Nel 1960, il
critico letterario Dwight Macdonald diede alle stampe un pamphlet destinato
a scavare un solco profondo nel dibattito intellettuale degli anni
successivi: Masscult and
Midcult. Il saggio è incentrato sull’analisi del
rapporto tra la sfera della cultura (la vita della mente) e
quella della democrazia (la vita contemplativa), due dimensioni dell’agire
umano tenute visibilmente distinte per almeno due secoli della storia
occidentale ma che, a partire dal Settecento, con la comparsa dei «romanzi
ancillari» prodotti dai primissimi «artigiani del Masscult» –
come Fannie Hurst e Edna Ferber – sono state interessate da un progressivo
processo di contaminazione.
Secondo
Macdonald, il mantenimento di questa divisione rigorosa rendeva possibile
l’individuazione di due differenti tipi di culture: quella di tipo tradizionale
– la cosiddetta Alta Cultura, riportata dai libri di testo – e
quella narrativa, confezionata appositamente per il mercato, che
potremmo definire Cultura di Massa o, parafrasando
l’autore, Masscult, un «compromesso di gusto medio» tra le
esigenze delle masse e la spocchia saccente dell’aristocrazia colta. Secondo
Macdonald, «l'offuscamento della linea di separazione tra gente comune e
aristocrazia, per quanto auspicabile sul piano politico, ha avuto risultati
poco felici su quello culturale», dato che avrebbe prodotto un sostanziale svuotamento
del ruolo degli intellettuali e una conseguente scarsa resa dell'Alta
Cultura in seno al mondo moderno.
Il mestiere dello scrittore
Con Il mestiere dello
scrittore Murakami Haruki compie un gesto straordinario e
inaspettato: fa entrare i suoi lettori nell'intimità del suo laboratorio
creativo, li fa accomodare al tavolo di lavoro e dispiega davanti a loro i
segreti della sua scrittura.
Anche in
Giappone la distinzione tra letteratura alta (jun bungaku) e
letteratura bassa (taishi bungaku), fino agli settanta del XX secolo,
ha costituito un assioma portante in ambito culturale; tuttavia, pur
trattandosi di una demarcazione rigida e inscalfibile, veniva concepita in
un’ottica completamente differente: gli autori potevano scegliere liberamente
di operare su entrambi i fronti, imboccando a seconda della necessità del
momento la strada dell’impegno letterario o quella della pura e semplice
evasione. Il ricorso a questa seconda opzione era fortemente incentivato dalla
prospettiva di ottenere facili guadagni in tempi relativamente brevi e
dall’esistenza di una convenzione profondamente radicata all’interno della
critica letteraria nipponica, secondo la quale le produzioni destinate alla
fetta di mercato più vasta, quella della taishi bungaku, venivano
trattate in maniera meno severa dagli addetti ai lavori o addirittura non
recensite. Si trattava, quindi, di una dicotomia pienamente istituzionalizzata,
che non intaccava in alcun modo il prestigio letterario degli autori, che
potevano cimentarsi nella stesura di opere di spessore, inquadrabili nello
spazio della jun bungaku e indirizzate a una platea colta, o
di romanzi dai toni più leggeri, destinati a rimpinguare le finanze personali
senza troppi affanni, che di frequente venivano pubblicati a puntate su alcune
riviste femminili e raccolti in volume soltanto in un secondo momento.
Questo stato di
cose rimase intatto almeno fino al 1979, quando uno scrittore ventottenne
proveniente da Kyoto, Haruki Murakami, decise di sfruttare i rari momenti di
lontananza dal Peter Cat, il jazz bar situato del quartiere
Sendagaya che gestiva assieme alla moglie Yoko, per ritagliarsi degli spazi da
dedicare a una passione mai sopita: la scrittura.
Come riportato
dallo stesso Murakami nel saggio autobiografico Il mestiere
dello scrittore, il
mito fondativo della sua attività da romanziere affonda le radici in un lampo
di lucidità che lo investì durante il primo inning di una
partita di baseball degli Yakult Swallows, la franchigia meno blasonata della
città di Tokyo:
«Mi
pare che il primo battitore degli Hiroshima Carp, quel giorno, fosse Takahashi
Satoshi. Per gli Yakult era Yasuda. Nella seconda parte del primo inning,
Hilton spedì la prima palla di Takahashi sulla sinistra, e conquistò la seconda
base. Il bel suono secco della mazza che colpiva la palla echeggiò nello
stadio. Ci furono gli applausi. Fu in quel momento che, senza una ragione al
mondo, tutt’a un tratto pensai: «Sì, anch’io posso scrivere un romanzo!».
L’avvento di
Murakami sul proscenio letterario giapponese creò le premesse per un’effettiva
penetrazione di simboli tipici della cultura popolare angloamericana (Elvis,
Thelonious Monk, Francis Scott Fitzgerald, Truman Capote, J.D. Salinger,
Raymond Carver) all’interno dell’immaginario di un paese che, proprio in quegli
anni, si apprestava ad abbandonare ogni velleità isolazionista e a tagliare un
cordone ombelicale ingombrante, svincolandosi una volta per tutte dalle catene
della tradizione.
