“Bisogna evitare di perdere altri dieci anni di tempo”: l’agenzia delle Nazioni Unite che lavora su commercio e sviluppo usa la copertina del suo Rapporto annuale 2020 appena sfornato (Trade and Development Report 2020. From Global Pandemic to Recovery for All: Avoiding Another Lost Decade) “per mandare un messaggio molto chiaro alla governance globale”.
Affinché dopo il Covid l’economia globale si riprenda, c’è bisogno che si
rimuovano una serie di “condizioni preesistenti” che ne minacciavano la salute
anche prima della pandemia e che nemmeno la grande crisi finanziaria del 2008
ci ha indotto a affrontare.
L’elenco di
priorità non è di prammatica: Unctad
punta il dito contro quella che definisce “iper-disuguaglianza”, poi
verso livelli di debito insostenibili, investimenti deboli, stagnazione
salariale nel mondo sviluppato e posti di lavoro nel settore formale
insufficienti nel mondo in via di sviluppo.
Il
segretario generale dell’agenzia Mukhisa Kituyi spiega che “la costruzione di un mondo migliore richiede
azioni intelligenti ora. La vita delle generazioni future, anzi del
pianeta stesso, dipenderà dalle scelte che tutti noi assumeremo nei prossimi
mesi”.
Traendo
insegnamenti dalla crisi finanziaria, il rapporto sostiene che ripresa e
riforme, sia a livello nazionale che internazionale, devono andare di pari
passo “se ricostruire meglio significa andare oltre gli slogan e diventare la
stella polare di un futuro più resiliente”.
Quanto
questo invito sarà difficile da raccogliere in Italia, lo si può verificare
negli indirizzi offerti al Governo italiano da Sace, la società di Cassa
Depositi e Prestiti che assiste e assicura le strategie di
internazionalizzazione pubbliche e private del nostro Paese.
Nell’aggiornare
il suo Report 2020 alla luce del Covid, qualifica le sue conseguenze non
assimilandole alla crisi finanziaria del 2008, ma “agli effetti di una crisi causata da un disastro naturale, che
tendono a essere temporanei e riassorbiti più rapidamente”; e,
nonostante evidenzi il rischio tenuta per le catene del valore globali generato
dalla pandemia, sposa la filosofia dell’ex commissario al commercio europeo
Phil Hogan (costretto alle dimissioni da qualche festeggiamento di troppo nella
natia Irlanda senza opportuno distanziamento): “Autonomia strategica non significa che dovremmo puntare
all’autosufficienza” [1].
Più export per tutti?
L’export
italiano era cresciuto nel 2019 prima della pandemia, anche se in misura più
contenuta rispetto al 2018: aveva registrato un +2,3% in valore, rispetto al
+3,6% del 2018, sostenuto dalla domanda dei mercati extra-Ue (+3,9%) a fronte
di una dinamica più contenuta dei paesi dell’Unione europea (+0,8%).
Ora la parola d’ordine delle agenzie italiane competenti è: rimbalzo. Ossia come recuperare entro il
2021 tutto il terreno perduto per tornare ai 476 miliardi di euro di valore per
l’export di beni e 109 miliardi di servizi rispetto ai 422 e 85 che, negli
scenari Sace, si raggiungeranno a fine 2021 (rispettivamente -11,3 e -21,9%).
Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha qualificato la sua azione nel
merito lanciando, a ridosso del lockdown, un Patto per
l’export, sottoscritto e negoziato con le sole parti datoriali, che poggia su sei
pilastri ben diversi da quelli indicati da Unctad: formazione e informazione
all’export, l’e-commerce, il sistema fieristico, la promozione integrata, la
finanza agevolata.
“Abbiamo
superato il periodo più buio di questa crisi sanitaria: ora il Paese può
ripartire, con cautela ma con coraggio. E, finalmente, il motore del Made in
Italy, asset strategico per eccellenza dell’economia e dell’imprenditoria
italiane, può tornare a correre”, spiegava Di Maio presentando la strategia e
il budget straordinario piegato alla richiesta, in parte recuperato da impegni
precedenti e reindirizzato al salvataggio del “true italian taste”[2].
Una parte delle risorse del Recovery fund “dovrà andare all’export: negli anni abbiamo visto
chiudere fabbriche e lasciare i lavoratori per strada”, ha ribadito
Di Maio più di recente.
E infatti
nelle linee guida
del Governo per l’accesso ai fondi Ue per la ripresa, tra gli strumenti di rilancio del
sistema Paese si prevede la conferma degli strumenti straordinari già messi in
campo per sostenere l’export (p. 14) e si vuole favorire
l’internazionalizzazione produttiva “finalizzata a rispondere meglio alle
esigenze di mercato”.
