esempio il possesso
della delega rettorale, senza parametri temporali. Come si capisce
bene si tratta di modifiche che hanno il chiaro obiettivo di aumentare il
potere decisionale del rettore che può attribuire così delle premialità a
docenti di fiducia, mediante la nomina a presidenti o componenti di organi o
mediante attribuzione di deleghe, senza che rilevi, peraltro, il dato
temporale. In ipotesi, dunque, anche un giorno da delegato viene sopravvalutato
nelle selezioni, con evidente disparità di trattamento rispetto ad interi
mandati negli organi accademici fondamentali, come il Senato Accademico o il
Nucleo di Valutazione. In sostanza queste modifiche hanno il risultato
immediato di rendere assolutamente arbitraria l’autonomia degli atenei nel
senso - per non usare giri di parole - che chi è nelle grazie del rettore ha la
precedenza nelle promozioni di carriera (spesso le indagini degli inquirenti
sul sistema clientelare universitario mette in evidenzia come si tratti di
docenti vicini non solo al rettore ma, a loro volta, ai direttori di
dipartimento).
Anche nel caso della nomina delle commissioni le modifiche (spesso
retroattive) dei requisiti previsti nei regolamenti degli atenei ha un grande
peso specifico nel condizionare l’esito delle selezioni del personale. La
nomina delle commissioni, secondo la prassi accademica, e senza alcun reale
sorteggio, è affidata all’ordinario più anziano del settore messo a bando
(emerge qui in tutta la sua rudezza il deleterio aspetto gerarchico del
sistema), che nella quasi totalità dei casi viene designato come membro
interno (cioè una sorta di presidente che decide tutto, un deus
ex machina). E’ chiaro che, specialmente nelle procedure selettive aperte a
tutti, anche ai docenti esterni, la presenza di un “maestro” sia preordinata
alla protezione di un preciso candidato, quello predestinato che deve vincere
il concorso, per evitare al massimo possibili ingerenze esterne (viste come
vere e proprie “aggressioni” in un sistema assolutamente conformista per non
dire omertoso) e per garantire la “tenuta” della programmazione (basti pensare
che, per bandire ciascun concorso, è necessario un budget intero,
pari a 1 “punto organico” per le prime fasce – docente ordinario - e pari a 0,7
“punto organico” per le seconde fasce – professore associato -, mentre i
ricercatori “valgono” 0,5 “punto organico”; va da sé che nel caso di vittoria
di un candidato interno, questi, alla presa di servizio nel nuovo ruolo,
“restituisce” il budget del ruolo precedente; si comprende
agevolmente, dunque, come la tenuta di tutta la programmazione
finanziaria degli atenei si regga, con un sistema appunto “blindato”,
proprio sulla vittoria degli interni, a scapito però della qualità), mentre per
le procedure interne con più aspiranti, la nomina del membro interno
precostituisce la vittoria all’allievo. In poche parole, con delle
modifiche ad hoc ai regolamenti degli atenei si riducono i
poteri delle commissioni (che andrebbero effettivamente sorteggiate), in
precedenza chiamate a scegliere realmente il vincitore. Spesso e volentieri i
dipartimenti si rifiutano di ratificare gli esiti delle valutazioni delle
commissioni a dimostrazione di un potere burocratico delle singole sedi
dipartimentali che travalica i limiti della decenza. Alle commissioni viene
così attribuito il mero vuoto potere di accertare la qualificazione dei candidati
e non mai quello di formulare reali graduatorie o designare concretamente un
vincitore. Le commissioni ripetutamente nominate in uno stesso concorso (come è
accaduto, ad esempio, all’Università di Bologna) si sono dimesse - o forse sono
state costrette - per ben cinque volte di fila. All’Università Mediterranea di
Reggio Calabria, non ci crederete, ma un concorso universitario è rimasto
“congelato” (e lo è tutt’oggi) per 10 anni, semplicemente perché non si intende
far vincere la candidata più meritevole, che non è la persona per cui il
dipartimento aveva bandito il posto. Per non parlare poi dell’altra enorme
piaga, di cui si è già detto ampiamente, cioè delle modifiche dei regolamenti
di atenei, con le quali si conferisce, sempre con effetto retroattivo, autonoma
e specifica rilevanza al profilo scientifico e didattico inserito nel bando di
concorso, obbligando la commissione ad apposita e specifica valutazione sul
punto. I bandi, così, vengono formulati con profili che valorizzano le attività
didattiche e scientifiche dei candidati interni, i predestinati vincitori,
secondo la prassi comunemente definita dei bandi “sartoriali o
“fotografia”.
