(intervista di Rachel Knaebel)
Abolire le carceri, la polizia e anche il sistema penale: l’idea viene
discussa dai movimenti di emancipazione. Ma in questo caso, come rendere
giustizia o proteggere le donne dalle aggressioni sessuali? Intervista con
Gwenola Ricordeau, sociologa, professoressa di giustizia penale in California e
autrice del libro “Pour elles toutes. Femmes contre la prison”-
Sei femminista e vuoi abolire il carcere, il luogo dove si rinchiudono gli
aggressori. Sono posizioni difficili da conciliare?
Sono più che «conciliabili». Il mio lavoro offre un’analisi femminista del
sistema penale e di ciò che fa alle donne. Questo ci permette diverse
osservazioni. In primo luogo, la maggioranza dei detenuti sono uomini, però la vita
delle donne che li circondano, madre, sorella, compagna, figlia, è sempre
influenzata da quest’incarceramento, specie attraverso tutte le forme di lavoro
domestico che ci si aspetta da loro, incluso l’appoggio morale con visite,
lettere, eccetera. Inoltre, se guardiamo chi sono le donne che sono in
prigione, notiamo molte caratteristiche comuni anche ai detenuti uomini: sono
in gran parte di origini popolari e provengono dalla storia di colonizzazione e
migrazione. Però hanno ovviamente le loro particolarità. Un’ampia parte di loro
è stata vittima di una violenza sessuale che ne ha modellato il corso della
vita, l’isolamento sociale o i reati.
E se si osserva la protezione che le donne possono aspettarsi dal sistema
penale, si vede solo un palese fallimento. La sfida del mio libro è quindi
mettere in discussione le maggiori correnti femministe che pretendono di fare
affidamento sul sistema penale per esigere più condanne e sentenze più dure per
gli uomini responsabili di violenza sessuale.
In che modo le politiche sulla criminalità contro la violenza sessuale
rappresentano un fallimento?
Veniamo da decenni di inasprimento delle politiche penali contro la
violenza sessuale per arrivare a 94.000 donne adulte che dichiarano, ogni anno,
di essere state vittima di stupro o tentativo di stupro [in Francia]. Più di
550.000 vittime di aggressione sessuale ogni anno! Io lo chiamo un fallimento
evidente. Non so come qualcuno possa ancora provare a farci credere che questo
tipo di politica possa mai funzionare.
A questo si somma il disastro in cui si trova la maggioranza delle vittime,
dalla presentazione di una denuncia fino all’eventuale processo. Ciò che la
detenzione di certi colpevoli di violenza sessuale permette oggi è solo la
garanzia che non commetteranno aggressioni durante la condanna, ma questo non
tiene conto della violenza sessuale commessa in carcere e dà la sensazione che
non tutti i delitti restino impuniti. A mio avviso, è una consolazione molto
magra in confronto alla dimensione di massa del crimine di violenza sessuale.
Ma è possibile la giustizia fuori dal sistema penale?
La “giustizia” o il “sistema penale” è il sistema che si suppone debba
“impartire giustizia” quando si commettono crimini o violazioni della legge. La
polizia e il carcere sono parte di questo sistema. A partire da qui possiamo
fare diverse osservazioni. Prima di tutto, la giustizia non è sempre giusta. In
base all’origine sociale, etnica o del genere, i rischi di essere processati,
condannati o arrestati non sono gli stessi. Neanche le vittime sono uguali nel
sistema di giustizia penale: a seconda dell’aggressore e delle sue
caratteristiche, non tutte le vittime hanno le stesse possibilità di ottenere
una condanna.
Va ricordato che il sistema penale conosce solo una piccola parte dei
comportamenti problematici e delle trasgressioni sociali. Per due motivi.
Primo, per definizione, il sistema di giustizia è interessato solamente ai
fatti che vengono definiti “violazioni della legge” o “reati”. In secondo
luogo, spesso scegliamo di non coinvolgere il sistema giudiziario penale nelle
nostre dispute o quando ci viene fatto del male.
La giustizia impartita dal sistema penale è essenzialmente punitiva e
retributiva, nel senso che si basa sull’identificazione del colpevole e sul
pronunciamento di una sentenza che rappresenterà una forma di “compenso” al
male subito dalla vittima. Ma esistono altre concezioni di giustizia, in
particolare non punitive, una giustizia “riparativa” o una “trasformativa“.
Su che principi si basano?
La giustizia riparativa si basa sul rimediare piuttosto che castigare,
anche la giustizia trasformativa si oppone alle strategie punitive. Considera
che esistono responsabilità individuali ma anche condizioni sociali che
permettono di commettere determinate azioni. Le pratiche di giustizia
trasformativa che si sono sviluppate in Nord America a partire dall’anno 2000 partono
da una critica della giustizia così come è imposta dal sistema penale.