D’altronde
il Governo, nello stesso documento, ricorda che nel 2019 il surplus delle
partite correnti della bilancia commerciale valeva 53,4 miliardi, ossia ben il
3% del Pil nazionale.
Secondo Unctad non è la scelta giusta
Ma è proprio
questa la strada giusta per condurre l’Italia a una ripresa socialmente e
ambientalmente sostenibile? L’analisi di Unctad sulle risposte messe in campo
dopo la pandemia sottolinea che, se l’Italia è tra i Paesi del mondo ad aver
messo più risorse a disposizione delle proprie imprese (p. 15), essendo insieme
alla Spagna lo Stato europeo colpito più severamente dalla prima ondata del
Covid (e per questo avendo dovuto imporre un lockdown più stringente), ha avuto
come la Spagna “maggiori limitazioni in termini di spazio fiscale a
disposizione che ostacolano gravemente la loro capacità di attuare adeguate
misure di soccorso e ripresa economica” (p. 28).
Osservando
alcuni indicatori strutturali del posizionamento del sistema Paese nel mercato
globale, Unctad ci colloca insieme alla Germania, la Francia, i Paesi europei
non appartenenti all’Unione, la Turchia in una classe di “paesi stabilmente in
deflazione” per i quali “la crescita del reddito generata dalla domanda
aggiuntiva raccolta con l’export non viene completamente assorbita dalla
crescita nazionale che rimaneva complessivamente debole” (p. 42) anche al netto
del Covid.
Per l’Italia,
come per la maggior parte dei Paesi del G20, secondo Unctad una delle
principali cause di questa debolezza dipende dal fatto che i lavoratori di
tutti i Paesi del G20 già nel 2019 mettevano in tasca una percentuale del
reddito nazionale inferiore a quella del 1980.
Ad esempio,
negli anni post-2010 in Italia i salari reali sono cresciuti dell’1,1 per cento
e la produttività media è aumentata del 2,9 per cento. La quota del reddito da lavoro, così, si è
contratta nello stesso periodo dell’1,8 per cento. L’Italia si è
giocata la partita della competitività globale consentendo quella che Unctad
chiama con efficacia “wage repression”: una compressione dei costi diretti e
indiretti connessi al lavoro che è stata molto più incisiva, stando ai dati,
nel nostro Paese dell’avanzamento tecnologico per la riduzione dei redditi
degli italiani, ma anche dell’efficacia del sistema produttivo nazionale (p.
68).
Il combinato disposto delle politiche di austerity degli ultimi dieci
anni e di questa “repressione” degli stipendi sacrificata sull’altare della
competizione globale da parte dell’Italia ne ha fatto, secondo la dettagliata analisi
Unctad, la maglia nera non solo della crescita tra i Paesi del G20 (+0,6% a
fronte di una media dell’1,8 nel perimetro, p. 3), ma anche della produttività
che negli ultimi dieci anni è cresciuta da noi del 2,9% a fronte di un +8/+13%
medio nel perimetro G20.
Gli strumenti spuntati della ripresa tricolore
Potremo,
dunque, uscire dalla crisi post-Covid con gli stessi strumenti spuntati con i
quali ci ha sorpreso già indeboliti? Secondo Unctad no, proprio perché “la
crisi del Covid-19 non è apparsa dal nulla – spiega l’agenzia Onu nelle
raccomandazioni dettagliate che rivolge ai Governi delle Nazioni Unite – Ha le sue radici, in parte, in un modello di
crescita estrattiva che si è esteso al modo in cui produciamo cibo,
privilegiando il taglio dei costi e i rendimenti a breve termine a scapito
degli investimenti a lungo termine e dell’impegno per il riconoscimento dei
bisogni delle generazioni future” (p. 113).
Secondo
Unctad, è un’evidenza che, sotto uno stress improvviso ma non imprevedibile “le
catene di approvvigionamento si sono interrotte, generando carenze di
attrezzature mediche essenziali, equipaggiamenti di protezione e attivi dei
farmaci chiave, lasciando le fatture dei fornitori insolute. I modelli di
corporate governance che enfatizzavano la riduzione dei costi in nome di utili
trimestrali vivaci, manifestamente mancano di resilienza.
Le nozioni
di ‘autonomia strategica’ – negata ai paesi in via di sviluppo sotto
un’infinita invettiva contro le distorsioni politicamente ispirate del libero
mercato e l’elogio per le virtù della concorrenza – non sono più tabù”, secondo
le Nazioni Unite.
