«Ho indossato il guanto nero sulla mano destra e
Carlos quello sinistro dello stesso paio. Il mio pugno alzato voleva dire il
potere dell’America nera. Quello di Carlos l’unità dell’America nera. Insieme
abbiamo formato un arco di unità e forza» (Tommie Smith).
Ora che rivedo quell’immagine, capisco il perché della mia emozione. Lo comprendo solo ora, dopo quarant’anni: di Tommie ero quasi innamorata. Il poster con la scena memorabile me lo sono portato di casa in casa, di città in città, fino a pochi anni fa. Poi è scomparso, perduto in uno degli ultimi trasferimenti.
Contemplo la foto con una specie di groppo in gola. Tuttora mi commuovono
il pugno destro guantato di nero, rivolto al cielo, il lungo braccio snello e
muscoloso, la bella testa china quasi in preghiera. Ancora mi fa effetto la
figura imponente ma gentile per le proporzioni perfette, tutta tesa in quel
gesto ostentato quanto intenso: un corpo esposto con sfida e orgoglio, eppure
raccolto come in meditazione. Soprattutto i piedi scalzi mi hanno sempre
colpita. Non solo per il messaggio, fin troppo esplicito ed eloquente, ma anche
perché esprimono un’inconsapevole umiltà francescana che fa quasi tenerezza.
Solo ora, dopo quarant’anni, quell’immagine mi evoca anche una sorta di
simbolica della crocifissione: Tommie Smith, al centro del podio, è il cristo
nero che si eleva sui due ladroni che gli stanno accanto. Il buon ladrone
afroamericano, John Carlos, replica il suo gesto col pugno sinistro e indossa
una collana fatta di piccole pietre, quasi grani di un rosario, ognuno dei
quali allude a un nero linciato o ucciso solo perché rivendicava i propri
diritti. Il secondo ladrone, Peter Norman, le braccia molli lungo il corpo
quasi muto, in realtà non è insignificante, sembra solo un po’ meno coinvolto.
Certo, è partecipe e complice, ma, sebbene si sia battuto per i diritti degli
aborigeni australiani, non è il maggiore artefice di quel messaggio sovversivo.
Nondimeno, anch’egli indossa il distintivo dell’Olympic Project for Human Rights (Progetto
Olimpico per i Diritti Umani), un movimento che raccoglie i migliori atleti
afroamericani e che rivendica uguaglianza, giustizia, rispetto, non solo
nell’ambito dello sport, ma anche in ogni altro: economico, sociale, civile,
politico… C’è da dire, en passant, che non pochi altri atleti
appartenenti alla medesima sigla hanno deciso di non partecipare affatto ai
Giochi olimpici di Città del Messico; e ciò come forma di protesta per
l’assassinio di Martin Luther King, avvenuto il 4 aprile del medesimo anno, cui
il 5 giugno successivo sarebbe seguito quello di Robert F. Kennedy.
Di Tommie ero quasi innamorata poiché era corpo seducente che si faceva
messaggio politico. Poiché era messaggio politico che si faceva corpo erotico.
Io allora, nel mitico 1968, avevo cominciato appena a balbettarlo, quel genere
di messaggi. Sentivo che essi erano veri, ma troppi e troppo gridati. Temevo
che la loro verità potesse perdersi nell’eco degli slogan urlati e
reiterati.
Sapevo che i nostri corpi erano troppo addomesticati per poter dire senza
parole. Non abbastanza liberi – come possono essere i corpi di chi ha
conservato memoria della schiavitù – per poter essere così eroticamente
sovversivi: il nostro eros, che avevamo appena scoperto, era ancora rinchiuso
in amplessi privati per quanto multipli.
Una protesta pacifica e sovversiva
Fin qui è ciò che io scrivevo, per me stessa, il 16 ottobre
2008, a quarant’anni dalla memorabile protesta, potentemente simbolica quanto
sobria e silenziosa, compiuta da Tommie Smith, detto the Jet, e
John Carlos, con la complicità dell’australiano, bianco, Peter Norman, nel
corso della cerimonia di premiazione dei Giochi olimpici di Città del
Messico: giusto nella città in cui pochi giorni prima, il 2 ottobre, in piazza
delle Tre Culture, nel quartiere di Tlatelolco, si era consumata la strage di
Stato di centinaia di persone, in massima parte studenti e studentesse
impegnati/e nel movimento.