La rigida
barriera di separazione tra jun bungaku e taishi
bungaku (o, scomodando nuovamente Macdonald, tra cultura e
democrazia) finì così con lo sgretolarsi definitivamente, unitamente a uno dei leitmotiv più
ricorrenti dell’attività letteraria di quegli anni: la tutela rigorosa dei
valori giapponesi.
Per comprendere
quanto i temi del conservatorismo e della difesa intransigente dei costumi
tradizionali fagocitassero il dibattito intellettuale del tempo basti pensare
che, solamente nove anni prima, una delle colonne della letteratura giapponese,
Yukio Mishima, acceso nazionalista e strenuo sostenitore della restaurazione
imperiale, si tolse la vita praticando il seppuku, il suicidio
rituale della pratica Samurai, dopo aver occupato gli uffici del Ministero
della Difesa in segno di protesta contro l’occidentalizzazione del Giappone,
simboleggiata dall’adesione nipponica al Trattato di San Francisco del 1951 e
dalla conseguente accettazione passiva della smilitarizzazione del paese.
Siamo alle
origini dell’epifania di un nuovo archetipo di autore giapponese, cresciuto nel
secondo Dopoguerra, altamente permeabile all’iconografia pop occidentale e
immerso in un orizzonte culturale ibrido, in cui la musica jazz, i film western
e i romanzi di Hemingway stavano progressivamente contaminandosi con elementi
tipici della tradizione nipponica per dar vita a una narrativa meticcia, dai
contorni mai completamente definiti.
Il successo dei
due romanzi d’esordio di Murakami, Ascolta la canzone del vento (1979)
e Flipper, 1973 (1980), raccolti da Einaudi nel 2016
all’interno del volume unico Vento e
Flipper, scompaginarono i canoni letterari del
Sol Levante, consolidando un processo di rottura dello status
quo per molti versi simile a quello delineato da Macdonald in Masscult
and Midcult e trasmettendo l’idea secondo la quale la letteratura
giapponese potesse finalmente connettersi con il presente.
Un moto di
sovversione radicale di cui era stato iniziatore un altro Murakami, Ryu, che
solamente tre anni prima riuscì ad aggiudicarsi il prestigioso premio Akutagawa
con il suo romanzo di debutto, Blu quasi trasparente, incentrato
sulle esperienze di droga e sesso promiscuo dei suoi giovani protagonisti,
narrate attraverso l’impiego di un linguaggio di sconvolgente durezza per
l’epoca. Una narrazione deflagrante, eretta a partire da un retroterra di
stampo marcatamente occidentale in cui le cerimonie del tè, il teatro kabuki e
altri topos tipicamente autoctoni cedevano il passo a riferimenti
culturali del tutto nuovi, come la poesia di Baudelaire e i dischi dei Doors.
Vento & Flipper
Un giorno, a ventinove anni,
Murakami Haruki era allo stadio a guardare una partita di baseball quando,
osservando la traiettoria della palla finire nel guantone di un giocatore, ha
come un'illuminazione...
Pur trattandosi
di produzioni acerbe o, parafrasando l’autore, di romanzi nati sul
tavolo della cucina, scritti nei ritagli di tempo, senza seguire una
metodologia di lavoro precisa, adoperando un inglese maccheronico che poi
veniva ritradotto in giapponese (non è un caso se, per ben 37 anni, Murakami ha
imposto un veto severo sulla traduzione in altre lingue delle sue opere
prime), Ascolta la canzone del vento e Flipper, 1973 –
che, unitamente al terzo romanzo, Nel segno
della pecora, compongono la cosiddetta trilogia del
ratto – presentano già alcuni marchi di fabbrica tipicamente murakamiani:
la prosa asciutta, i periodi ridotti all’osso, le atmosfere marcatamente beat,
l’influenza della grossa mole di noir americani consumati avidamente durante il
periodo universitario, la ricerca di una solida identità sul terreno scivoloso
della postmodernità, l’amore per la musica jazz, la sacralità della figura
femminile e i brodi primordiali di un universo narrativo ancora in fase di
costruzione, collocato in una zona di intersezione tra onirismo e nichilismo
esistenziale.