Aggiungo un passaggio molto utile per capire i meccanismi illegali usati da
certi atenei, legato alla partecipazione di candidati unici ai concorsi, a
proposito delle ulteriori modifiche dei regolamenti che, in aperto contrasto
con quella legge dello Stato relativa alle pubbliche amministrazioni che impone
loro la trasparenza dei bandi, manipolano le regole sulla pubblicità in
Gazzetta Ufficiale. Alcuni atenei infatti impongono al personale
amministrativo in servizio negli uffici di scoraggiare la partecipazione di
candidati esterni ai concorsi attraverso una illegittima norma regolamentare
sulla pubblicazione dei bandi, che fa decorrere il termine per la presentazione
delle domande dei partecipanti non dall’avviso nella Gazzetta ufficiale,
obbligatorio appunto per legge, ma dalla pubblicazione sul sito dell’ateneo.
Peccato che si tratti - e spiace dirlo qui perentoriamente in faccia a certi
rettori (sul sito di “Trasparenza e Merito” lo abbiamo fatto notare tante
volte), sembra quasi un gioco di parole, un paradosso, ma è la pura realtà - di
una norma contra legem, contro la giurisprudenza amministrativa e
contro la prassi dei dettami ministeriali e dell’Università stessa intesa come
istituzione. Così i bandi, in alcuni casi, vengono pubblicati sul sito
dell’ateneo e solo successivamente si invia l’avviso alla Gazzetta ufficiale,
mentre in certi casi gravi è stato dato un termine di appena pochi giorni
dall’avviso, e in casi ancora più gravi, l’avviso in Gazzetta Ufficiale non è
mai stato pubblicato. Ora immaginate voi la difficoltà e la complicazione
arrecata ai possibili candidati esterni più titolati per partecipare ai
concorsi, che, per venire a tempestiva conoscenza del bando, devono consultare
con regolarità i siti delle circa novanta Università italiane. Metodi,
chiaramente, non degni di un Paese cosiddetto civile (mentre il ministero
competente sta a guardare!).
Un cenno, infine, merita la cosiddetta rilevanza a intermittenza del Codice
etico degli atenei. L’applicazione di questo codice risulta essere
messa in atto secondo la convenienza del momento: in alcuni casi, come per gli
improbabili (e sempre archiviati) provvedimenti disciplinari paventati nei
confronti di docenti non perfettamente allineati ai decisori, si può assistere
ad un insolito ed abnorme rigore, in altri casi, quando tocca il comportamento
irregolare (per non dire altro) dei docenti delle commissioni ai concorsi,
viene abilmente e visibilmente aggirato.
Per darvi l’idea di quanto questo famigerato Codice etico degli atenei sia
assolutamente vuota retorica, proprio come la presenza di formali strutture di
uffici addetti alla trasparenza e alla legalità dell’attività negli atenei
(quasi sempre esistenti solo sulla carta ma inesistenti in concreto, basti
provare a inviare una mail al loro indirizzo per attendere una risposta che non
arriva o che elude le questioni poste, e si comprende benissimo la loro
funzione meramente ornamentale; tanto è vero che gli studiosi sono costretti a
rivolgersi all’associazione “Trasparenza e Merito”), riporto qui l’art. 4 di
quello dell’Università Tor Vergata di Roma:
“A nessun componente dell’Ateneo è consentito di utilizzare,
direttamente o indirettamente, l’autorevolezza della propria posizione
accademica o dell’ufficio ricoperto al fine di indurre altri componenti
dell’Ateneo o terzi a eseguire prestazioni o servizi vantaggiosi per sé, per
propri amici o parenti, sempre che tale esecuzione non sia configurabile come
un obbligo giuridico”.
Sì certo come no! Lo stesso concetto è affermato nel Codice etico
dell’Università di Catania. Peccato che, sia nel caso dell’ateneo siciliano,
sia nel caso di quello romano (come di tanti altri atenei d’Italia), questi
alti principi siano calpestati e resi, quotidianamente, carta straccia, come
dimostrano i reati commessi da rettori, ex rettori e direttori di dipartimento
contestati dalla procura catanese nell’inchiesta “Università bandita”, o come
dimostra il processo per minacce, concussione e tentata corruzione nei
confronti dell’ex rettore del secondo ateneo di Roma.
*Storico, amministratore e responsabile scientifico di “Trasparenza e Merito.
L’Università che vogliamo”
Nessun commento:
Posta un commento