Se il celeberrimo marziano di Ennio Flaiano, senza
prendersi l’incomodo di scendere sulla terra, s’affacciasse sul nostro facebook
o ascoltasse qualche radio dovrebbe dedurre che gli italiani non sono solo un
popolo di naviganti, di santi e di poeti, ma sono soprattutto un esercito di
teatranti, di spettatori teatrali, di attori, di registi, di consumatori
accaniti di Shakespeare, di cinefili affamati (con propensione netta per i
cinepanettoni natalizi), oltre che di drogati dallo spriz.
Proteste contro le chiusure
Mai tante proteste si sono levate contro una decisione
del governo in tempi
di coronavirus, la decisione di
chiudere teatri e cinema.
Per un mese. Sottolineo: per un mese.
Nella illusione che questo ed altri provvedimenti ci permettano, tra un
mese, di cominciare a riaprire.
Sono il primo, come tanti altri, a dire che la cultura è
risorsa centrale in un paese civile e che le istituzioni dovrebbero investire e
investire molto di più per la cultura (magari
a partire dalle scuole elementari, prima che dai teatri), che il degrado che
sta vivendo questo paese nasce da lì, dallo smarrimento di valori culturali,
dal dissesto della istruzione pubblica, dalla oscena comunicazione televisiva
(sì, forse, per la salute pubblica sarebbe urgente chiudere anche la tv),
eccetera eccetera.
Quanti sono gli spettatori di cinema e
teatro
Però tanto alte grida di dolore per la chiusura
di un mese di cinema e teatri francamente
mi sconcertano. Riesco ancora a contare: secondo l’Istat nel 2018 solo il venti
per cento (arrotondo per eccesso) della popolazione italiana dai sei anni in su
dichiara di essere andata a teatro una volta almeno, è soprattutto tra i
bambini e i ragazzi fino ai 19 anni che si registrano le quote più elevate di
spettatori (quante volte mi sono lasciato travolgere a teatro da
simpatiche scolaresche vocianti), per quasi l’84 per cento degli spettatori si
registra un’affluenza a teatro che
non oltrepassa le tre volte nell’anno, contro un 6,3 per cento di chi vi si
reca sette volte o più (tra questi ultimi si distinguono le persone dai 55 anni
in su)… Risparmio il fiume delle percentuali Istat e mi risparmio il cinema. Se
si chiude un mese, tre spettacoli o sette spettacoli li si recupera in un amen
e si pareggiano altrettanto alla svelta i conti con la propria ansia di
cultura.
E’ ovvio che quanti lavorano nel teatro (penso
ad attrezzisti, costumisti, elettricisti, falegnami, eccetera eccetera) hanno
diritto a rivendicare un sostegno. Non so come: finanziamenti, cassa
integrazione… Vale anche per il cinema:
penso ai gestori di sale cinematografiche, già sufficientemente deserte ben
prima dell’avvento del coronavirus (racconto
sempre quando due anni fa, a Milano, all’Anteo mi capitò di assistere alla
proiezione di Dogman, il bel film di Matteo Garrone, da solo,
circondato dal vuoto totale: roba da prendersi paura).
Ma anche in questa protesta mi sembra di leggere il vizio nazionale (spolverato
nobilmente di amor per la cultura),
che si potrebbe riassumere in quell’acronimo anglosassone divenuto popolare a
proposito di cave, discariche, strade, gallerie, gasdotti, inceneritori: Nimby,
Not In My Back Yard, Non nel mio cortile sul retro. Chiudetemi tutto, ma non…
la piscina, il ristorante, il bar, la palestra, il parrucchiere…
Ciascuno rivendica un dpcm su
misura, come se la pandemia fosse solo affare degli altri, sempre accusando per
ciò che non si è fatto, sempre indicando una giustificazione per i propri
desideri, senza mai avvertire la responsabilità per ciò che si è combinato,
dalle discoteche alle spiagge, dalle scampagnate sui monti al ritorno
all’irrinunciabile movida.
