La battaglia per i gasdotti e le pipeline è una costante della storia
europea e mediorientale. Anche quando vengono pomposamente chiamati
«gasdotti della pace» come l’East Med – per il quale l’altro ieri è
stata firmata l’alleanza del Cairo in funzione anti-turca – sono in realtà
portatori di conflitto e in generale, soprattutto in questa fase, hanno
come obiettivo tagliare le importazioni dalla Russia, il maggiore fornitore
europeo di gas.
Questo
chiedono gli americani – facendo leva sui loro satelliti dell’Est – che
intendono far saltare il raddoppio del Nord Stream 2 tra Mosca e la Germania:
ancora prima della crisi in Bielorussa e del caso Navalny, il 7 agosto i
senatori repubblicani incoraggiavano l’amministrazione Trump a imporre sanzioni
alle 120 società europee che lavorano alla pipeline in fase di completamento.
Un segnale
esplicito di come indirizzare gli eventi.
Dove gli
Stati uniti non arrivano con le sanzioni, come nel caso dell’Iran, ci provano
con la destabilizzazione come è avvenuto in Siria. Washington ha come
obiettivo quello di controllare le rotte energetiche, una delle principali leve
della politica estera insieme alla vendita di armi. Anche a questo serve la
cosiddetta «pace» tra Israele e le monarchie sunnite: imporre un nuovo
guardiano del Golfo che con gli alleati arabi tenga a bada il regime sciita.
Il caso
siriano spiega, almeno in parte, perché lì c’è stata e continua a esserci una
guerra. Si parte da lontano. Nel 1947 l’americana Bechtel e la
Saudi Aramco decisero di realizzare una pipeline dai pozzi sauditi alle sponde
del Mediterraneo. Doveva arrivare a Haifa ma il piano fu accantonato dopo la
dichiarazione di indipendenza di Israele.
Si scelse
così un percorso alternativo dalle colline siriane del Golan e dal Libano, fino
a Sidone. Il parlamento siriano però chiese più tempo per esaminare la questione
e la risposta fu un colpo di stato condotto dal colonnello Zaim con l’aiuto
dell’agente della Cia Stephen Meade che rovesciò un governo democraticamente
eletto.
Quattro anni
dopo, nel 1953, un altro colpo di stato anglo-americano detronizzava in Iran il
leader Mossadeq che aveva nazionalizzato il petrolio. Architetto del golpe fu
Kermit Roosevelt jr, nipote del presidente Theodore Roosevelt.
Robert
Kennedy junior, anche lui nipote di un presidente, John Kennedy, ha spiegato
qualche tempo fa in un articolo per la rivista Politico le
vere cause della guerra in Siria. La radice del conflitto armato nasce in
gran parte dal rifiuto del presidente siriano Assad di consentire il passaggio
di un gasdotto dal Qatar verso l’Europa.
«La
decisione americana di organizzare una campagna contro Assad – afferma Kennedy
– non è iniziata a seguito delle proteste pacifiche della primavera araba del
2011, ma nel 2009, quando il Qatar si è offerto di costruire un gasdotto da 10
miliardi di euro che avrebbe dovuto attraversare Arabia saudita, Giordania,
Siria e Turchia».
Questo
progetto avrebbe fatto sì che i paesi del Golfo guadagnassero un vantaggio
decisivo sui mercati diventando fornitori europei in concorrenza con Mosca.
Assad nel 2009 rifiutò dicendo che la pipeline avrebbe interferito con gli
interessi del suo alleato russo, poi intervenuto in Siria nel 2015 cambiando le
sorti della guerra. Ecco perché i russi non se andranno mai dalla Siria come
pure gli americani che hanno appena rafforzato il loro presidio militare ai
pozzi petroliferi siriani.
Dopo il
«gran rifiuto» al Qatar nel 2009, nel 2010 Assad iniziò a trattare con l’Iran,
suo alleato storico, per un gasdotto destinato ad arrivare in Libano passando
dall’Iraq: la Repubblica islamica, se questo progetto fosse mai stato
attuato, sarebbe diventato uno dei più grandi fornitori di gas verso l’Europa.
Fu questo il
motivo per cui i servizi americani, assieme Qatar e Arabia saudita, iniziarono
a finanziare l’opposizione siriana e a preparare una rivolta per rovesciare il
regime baathista. Come
dimostrano le ultime sanzioni imposte a Teheran da Trump e Pompeo, in palese
violazione degli accordi Onu e del trattato del 2015 stracciato da Washington,
l’Iran, che pure ha le seconde riserve mondiali di gas, non può essere trattato
come un Paese «normale».
Piuttosto si
fa una guerra economica o militare: l’anno della pandemia è iniziato con
l’uccisione il 3 gennaio da parte americana del generale iraniano Qassem
Soleimani e si conclude, in piena campagna elettorale, con altre minacce Usa.
E veniamo
all’ultimo capitolo di cui scriveva ieri Michele
Giorgio sul manifesto: l’East Mediterranean Gas Forum (Emgf) che
include Italia, Egitto, Grecia, Cipro, Israele e Anp palestinese, a cui
partecipano anche Eni, Saipem e Snam.
Si tratta di
concretizzare un’alleanza militare già esistente tra Israele, Grecia, Cipro ed
Egitto, sostenuta dalla Francia, contro la Turchia che con un patto parallelo
con la Libia intende prendersi, con le buone o con le cattive, la sua quota di
gas e di «Patria Blu».
Anche qui,
come in Libia, la Nato si disgrega in fronti opposti. Anche qui c’è un gasdotto,
l’Eastmed, che dovrebbe portare le risorse egiziane e degli altri paesi
verso l’Europa. I vertici Eni dicono che costa troppo. Ma se piace agli
americani e a Israele si farà. Tanto la bolletta la paghiamo noi.
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