Quando, nello stadio, iniziarono a risuonare le note di The
Star-Spangled Banner, l’inno nazionale degli Stati Uniti, Smith e
Carlos abbassarono la testa e alzarono il pugno chiuso guantato di nero: un
gesto potentemente sovversivo. E tanto più coraggiosa fu la loro contestazione
per il fatto che i tre, in quella finale dei 200 metri, erano risultati vincenti: al primo posto si
era classificato Smith, che con i suoi 19″83 era stato il primo al mondo a
scendere sotto i 20″; al secondo v’era Norman (20″06), al terzo Carlos (20″10).
Essi avrebbero potuto, dunque, avvantaggiarsi delle loro brillanti
performance per incamminarsi verso una luminosa carriera atletica. E, invece,
non appena abbandonarono il podio, essa sarà stroncata e la loro vita diverrà un
inferno. La loro protesta ebbe, certo, immediata risonanza e successo
amplissimi, tanto da divenire quasi mitica, anche grazie all’eco esercitata dal
dilagare del movimento sessantottino in un’area del mondo assai ampia.
Nondimeno, Smith e Carlos saranno costretti a lasciare il Messico entro 48 ore,
poi emarginati, obbligati a esercitare i lavori più umili, a tal punto
insultati, minacciati, perseguitati che la moglie del secondo finirà per
suicidarsi.
Anche Norman, una volta rientrato nel suo Paese, sarà trattato come un
paria e non correrà mai più per le Olimpiadi, nonostante fosse a quel tempo il
più grande velocista australiano mai visto fino allora. Dopo che, il 3 ottobre
del 2006, egli morì a causa di un infarto fulminante, Tommie e John accorsero a
Melbourne per partecipare alle sue esequie: furono loro a trasportare la sua
bara.
Ci si potrebbe chiedere se la mitica protesta del 16 ottobre del 1968
conservi tuttora un valore simbolico e politico tale da avere senso rispetto
all’oggi.
Si pensi alla rivolta, non sempre pacifica, che si è scatenata a
Minneapolis e subito si è ampiamente diffusa, a seguito dell’omicidio
poliziesco, atroce e del tutto arbitrario, dell’inerme afroamericano George
Floyd, soffocato dal ginocchio di un poliziotto che lo ha inchiodato a terra,
senza ch’egli opponesse alcuna resistenza. Ad esso seguiranno molti altri
omicidi di stampo razzista, ugualmente ad opera delle forze dell’ordine,
brutalmente istigati da Donald Trump, che ha minacciato di usare anche
l’esercito contro i rivoltosi. Tutto ciò concorre a dimostrare quanto feroce
e strutturale sia tuttora negli Stati Uniti il razzismo,
istituzionale e non, contro gli/le afroamericani/e, ma anche contro persone di
origine ispanica.
A tal punto che recentemente lo stesso Barack Obama ha dichiarato che “Per
milioni di americani essere trattati in modo diverso a causa della ‘razza’ è
tragicamente, dolorosamente, esasperatamente normale, sia che si tratti di
avere a che fare con il sistema sanitario, d’interagire col sistema giudiziario
o di fare jogging in strada o semplicemente di guardare gli
uccelli nel parco”.
Una tale abnorme ferocia e serialità della repressione poliziesca, fino
alla normalizzazione e banalizzazione dell’omicidio, ha fatto sì,
in tal caso, che alla rivolta aderissero e partecipassero anche un numero non
irrilevante di bianchi; e perfino una parte della stessa polizia la quale, in
New Jersey e altrove, è addirittura scesa in piazza per protestare a fianco dei
manifestanti. V’è da aggiungere che anche l’approccio delle autorità locali è
stato perlopiù all’insegna della comprensione e del dialogo con i dimostranti.
Tutto ciò per non dire dell’emergenza sanitaria che ha fatto sì che i più
colpiti dal Covid19 siano stati gli afroamericani, con un tasso di mortalità
tre volte superiore a quello dei “bianchi”. La pandemia ha provocato anche un
livello altissimo di disoccupazione: a perdere il lavoro sono stati almeno 40
milioni di persone. Tra queste, la percentuale di afroamericani e ispanici,
uomini e donne, è enormemente alto.
Insomma, a sollecitare una così ampia e diffusa sollevazione, non v’è solo
l’insensata e seriale brutalità poliziesca, ma anche le progressive
disuguaglianze e la crescita drammatica della disoccupazione e
dell’emarginazione sociale. Non per caso la rivolta è influenzata dal
movimento Black Lives Matter, che già nel 2014, allorché è nato, ha
affermato una visione politica capace di coniugare l’antirazzismo con la lotta
di classe, nonché con l’antisessismo.
In fondo, una tale dialettica potrebbe essere rappresentata, ancor oggi,
dalla simbolica di quel lontano 16 ottobre 1968: il pugno nero alzato, i piedi
scalzi, la collana di piccole pietre simboleggianti gli afroamericani linciati.
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