L’indice Doing business della Banca mondiale, una classifica che elenca i
paesi dov’è più facile fare l’imprenditore, ha destato sospetti fin dalla sua
istituzione nel 2003, ma gli economisti hanno cominciato a criticarlo solo di
recente. Anche se la Banca mondiale ha ammesso i suoi difetti, l’indice ha già
danneggiato molto i paesi in via di sviluppo, e dovrebbe essere eliminato. La
Banca mondiale è stata costretta a sospendere la pubblicazione del Doing
business a causa di “irregolarità”. L’ultimo scandalo riguarda una
falsificazione dei numeri: a quanto pare i dati di quattro paesi (Azerbaigian,
Cina, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) sono stati alterati almeno per gli
anni 2017 e 2019, facendo apparire la situazione più rosea della realtà. La
Banca ha avviato una verifica indipendente e si è impegnata a correggere gli
errori.
Questa è però una questione minore rispetto a tutte le altre preoccupazioni
che l’indice solleva. Nel 2018 Paul Romer, all’epoca economista capo presso la
Banca mondiale, ne ha evidenziate alcune. Secondo Romer, nei quattro anni
precedenti alla sua analisi la maggior parte dei cambiamenti nella classifica
dei paesi era stata influenzata dall’orientamento politico dei governi. In
particolare, Romer ha detto che i dati per il Cile sembravano manipolati per
dimostrare che nel paese le condizioni per le aziende peggioravano con un
governo di sinistra. La posizione in classifica del Cile ha fluttuato tra il
25° e il 57° posto tra il 2006 e il 2017: quando era presidente la socialista Michelle
Bachelet la posizione peggiorava, con il conservatore Sebastián Piñera
migliorava. Romer si è scusato, ha insinuato che la Banca aveva manipolato la
classifica per motivi politici, ma in seguito è stato costretto a ritrattare
l’accusa e si è dimesso dal suo incarico. Justin Sandefur e Divyanshi Wadhwa
del Center for global development hanno scoperto che il peggioramento della
posizione del Cile durante le presidenze di Bachelet era unicamente il
risultato di aggiustamenti metodologici. Le leggi e le politiche del Cile non
erano cambiate.
L’indice sulla “facilità di fare impresa” è accolto ogni anno con grande
attenzione dai mezzi d’informazione. Perfino i ricercatori universitari hanno
usato i dati come indicatori del sostegno di un governo agli investimenti
privati. Di conseguenza i governi fanno a gara per migliorare la posizione in
classifica del loro paese, nella speranza di attirare più investimenti
stranieri e aumentare la loro credibilità sul fronte interno. I politici hanno
fatto ricorso a volte a misure disperate (ed efficaci) per beffare il sistema.
Tra i casi più famosi c’è quello del governo indiano, che ha modificato alcune
leggi per migliorare il punteggio del paese, riuscendo a scalare la classifica
dal 142° posto del 2015 al 63° del 2020. Paradossalmente, la posizione
dell’India è migliorata anche se il suo tasso d’investimenti (inteso come quota
del pil) è sceso ininterrottamente, passando dal 40 per cento del 2010 al 30
per cento del 2019.
Com’è possibile che il Doing business si sia sbagliato così tanto? È vero
che possono esserci conflitti d’interesse, ma il problema principale
dell’indice è proprio il modo in cui è stato concepito. Dovrebbe analizzare un
paese nel suo complesso, invece si occupa solo delle leggi dei governi (con l’eccezione
dell’indicatore fiscale, che conta le tasse come una quota del profitto lordo).
Restano fuori alcune norme che hanno un impatto sulle imprese, come quelle
finanziarie, ambientali e sulla proprietà intellettuale. Cosa ancora più
importante, l’indice non considera le condizioni e le politiche
macroeconomiche, l’occupazione, la criminalità, la corruzione, la stabilità
politica, i consumi, le disuguaglianze e la povertà. Oltretutto si concentra
interamente sulla “facilità” di fare impresa e sui costi che le leggi
comportano per le aziende e non prende in considerazione i benefici di queste
norme o il fatto che possano determinare un ambiente nel complesso migliore per
le aziende. Allo stesso modo, considera le tasse solo un costo e non una fonte
di entrate che possono essere usate per creare benefici economici come
infrastrutture o manodopera qualificata.
Nel complesso quindi l’indice Doing business non vede di buon occhio le
regolamentazioni: meno regole ha un paese, migliore è la sua posizione in
classifica. Come hanno osservato Isabel Ortiz e Leo Baunach, l’indice di fatto
“indebolisce il progresso sociale e promuove la disuguaglianza” perché
“incoraggia i paesi a prendere parte ‘all’esperienza della deregolamentazione’,
che comprende riduzioni nelle forme di protezione per l’impiego, contributi
previdenziali più bassi (definiti ‘tasse sul lavoro’) e una più bassa
tassazione per le aziende”. Ortiz e Baunach hanno ragione quando sostengono che
è ora di smetterla di pubblicarlo. E la Banca mondiale dovrebbe scusarsi con il
mondo in via di sviluppo per tutti i danni che questo strumento ha provocato.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
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