Però
l’Italia non è isolata nella presbiopia se il più
recente G20 dei ministri del Commercio, pur dichiarando in premessa di voler mettere in
campo “whatever it takes” per uscire dalla pandemia, insiste nell’affermare la
necessità di “lavorare insieme per facilitare il commercio internazionale e
coordinare le risposte in modo da evitare interferenze inutili con i flussi e
il commercio internazionale.
Le misure di
emergenza volte a proteggere la salute – aggiungono – saranno mirate,
proporzionate, trasparenti e – sottolineano – temporanee”, nell’obiettivo di
mantenere un quadro generale di regole per il commercio “libero, equo, non
discriminatorio, trasparente, prevedibile e stabile e di mantenere aperti i nostri
mercati”, non mettendo assolutamente in discussione il paradigma liberista. È
già successo dieci anni fa, ricorda Unctad: dopo la grande crisi finanziaria,
invece di porre sotto controllo finanza e speculazioni con una struttura di
regole e un piano di finanziamenti pubblici condizionati a una ripresa più equa
e sostenibile, si è scelta la strada dell’“iperliberismo”.
Dieci anni persi secondo Unctad, perché con sempre meno regole e
finanziamenti a pioggia per le imprese, in prevalenza quelle più grandi, e gli
Stati a coprire da soli i debiti con tagli e austerity, il numero degli
affamati e dei lavoratori poveri o precari è cresciuto trasversalmente in tutti
i Paesi e l’effetto combinato delle diseguaglianze, dei cambiamenti climatici e
del servizio del debito in continua espansione, aveva paralizzato la domanda
interna e il commercio già diversi anni prima della pandemia.
Una democrazia a misura di multinazionale
C’è
un’ulteriore insidia democratica che ci aspetta tra le pieghe della pandemia.
La riorganizzazione del mercato globale in filiere transnazionali è stato un
punto di svolta non solo pratico, secondo Unctad, ma anche ideologico per la
politica commerciale e per la geopolitica, più in generale.
Visto che le aziende-registe delle filiere raccolgono input intermedi da
varie destinazioni, tutti i fornitori devono rispettare gli stessi standard
tecnici e di prodotto e rispettare tempi di consegna precisi.
Questa
caratteristica della governance delle corporations è stata utilizzata, denuncia
Unctad “per indurre la politica commerciale a spingere per la liberalizzazione
e il livellamento su criteri economici di regole e standard, spesso codificati
in accordi commerciali bilaterali o regionali, e accelerare la spinta alla
liberalizzazione dietro la copertura dell’agevolazione del commercio e degli
investimenti.
In questo
processo, lo spazio politico disponibile per i paesi, in particolare per quelli
in via di sviluppo, per gestire la loro integrazione nell’economia globale in
linea con le esigenze e le condizioni dei propri cittadini, è diminuito
ulteriormente”.
In tempi di
Covid la minaccia è più seria: nel tentativo di utilizzare la pandemia per
spingere verso una liberalizzazione e un’armonizzazione sempre più profonde,
“vari studiosi – rileva Unctad – hanno collegato delle richieste di
‘riglobalizzazione’ alla necessità di una maggiore digitalizzazione della
logistica della catena di approvvigionamento per garantire la trasparenza lungo
la filiera grazie a tecnologie come blockchain.
Ciò, suggeriscono questi studiosi, potrebbe garantire una condizione
fondamentale per le imprese dei paesi in via di sviluppo per rimanere incluse
nelle catene di approvvigionamento e, si presume, potrebbe aumentare la loro
quota nel valore aggiunto totale riducendo i costi di transazione ed eliminando
gli intermediari.
Tuttavia –
evidenzia l’agenzia Onu – la digitalizzazione delle catene di
approvvigionamento ridurrebbe anche gli spazi di governance e monitoraggio
lungo i diversi passaggi, facilitando così il coordinamento e il controllo
centralizzati che, però, rafforzerebbe ulteriormente il potere contrattuale
delle aziende leader, che sono, per la maggior parte, dei paesi sviluppati”.
Le proposte non rinviabili per curare il Paese
L’Italia,
nelle linee guida del nuovo patto per l’export, cita l’importanza del
“reshoring”, ossia del rientro nel mercato comune o interno per le imprese
strategiche, come suggerito anche da un recente
documento di Confindustria dal quale sembra aver preso ispirazione.
L’assenza, però, di un vero confronto strutturato e permanente, che
contempli le rappresentanze sindacali e della società civile, sulle politiche
commerciali, rischia di privare il nostro Paese di importanti elementi di
informazione e analisi sull’impatto economico, sociale e ambientale delle politiche
commerciali.
