Ci incontriamo a casa sua, in un palazzo di Pioltello, a est di Milano. Condivide l’appartamento con due connazionali, che ci accolgono con della frutta fresca e tanta voglia di condividere le proprie storie, altrettanto incredibili e che meriterebbero ampio spazio. Ma ci concentreremo sulle vicende di Nuran perché se le verrà negato il riconoscimento della protezione internazionale sarà espulsa. Ad attenderla, in Turchia, c’è una condanna a cinque anni di carcere per terrorismo, ultimo tassello dopo torture, violenze e l’aver assistito alla morte di molti suoi compagni politici. La aspettano letteralmente in aeroporto e, se il messaggio non fosse chiaro, ogni tanto la polizia si affaccia a casa dei suoi parenti per far vedere che loro sono lì e che il destino della loro Nuran è segnato.
La sua è una
storia che unisce il dramma delle repressioni
violente delle forze dell’ordine turche alla mortificazione della burocrazia italiana per
ottenere protezione internazionale, specie dopo i decreti sicurezza salviniani.
Raccontare la storia di Nuran, emersa grazie al lavoro degli attivisti
dell’associazione milanese Dare.ngo, è
prima di tutto una corsa contro il tempo per evitare il peggio.
Ma andiamo
con ordine. Nuran Yılmaz, curda,
artista del tessile a Smirne, era un membro di spicco dell’HDP prima che le
purghe di Erdogan di fatto lo smantellassero. Dentro al Partito
democratico dei Popoli (in turco Halkların Demokratik Partisi), in quel
laboratorio politico in cui si tenta(va) di unire le energie filo-curde alle forze ambientaliste e femministe della
politica turca, Nuran era la responsabile dei programmi per le donne.
Nel 2012, da Diyarbakir si sviluppa un progetto di emancipazione femminile alla cui base c’è l’idea
che le donne possono partecipare alla vita economica della comunità in ogni
passaggio della filiera produttiva ed essere quindi indipendenti. Il sistema è semplice:
una cooperativa diffusa che
raggiunge Mardin, Sanliurfa, Mersin, Adana e altre regioni del Kurdistan turco. Le donne lavorano la terra, ne raccolgono i
frutti, li lavorano e vendono i prodotti nei mercati e all’ingrosso. A
Sirnak fanno la marmellata di fichi, a Mardin l’olio, a Urfa raccolgono il
cotone e ne fanno vestiti, oltre a raccogliere e vendere pomodori. Fino a
Dyarbakir, dove dalla vendemmia dell’uva di qualità boğazkere nasce un vino
corposo e aromatizzato. Il progetto, nella sua semplicità, funziona alla
grande. Nuran ne è la presidente e per raccontarne i risultati partecipa a
conferenze nelle università di mezza Turchia, alle quali partecipano sociologi
del lavoro da tutto il mondo interessati a capire la struttura della
cooperativa e le possibilità di replicarla in altri contesti.
Ma in un
paese in cui nel solo 2019 sono
avvenuti ben 474 femminicidi e nel
quale, secondo i dati di un rapporto Onu, il 42% delle donne di età compresa tra i 15 e i 60 ha subito
violenza fisica o psicologica da parte del proprio partner, il lavoro di
emancipazione nasce prima di tutto dalla salvaguardia. Così Nuran, d’accordo
con il leader del partito
Selahattin Demirtaş e gli altri componenti del direttivo, partecipa
alla creazione di una struttura di
protezione per le donne in fuga da violenza domestica. In Turchia i
centri antiviolenza hanno una gestione assai ambigua. Le donne che vi ricorrono
vengono registrate e i nominativi comunicati alla prefettura, che molto spesso comunicano ai mariti la presenza nei
centri delle proprie mogli. Queste strutture vengono viste quindi non come
luoghi di rifugio ma come anticamere per eventuali riconciliazioni che quasi
mai avvengono. Così Nuran costituisce una rete di attiviste che, grazie al
supporto dei sindaci dell’Hdp, smista le donne dai centri anti-violenza a
luoghi segreti dove proteggerle e seguirle dal punto di vista medico,
psicologico e legale.
Ma fare politica in Turchia, soprattutto a est, può essere davvero pericoloso. Nuran è a Cizre durante l’assedio a cavallo tra il 2015 e il 2016, quando più di 150 civili vengono uccisi, molti bruciati vivi, dalle forze di sicurezza turca. Riesce miracolosamente a evitare i colpi di un cecchino, ma capisce che il sogno sta per infrangersi. Tra luglio 2015 e maggio 2016 – i numeri sono forniti dal governo turco – nel Paese sono stati uccisi 2.583 “ribelli” curdi. È la fine di ogni speranza di costruire un progetto politico plurale in Turchia, almeno nell’immediato. Ed è il preludio della tempesta.