Inizialmente furono concepite e sperimentate all’interno di comunità, di
circoli statunitensi radicali che di fatto non potevano aspettarsi «giustizia»
dal sistema penale.
Di conseguenza è tra le minoranze etniche e le comunità queer che si sono
sviluppate queste pratiche, in particolare in risposta alla necessità di
giustizia riguardo la violenza contro le donne. Sono pratiche comunitarie, cioè
le persone coinvolte dipendono dalle situazioni in esame. Significa anche che
la “responsabilità comunitaria” è centrale e che i procedimenti mirano a
“trasformare” la comunità. La giustizia penale indica e condanna un colpevole,
la giustizia trasformativa partendo dalle necessità della vittima – sicurezza,
verità – affronta l’aggressore e lavora perché sia implicato in un processo
individuale e collettivo di riparazione e trasformazione. E contribuisce a
cambiamenti collettivi di valori e modi di agire.
Nel tuo libro parli di “populismo penale”, che cosa significa?
L’espressione «populismo penale» è stata usata dagli inizi del 2000 nel
mondo anglofono. Indica il modo in cui le politiche penali, basate sull’aumento
dei movimenti di vittime e di sentimenti reazionari, utilizzano la necessità di
sicurezza della popolazione per giustificare politiche sempre più repressive
che non hanno un reale effetto sul numero di crimini e delitti.
Analizzando le politiche penali, si osserva che negli ultimi decenni, in
Francia come nella maggioranza dei paesi occidentali, le donne sono state usate
per giustificare politiche sempre più punitive. La causa della donna si usa
come pretesto per creare nuove categorie di reati e delitti, per l’allungamento
delle pene, ma anche per innovazioni penali come il braccialetto elettronico o
campioni sistematici di DNA. Le politiche penali in materia di violenza
sessuale, violenza domestica o prostituzione intesa come “schiavitù sessuale”
hanno la pretesa di “salvare” le donne processando certi uomini. Riassumendo,
non dovremmo accontentarci di guardare ciò che le politiche penali fanno
intendere di fare -proteggere le donne- ma dovremmo analizzare quali effetti
hanno sulle donne e sulla violenza contro le donne in particolare.
Pensi che una parte del femminismo abbia perso interesse per il destino
delle donne detenute o che hanno una persona cara in carcere?
Il femminismo dominante raramente ricorda le donne che sono in carcere.
Eppure anche le detenute affrontano il patriarcato e questo influisce nelle
loro vite in molti modi. Molte donne detenute sono state vittime di violenza
sessuale; solo questo dovrebbe bastare per richiamare l’attenzione delle
correnti femministe. Il patriarcato, per le detenute, è anche non essere uomini
separati dai propri figli perché in carcere o per specifiche sentenze
giudiziarie. Sono molto più accusate le donne in carcere di essere «pessime
madri» che i detenuti di essere «cattivi padri». In carcere è diverso anche il
trattamento di uomini e donne, il che rientra in una minore offerta formativa o
lavorativa per le donne, o una sessualità più controllata rispetto agli uomini.
Dovremmo parlare anche della salute sessuale e riproduttiva delle donne in
carcere, delle indegne condizioni di detenzione delle donne trans nelle carceri
maschili.
Il carcere non capita a chiunque. Le donne incarcerate e quelle che hanno
familiari detenuti non sono «chiunque». In alcuni ambienti la detenzione di
qualcuno che amiamo è un’esperienza relativamente comune. Ignorando le donne
detenute e quelle che hanno familiari in carcere, certe correnti femministe
mostrano le origini sociali delle donne che ne fanno parte e la forma di
emancipazione a cui aspirano. Al contrario, movimenti che si definiscono
femminismo popolare, pensati dalle e per le donne razzializzate, come
l’afrofemminismo, riflettono e implementano una sorellanza che non si ferma
dietro le porte delle carceri.
Pensi che i movimenti abolizionisti del carcere non considerino abbastanza
il tema della violenza sessuale e contro le donne?
Questi movimenti sono molteplici, specialmente in termini di strategie e di
espressioni politiche. Ad esempio negli Stati Uniti ci sono movimenti di donne
abolizioniste vittime di violenza, come l’organizzazione Survived and
Punished di New York. Sono abolizioniste esattamente perché hanno
subito quel tipo di violenza, perché hanno vissuto sulla loro pelle il sistema
penale con la sua impostazione punitiva, e perché credono in altri tipi di approcci,
sia per sopravvivere che per finirla con questa violenza. In Francia i
movimenti abolizionisti sono stati a lungo insensibili alle lotte femministe,
in particolare al tema della violenza contro le donne. Penso che questo stia
cambiando man mano che sempre più femministe si interessano alle analisi
femministe del sistema penale e agli approcci abolizionisti. Il collettivo
afrofemminista Mwasi ha una linea abolizionista fin dalla
nascita.
Qual è la differenza tra abolizionismo penitenziario e abolizionismo
penale?