I camion di Bergamo, gli intubati e i
contagiati…
Ho sempre negli occhi la fila dei camion militari che
attraversano Bergamo, gli “intubati” in attesa di sentenza, i quarantamila
morti, i ventimila contagiati al giorno. Quest’altro lockdown di un
mese è niente di fronte a quelle immagini: in fondo
a teatri chiusi, a
palestre chiuse, a ristoranti e bar semichiusi, continuiamo a mangiare, ad
andare a scuola, a lavorare, a camminare, insomma, fortunatamente per molti di
noi, a vivere. Dovremmo rallegrarci per un sacrificio a termine, partecipando
alla salvaguardia di un interesse comune.
Messaggio da Hong Kong
P.s. Ho letto da qualche
parte che il professor Crisanti indica come modelli da perseguire quelli
adottati da Corea e da Taiwan.
Ricopio da un post apparso su facebook alcune righe di
una signora (non cito il nome) che vive ad Hong Kong: “… io vorrei tanto
tornare in Italia ma visto il modo scellerato in cui gli italiani (e gli
europei in genere) stanno reagendo alla pandemia, non so quando sarà possibile.
Gestire una pandemia è difficile e di sicuro le scelte sono discutibili. Però
vi prego: c’è la pestilenza. Il mettere costantemente in discussione tutto non
sta aiutando. Vi imploro di accettare una disciplina a tempo determinato che ci
aiuti a superare questa crisi sanitaria. Noi a Hong Kong da dieci mesi viviamo
a metà: con grande disciplina e pochissima polemica, ma ancora solo a metà.
Mascherine per tutti sempre e senza storie, rare o inesistenti cerimonie
religiose e nessun concerto o teatro. Qualche cinema ma non sempre. Qui
applicano “sopprimere e rilasciare”: quando aumentano i casi sopprimono le
attività. Quando diminuiscono aumentano. Quasi nessuno di noi è andato in
vacanza per cercare di togliere fiato al virus. In Europa non capisco perché
questo sia parso improponibile… qui bar e ristoranti hanno chiuso e i contagi
sono scesi. Perché in Italia è tutto una polemica e un’opinione? C’è una
pandemia! Non si può sperare che passi con questo costante “sì, ma così no” e
mancanza totale di volontà di sottomettersi alle restrizioni inevitabili.
Perché l’esempio asiatico (Corea, HK, Taiwan: democrazie o semi-democrazie) vi
deve sembrare così inutile? Certo che le chiusure servono. Se le persone si
vedono fuori ci sono due considerazioni: intanto fuori il contagio è inferiore
che in locali chiusi. E se le persone si assembrano, multe. Da dieci mesi a HK
abbiamo il massimo di 4 persone alla volta all’aperto (due al massimo da marzo
a giugno). Dura, ma nessuna polemica all’italiana…”.
Scusate per la lunghezza del post scriptum.
Ma davvero il problema erano cinema e teatri? - Andrea Aloi
L’intervento di Oreste Pivetta su Strisciarossa (“Cinema e teatro, troppe proteste per un mese di chiusura”)
è inappuntabile e condivisibile al 94%.
Ecco un 1 per cento di dissenso. Lamentare la chiusura
di cinema e teatri non è uguale al dolersi per la serranda chiusa del
parrucchiere (peraltro gli hair stylist rimangono aperti in base all’ultimo
dpcm) o della palestra sotto casa per il semplice motivo che il tasso di
contagiosità di una sala cinematografica ben regolamentata è tendente a zero, a
differenza di una palestra. Di qui lo sconcerto di categorie dello spettacolo e
relativi utenti. Non si tratta di cacciare la testa sotto la sabbia, di guardare
le cose dall’alto di una villa in collina o di un attico ai Parioli,
imbizzarrendosi perché si ritiene leso il proprio “particulare”.
Molto più normalmente: se si leggono le cifre della
ricerca Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) che registra, su
un pubblico di oltre trecentomila spettatori, un solo contagio Covid da maggio
all’inizio di ottobre dovuto alla presenza a concerti, proiezioni in sala,
recite teatrali, un po’ si resta contrariati. Ciascun individuo è portatore di
esigenze anche interiori e culturali, mica dico che sono istanze superiori alla
permanente o ai colpi di sole, ma un pelino di rispetto in più non guasterebbe.