Lo dimostra
il perdurare di elementi fortemente critici negli effetti delle liberalizzazioni
commerciali e regolatorie in corso con il Canada. Lo conferma il sostegno italiano
quasi in solitaria alla scellerata deregulation prevista dal trattato
Ue-Mercosur che
Francia e Germania mettono in discussione, sia per l’accelerazione alla
deforestazione della foresta amazzonica che provocherebbe, sia per la
concorrenza sleale addirittura “interna” cui sarebbero sottoposti i produttori
europei, legati a regole di qualità e standard produttivi che le stesse aziende
italiane che operano in quell’area non sono tenute a osservare e sostenere
economicamente[3].
Il Governo
Conte ha compiuto un primo, significativo passo soprattutto dal punto di vista
simbolico, con la trasformazione
del Comitato interministeriale per la programmazione economica Cipe, che dal
primo gennaio 2021 si chiamerà Cipes prevedendo
lo sviluppo sostenibile (da cui prende la “s”
finale) nello strutturare le varie iniziative.
Ma tra gli
oltre 500 progetti presentati dai diversi ministeri perché vengano sostenuti
dai fondi europei per la ripresa, e in particolare dal Maeci in tema di
commercio internazionale, non c’è traccia minima di valutazione della
sostenibilità anche teorica, alla luce delle valutazioni di rilevanti soggetti
della governance multilaterale come Unctad, della lungimiranza ed efficacia
delle azioni sottoposte. E l’immarcescibile business
as usual prevale.
Come
associazioni, come cittadini e anche come Sbilanciamoci! chiediamo nuovamente e
con maggiore forza rispetto ai primi giorni di lockdown[4] che il
Governo e il Parlamento aprano un tavolo di confronto strutturato sulle
politiche di internalizzazione che valorizzi l’esperienza e le competenze di
sindacati, associazioni, produzioni bio e solidali, e delle loro
rappresentanze.
Si potrebbe,
così, istruire un processo efficace e inclusivo di qualificazione della
coerenza delle politiche economiche e commerciali nazionali con gli obiettivi
di sviluppo sostenibile, che l’Italia stando alle regole UE dovrebbe rispettare al pari
del pareggio di bilancio.
Un processo
stabile e rappresentativo di confronto e ascolto con tutte le parti sociali,
non finalizzato alla convegnistica ma a una effettiva qualificazione di
programmi e interventi, che il Dipartimento
sviluppo dell’Ocse raccomanda al Maeci e al Governo italiano da molti, troppi
anni.
Una visione
ambiziosa in cui la cooperazione allo sviluppo non sia più elemosina degli
avanzi, ma strumento per cambiare passo tutte e tutti. Un piano di
programmazione pubblica vero e integrato per l’economia italiana, che parta dai
territori, dalle loro vocazioni, condizioni e limiti, e attraversi l’industria,
le reti e i servizi qualificando i territori, promuovendo i diritti e
proteggendo la nostra salute, alleggerendo la nostra impronta sul pianeta. Una
vera rinascita, senza perdere altro tempo.
***
Note
[1] Cfr. https://www.sacesimest.it/docs/default-source/ufficio-studi/pubblicazioni/rapporto-export-2020_web.pdf?sfvrsn=afc8ddbe_0, p. 8
[2] 316 milioni di euro per il Piano straordinario
Made in Italy e gli altri programmi promozionali dell’Ice (comprensivi di
economie derivanti da annualità precedenti); 600 milioni di euro per il
rifinanziamento del Fondo 394/81 ; fino a 300 milioni di euro per il
finanziamento della componente a fondo perduto del Fondo 394/81; 82 milioni per
le attività di promozione e comunicazione previsti dal Dl “Cura Italia”; 30
milioni per un nuovo bando per temporary export manager e digital export
manager, a cura del ministero degli Affari esteri e Invitalia; oltre 8 milioni
in favore della rete delle Camere di commercio italiane all’estero nel segno
del “True Italian Taste”, per promuovere le eccellenze agroalimentari italiane
e contrastare l’Italian sounding; fino a 200 miliardi di garanzie statali per
le imprese italiane attivabili attraverso la Sace, e il potenziamento del
sostegno finanziario all’export mediante la copertura Sace delle attività delle
imprese italiane esportatrici per il 10 per cento e da parte del ministero
dell’Economia e delle finanze, per conto dello Stato, per il 90 per cento.
Cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/di-maio-patto-l-export-ambizioso-ma-solido-ADiKeFW?refresh_ce=1
[3] Cfr. https://stop-ttip-italia.net/tag/ue-mercosur/
[4] Cfr. https://sbilanciamoci.info/coronavirus-serve-una-cura-anche-per-il-commercio-globale/
* Monica Di
Sisto, Vicepresidente dell’Osservatorio su clima e commercio Fairwatch e
Campagna Sbilanciamoci!
Articolo
pubblicato anche per Sbilanciamoci.info
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