Nella vita
politica turca, c’è un prima e un dopo il 15 luglio 2016. È il giorno del tentato golpe, la cui
risposta repressiva continua ancora oggi. Da quattro anni, il partito di governo
AKP controlla esercito, potere giudiziario, media e istruzione. Oltre 160 mila tra giudici,
insegnati, poliziotti e personale civile sono stati sospesi o licenziati – quasi il
10% del personale statale – e 77 mila persone sono state arrestate. Come se non
bastasse, dall’inizio del settembre 2016 lo stato di emergenza post-golpe ha
consentito a Erdogan una svolta politica, contro i gruppi curdi e
la cultura curda, nel cui contesto vanno inseriti il licenziamento di decine di
sindaci eletti e l’arresto dei copresidenti dell’HDP per presunti legami con il
PPK. Il colpo di grazia c’è stato nell’agosto 2018, con l’approvazione
parlamentare di una nuova legge antiterrorismo che
sostituisce lo stato di emergenza. La lotta senza quartiere all’attivismo politico ha portato i
compagni di Nuran a essere arrestati
uno dopo l’altro, e i loro progetti
sociali allo smantellamento. La stessa Nuran racconta di essere stata arrestata e torturata durante
un 8 marzo a Istanbul, nel quale si era limitata a manifestare contro le violenze sulle donne,
come stava accadendo contemporaneamente in centinaia di altre città nel mondo.
È stanca di
questa vita, Nuran. Capisce che ha bisogno di prendersi una pausa. Così parte
per l’Europa per distrarsi, trovare qualche amico e ricaricare le pillole.
Atterra in Italia e da lì va in Svizzera, Germania, Austria. Un giorno riceve
una chiamata dalla Turchia. È suo fratello, le dice di non tornare. Hanno
emesso una condanna nei suoi
confronti: cinque anni per terrorismo. Nuran ha poco tempo per capire
cosa fare della sua vita. Vorrebbe stare in Olanda con il suo compagno, anche
lui ricercato in Turchia, ma non può: viene fermata in Svizzera, il suo visto è
scaduto. La polizia elvetica la fa salire sul primo treno per l’Italia. È così
che Nuran Yılmaz, responsabile dei progetti per le donne dell’HDP, si
ritrova sola, senza soldi e senza
nessuna conoscenza, a dormire nella Stazione Centrale a Milano. Intorno
a lei si forma un cordone di protezione di ragazzi africani con cui condivide
il giaciglio. Vegliano su di lei, impediscono che le venga fatto del male.
Prova a far partire la trafila per chiedere la protezione internazionale ed è
l’inizio di un altro incubo, che dura da oltre tre anni e del quale non si vede
ancora la via d’uscita.
Dapprima finisce in un CARA a Varese, dove deve condividere un locale di 50 metri quadri con altre tre donne. Sulla gestione dei CARA, Nuran è molto dura. In Turchia ha gestito l’assistenza di centinaia di donne bisognose, non riesce a capire come mai qui in Italia sia così difficile gestire le necessità primarie delle richiedenti asilo. Gli stessi spazi sono condivisi da donne provenienti da background molto diversi. Per sei mesi, alcune delle ospiti del centro fanno pressione perché possano essere ridistribuite in base alla provenienza e alla lingua, ma non serve a niente.
La vicenda
di Nuran, nonostante ci siano in rete molte notizie sul suo conto, non è
bastato alla commissione, che ha chiesto di approfondire la sua storia. La
richiesta è stata fatta nel marzo 2018; dopo tre mesi, è arrivata una nuova
convocazione. A cui segue un’attesa infinita, giustificabile solo in
piccolissima parte dall’emergenza legata alla pandemia. Del resto i casi come
il suo sono davvero tanti. Lo denunciava Filippo Miraglia a Repubblica un anno
fa, nel raccontare la storia di un richiedente ivoriano. “La macchina continua
a non funzionare, stanno ancora indietro di due anni. Non solo. Dopo il
colloquio il nostro richiedente asilo dovrà aspettare un minimo di tre mesi per
la risposta. Sono i tempi medi. E ancora: in caso di esito positivo, altri mesi
passano per ottenere la stampa del permesso di soggiorno elettronico e nel
frattempo il rifugiato non può fare nulla”, spiegava Miraglia. In un tweet del
20 giugno 2018, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini commentava così
un incontro avuto con i presidenti delle Commissioni territoriali per il
riconoscimento della protezione internazionale durante il quale aveva nominato
250 nuovi funzionari: “Tempi più brevi, maggiore efficienza e diritto d’asilo
solo a chi veramente fugge da persecuzioni e guerre”. Il sistema non ha funzionato, è evidente.
C’è da
capire cosa cambierà con
l’abrogazione dei decreti sicurezza. Il nuovo decreto prevede “un
ampliamento delle competenze attribuite alle Commissioni territoriali per il
riconoscimento della protezione internazionale”. Intanto Nuran rischia carcere, violenze fisiche e
psicologiche. Una prospettiva terribile aggravata da un presente passato
in balìa di una burocrazia logorante. La speranza è quella di potersi riunire
con il suo compagno e di, prima o poi, poter tornare a combattere per la dignità delle donne che
vivono in Turchia. Commissione permettendo.
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