L’espressione “abolizionismo penale” designa correnti di pensiero e
movimenti che, dagli anni ’70, hanno avuto come obiettivo l’abolizione del
sistema penale e quindi delle sue principali istituzioni, ovvero le carceri, i
tribunali e la polizia. Le lotte contro il carcere sono quindi parte
dell’abolizionismo penale. Da parte mia, mi riferisco all’abolizionismo penale
più che all’abolizionismo penitenziario. Condivido alcune analisi che mostrano
che il carcere potrebbe scomparire per molte ragioni: da un punto di vista
capitalista non è redditizio e potrebbe essere sostituito con l’uso di
tecnologia di vigilanza che non comprometta l’ordine sociale. Mirare al sistema
penale nel suo insieme invece che solamente al carcere mette in luce una
posizione politica essenzialmente rivoluzionaria che attacca il capitalismo e
il suprematismo bianco.
I movimenti per abolire la polizia stanno riacquistando slancio negli Stati
Uniti, rafforzati dalle proteste contro la violenza delle forze dell’ordine. È
un fenomeno nuovo o si trova invece in diretta continuità con le richieste di
abolire il carcere?
Come ho già accennato l’abolizionismo penale ha come obiettivo abolire il
sistema penale per intero, il carcere quanto la polizia. Per ragioni
strategiche alcuni movimenti scelgono di focalizzarsi più specificamente su una
sola istituzione, che sia la polizia, il carcere… ma la prospettiva politica è
identica. Le lotte contro il carcere spesso sono state l’aspetto più noto
dell’abolizionismo penale. Oggi l’idea di abolire la polizia si sta estendendo
ben oltre i circoli abolizionisti. Dalla metà dei primi anni 2000, sulla scia
di Black Lives Matter è emersa una distinzione sempre più netta tra i movimenti
che lottano «contro la violenza della polizia» e quelli che lottano «per
abolire la polizia».
Qui le lotte antirazziste giocano un ruolo centrale?
Negli Stati Uniti le lotte abolizioniste sono chiaramente schierate come
lotte contro la supremazia bianca, quindi contro il razzismo del sistema
giudiziario. Non tutti i movimenti antirazzisti sono abolizionisti; alcuni
pensano che si possa riformare il sistema, che serva polizia appartenente alle
minoranze, che si debbano responsabilizzare gli agenti perché usino meno forza
e non adottino comportamenti razzisti. Gli abolizionisti continuano ad essere
in minoranza. Tuttavia, decenni di politiche penali razziste e la portata dei
crimini commessi dalla polizia contribuiscono a far sì che un numero crescente
di persone non creda più negli atteggiamenti riformisti.
Qual è il ruolo del femminismo nel movimento per l’abolizione della
polizia?
Una delle critiche da muovere alla polizia è il suo ruolo nella violenza
contro le donne, per non parlare dei poliziotti che perpetrano questo tipo di
violenza e che rappresentano una percentuale maggiore in questa professione più
che in altre. La critica si può portare a differenti livelli. Prima di tutto si
può criticare la polizia perché protegge solo determinate vittime, le «vittime
buone», perché maltratta le vittime, non interviene quando chiamata, arresta
tutti indiscriminatamente quando sono chiamati a intervenire a seguito di
un’impugnazione per violenza di genere, eccetera. Però i movimenti femministi e
abolizionisti stanno formulando critiche più profonde al ruolo della polizia.
Al giorno d’oggi il ricorso alla polizia e al sistema penale spesso sembra
ovvio per lottare contro la violenza sessuale. Eppure è un sistema
profondamente razzista che incide in modo sproporzionato sulle classi
lavoratrici.
Esistono anche posizioni abolizioniste nei movimenti LGBT, basate
sull’assunto che la polizia non sempre agisce realmente contro la violenza
omofobica?
Le correnti maggiori di questi movimenti non vogliono essere abolizionisti.
Tuttavia esiste una tradizione molto forte di critiche e pratiche abolizioniste
nelle comunità LGBT. Questo sia per la mancanza di protezione che tali comunità
possono aspettarsi dal sistema penale, dalle forme di molestie che subiscono da
parte della polizia e dalla loro maggiore criminalizzazione rispetto al resto
della popolazione.
Anche la giustizia trasformativa è vista come un’alternativa alla polizia?
L’applicazione di procedimenti di giustizia trasformativa elimina la
necessità della polizia. Ma non è in termini di “un’alternativa” che dobbiamo
pensare alla giustizia trasformativa. Come tutte le pratiche che si sviluppano
da una prospettiva abolizionista, vuole soprattutto contribuire a costruire un
mondo dove i nostri bisogni di sicurezza e giustizia, che oggi deleghiamo alla
polizia, siano ottenuti collettivamente.
Fonte: Basta!
Traduzione per Comune-info: Leonora Marzullo
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