“Sesso in carcere, patteggia 6 mesi. Rapporto orale con la compagna nel parlatorio, celandosi dietro la borsa di lei, mentre il figlio attende nella stanza a fianco. Se non avete pietà di lui, mettetevi nei panni di questa donna”. Il tweet, postato da chi scrive, dopo un giorno vanta appena cinque “mi piace”. Praticamente ignorato. Mentre più di mille ne riceve nello stesso tempo un altro, che ammonisce Bianca Berlinguer a non invitare Mauro Corona a Carta Bianca. Il web si tuffa sul teatrino dello scrittore che offende in pubblico la giornalista, dandole della “gallina”, e resta indifferente alla scena del parlatorio, teatro di uno scambio affettivo sfuggito alla sorveglianza del carcere.
Non c’è da stupirsi: l’universo esistenziale della rete è sentimentale, non
simpatetico. Pronto a indignarsi, fatica a immedesimarsi. Ci vorrebbero le
immagini di Fuga di Mezzanotte, capolavoro di Alan Parker che ci riporta alla
ferocia delle carceri turche negli anni Settanta. Susan e Billy nel parlatorio
dopo cinque anni di detenzione, lei che si dispera per la sorte del fidanzato
condannato all’ergastolo, lui che le chiede di scoprire il seno e si masturba.
Forse, molti tra i lettori che ricordano quella scena hanno pianto nel vederla.
Stavolta siamo nel carcere di Cremona, ma non è un film. Il protagonista,
un quarantenne italiano, sconta un residuo di pena per reati contro il
patrimonio. In un parlatorio disadorno incontra la compagna sotto gli occhi
delle telecamere, che spiano quello spicchio di intimità. Nella stanza a fianco
c’è il figlio della coppia. I due si abbracciano. Poi lei, cedendo a una
richiesta dell’uomo, abbozza un improbabile schermo con la borsa e,
nascondendosi dietro di questa, si china su di lui. Come chiamereste questa
scena? Sesso? Amore? Disperazione? Disgusto? Rabbia? Pietà?
Per la legge italiana si chiama ancora “atti osceni in luogo pubblico”. La
prova la fornisce un occhio elettronico, ignoto ai due amanti, che li sorprende
dall’alto. Non resta loro che patteggiare una pena di sei mesi. Ma stavolta
nessuno piange. Perché forse nessuno sa che in Francia, Olanda, Svizzera,
Finlandia, Norvegia, Austria, Germania, Svezia, Spagna, ma anche in Russia,
Croazia e Albania, i detenuti sono autorizzati a incontrare per ore, e talvolta
per intere giornate, la famiglia in miniappartamenti senza alcun controllo.
Nessuno sa che il diritto all’affettività in carcere era stato riconosciuto
dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, annunciata più volte dall’ex
guardasigilli Andrea Orlando e mai portata a compimento. Nessuno sa che quella
riforma il governo Conte uno, quello di Salvini e Di Maio, l’ha richiusa in un
cassetto e ha riconfermato il vecchio regime.
Dovremmo sorprenderci? Siamo il Paese dell’ergastolo ostativo, cioè una
pena senza fine e senza possibilità di accedere a qualsiasi misura alternativa
al carcere e a ogni beneficio penitenziario, a meno che il condannato non
decida di pentirsi e collaborare con la giustizia. E siamo, ancora, il Paese
dove la direttrice del carcere di Reggio Calabria è tenuta per oltre un mese
agli arresti con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver
riconosciuto ai detenuti trattamenti umanitari giudicati inopportuni dal gip. O
il Paese dove la conduttrice di un talk fa l’in bocca al lupo al pubblico
ministero alla vigilia di un maxi processo con oltre 400 imputati, come se
questi fosse un atleta chiamato a battere il record in una gara olimpica. E non
dovesse, per legge, cercare tanto le prove a carico quanto quelle a discarico.
Nel nostro universo civile il carcere è il luogo dove simbolicamente
confiniamo tutto il male del mondo, proprio per non vederlo più. Perciò ci
indigniamo se un magistrato di sorveglianza concede a un detenuto devastato dal
cancro il diritto di morire a casa. Perciò, ancora, l’intercalare “chiudeteli
dentro e gettate la chiave” ricorre come uno stereotipo nel lessico di molti
politici e di altrettanti cittadini comuni. “L’occultamento del delinquente –
scrivono Luigi Manconi e Federica Graziani nel bel libro “Per il tuo bene ti
mozzerò la testa” - corrisponde alla volontà di esorcizzare una duplice
minaccia. Il presunto attentato alla propria sicurezza che il carcere, come
incubatore del crimine, evoca. E la minaccia che da noi, dal nostro inconscio
si proietta sul carcere, per rimuoverlo e rimuovere con esso i nostri incubi.
La prigione per una parte dei cittadini liberi è questo: la sede dove collocare
le proprie ansie e le proprie fobie, il luogo dove sono reclusi coloro che
saremmo potuti e che ancora potremmo essere noi”.
Figuratevi se in questo universo morale c’è spazio per la sessualità nei
luoghi di pena. Se la compagna di un detenuto viene condannata, insieme con
lui, per aver violato il divieto, nessuno storce il naso, perché nessuno
riconosce più l’orrore di una giustizia che diventa la più potente e nello
stesso tempo la più occulta macchina di dolore umano. È la terribile
ambivalenza del vedere e non vedere. Il detenuto indagato nell’intimità, negli
affetti, negli umori e perfino nei bisogni fisiologici, e allo stesso tempo
invisibile alla comunità dei cittadini liberi. A cui un tweet sulla condanna
per un attimo d’amore rubato nel parlatorio fa lo stesso effetto degli alberi
senza foglie in autunno.
Come le foglie d’autunno si sta in carcere, direbbe un grande poeta. Se
ancora ci fosse. Perché la letteratura potrebbe ancora salvarci. Potrebbe
risvegliare l’immedesimazione perduta in questo dolore che ci sta attorno e non
vediamo. O forse anche questa speranza “erra dal vero”. Forse anche gli
scrittori, di questi tempi, rinunciano a vedere. I loro protagonisti, denuncia
Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera, sono quasi sempre commissari.
Anche per la letteratura chiudere la cella e gettare le chiavi è il pensiero
unico del nostro tempo?
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