Poi, è chiaro, la salute e la responsabilità verso la comunità in un tempo di
emergenza vengono prima di tutto e se c’è da limitare – motivatamente – al
massimo affollamenti sui mezzi pubblici di trasporto (è lì, pare, il nocciolo
del problema per ciò che concerne cinema e teatri) lo si faccia e stop.
Pupi Avati e l’ordine pubblico
Ora il 5% di dissenso rimanente. Tra i motivi per cui
le proteste contro la chiusura di cinema e teatri gli paiono
risibili, Pivetta si diffonde ampiamente sulla esiguità dei relativi pubblici.
Ovvero: non vedo masse accalcarsi nelle sale e nelle platee, zitti e buoni. Il
che sarebbe in effetti e per contro un argomento ottimo per non infierire
ulteriormente su un settore gracile, anche se meno negletto della scuola,
dell’Università e della ricerca (scuole e università migliori e più
frequentate, tra l’altro, porterebbero naturalmente ad aumentare il numero dei
fruitori di cinema e teatro).
Gli intellettualini cinefili e i teatrofili, i
lavoratori dello spettacolo e collegati comunque non daranno ulteriore
fastidio, a parte qualche appello o raccolta di firme, né susciteranno problemi
per l’ordine pubblico (certo che vedere Pupi Avati, Raoul Bova e Glauco Mauri
con in mano i fumogeni sarebbe straniante). Quindi meriterebbero almeno il
riconoscimento del diritto a dolersi di una misura che rispetteranno senza
subire ramanzine. Sospetto che il governo abbia in questi giorni problemi di
piazza più seri, con manifestazioni anche dure di uomini e donne sempre più
impoveriti e preoccupati, con rigurgiti violenti ben distribuiti tra
antagonisti di gauche, destraccia manesca, manodopera criminale e ultras del
calcio. Un magma in cui è complesso affondare le mani e su cui è meno facile
emettere sentenze.
Diritto al dissenso: difendiamolo, anche dentro le
nostre coscienze. E stiamo attenti, in nome dell’emergenza, a non
sentire troppa insofferenza per chi alza (educate e civili) voci
fuori dal coro. Credo che – professionisti dei tafferugli a parte – molti
italiani si sarebbero aspettati nei giorni scorsi una comunicazione migliore,
più chiara da parte del governo. Un allarme motivato lanciato con parole
chiare, senza magari tenersi nel cassetto (è un’ipotesi, visto quanto è si è
saputo a proposito della prima ondata Covid) proiezioni e
cifre preoccupanti. Questo Conte II – per quanto molto più digeribile del
Conte I – è una coalizione congenitamente debole e i risultati si vedono, anche
sul piano comunicativo, si spera non sulla tenuta del sistema. Per restare
nell’ambito cinema-teatro, il ministro Franceschini ha garantito aiuti, come
già fatto in primavera.
Che fare degli sciatori
Intanto in Alto Adige fanno valere l’autonomia e
cinema e teatri restano aperti, insieme agli impianti sciistici. E pure in
altre zone alpine stanno già passando la sciolina. Nel dpcm è scritto che “gli
impianti sono aperti agli sciatori amatoriali solo subordinatamente
all’adozione di apposite linee guida da parte della Conferenza delle regioni e
delle Province autonome”, idonee “a prevenire o ridurre il rischio di
contagio”. E vogliamo che a breve non spuntino le linee guida apposite per
impianti e alberghi? Quelle non si negano a nessuno. “Ridurre il rischio di
contagio”? Per una sciata in montagna – dove naturalmente non ci si incontra
mai tra gruppi o persone singole ed è pieno di vigili urbani sullo snowboard –
c’è un rischio accettabile. In sala al cinema o a teatro, luoghi
controllatissimi, invece no. Ok, non tutto si può capire. Per l’intanto
adeguiamoci: c’è un buonissimo motivo per farlo. E un mese passa in fretta, ha
ragione Pivetta. Purché basti.
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