Questa doppia
anima si consoliderà come un punto fermo dello stile di Murakami a partire
dalla pubblicazione del suo quarto romanzo, La fine del
mondo e il paese delle meraviglie, in cui vengono oleati gli
ingranaggi della complessa struttura binaria che, negli anni, accomunerà la
stragrande maggioranza dei suoi romanzi, fondata sull’accettazione aprioristica
dell’esistenza di due mondi – il kotchi no sekai (mondo di
qua) e l’atchi no sekai (mondo di là) – e caratterizzata da
due narrazioni che procedono in parallelo solamente in apparenza ma che,
gradualmente, rivelano delle comunanze inizialmente celate all’occhio del
lettore: una variante sul tema del realismo magico sudamericano, in cui aldiquà e aldilà sono
collegati da un sottile fil rouge, travasando reciprocamente
informazioni in un sistema di vasi comunicanti. Come evidenziato da Marco
Cubeddu in un prezioso articolo su Nuovi Argomenti:
«Per Murakami la
struttura concettuale aldiquà / aldilà rappresenta
l’essenza stessa del reale. La parte nascosta, per quanto sconosciuta, è
descritta precisamente nel suo velo di mistero onirico e forma l’intelaiatura
che ha il compito di reggere e conservare la parte che conosciamo, quella
materiale, quotidiana, temporale. Il varco tra le due realtà non è chiuso da
una valvola di ritegno: il passaggio è bidirezionale, in un’attestazione che in
occidente definiremmo paranormale che però non avrebbe dignità nel mondo di
Murakami; nella sua opera non c’è magia o esoterismo. La precisione della
lingua giapponese, il suo andamento paratattico aiuta nella descrizione perfetta
del surreale. La decostruzione della realtà e la sua divisione in un dualismo
in cui i protagonisti vengono immersi come in fluido osmotico rappresenta una
deviazione dallo standard letterario giapponese, e sarà presente in quasi tutti
i suoi scritti fino al suo ultimo romanzo precisamente costruito con
un’architettura evidentemente duale: 1Q84».
1Q84 - Libro 1 e 2
1984, Tokyo. Aomame è bloccata in
un taxi nel traffico. L'autista le suggerisce, come unica soluzione per non
mancare all'appuntamento che l'aspetta, di uscire dalla tangenziale utilizzando
una scala di emergenza, nascosta e poco frequentata. Ma, sibillino, aggiunge di
fare attenzione:« Non si lasci ingannare dalle apparenze. La realtà è sempre
una sola».
Paradossalmente,
l’autore giapponese visse la consacrazione definitiva proprio nel momento in
cui decise di operare una netta un’inversione di tendenza rispetto ai propri
standard abituali. Nel 1987, Haruki Murakami si ripresentò ai propri lettori con Norwegian
Wood, un lavoro atipico per i canoni a cui li
aveva abituati: realistico, sentimentale, ammantato da tinte fortemente
nostalgiche, completamente spogliato da qualsiasi interazione con le
sovrastrutture trascendentali che avevano caratterizzato i romanzi precedenti
e, in definitiva, ben lontano dai tratti costitutivi di quella doppia
anima in bilico tra tangibilità e illusione che lo aveva reso così
apprezzato in patria.
Con Norwegian
Wood, Murakami esplora la strada del romanzo di formazione, addentrandosi
in sentieri hard boiled e avvalendosi per la prima volta di
un io narrante dotato di un’identità ben precisa: Watanabe Tōru, un antieroe
tormentato modellato sullo stampo dei grandi personaggi della narrativa
americana contemporanea, come Holden Caulfield, Jay Gatsby e Arturo Bandini.
Il racconto è
innescato dall’ascolto di un’annacquata versione orchestrale dell’omonima
canzone dei Beatles, proveniente dalle casse dell’impianto stereo di un Boeing
747 diretto ad Amburgo, e si sostanzia in lungo flashback in cui Tōru
ripercorre le tappe che hanno scandito il passaggio dall’adolescenza all’età
adulta: una retrospettiva ambientata in una Tokyo in clima di ribellione, uno dei
grandi serbatoi di rabbia sociale di fine anni Sessanta, scandito da rivolte
studentesche e atti di disobbedienza civile. L’odore acre della morte si
instilla nella narrazione sin dalle primissime righe, assumendo di volta in
volta forme e significati diversi, dal suicidio inaspettato e rivelatore di
Kizuki, il migliore amico di Tōru durante il periodo universitario, alla
dipartita cerebrale e fisica di Naoko, la ragazza di cui è innamorato,
costretta al ricovero in un istituto di cura per le malattie mentali a causa
della sua fragilità psichica, perfetta antitesi dell’altra figura femminile
fondamentale del romanzo, Midori, ottimista e vitale, «attratta dal mondo della
luce almeno quanto Naoko lo è da quello dell’ombra». Norwegian
Wood costituisce una raffinata apologia della fragilità insita nella
natura umana, un monumento alle insicurezze e ai dubbi di una generazione
costretta a scendere a patti con gli effetti collaterali di un’esistenza sempre
più alienante, segnata dai mali dell’incomunicabilità e naufragata nel mare
magnum della tecnologia; un monito contro uno stigma sociale
profondamente radicato nel contesto giapponese: la difficoltà di riuscire a
individuare le parole giuste per esternare i propri sentimenti.
«Ogni
volta che cerco di dire qualcosa, mi vengono sempre le parole meno adatte, se
non addirittura opposte a quelle che vorrei dire. E se cerco di correggermi, mi
confondo ancora di più e peggioro la situazione al punto che alla fine non so
più nemmeno quello che volevo dire. È come se il mio corpo si dividesse in due
parti che giocano a rincorrersi. E al centro c’è questa colonna immensa e le
due parti continuano a rincorrersi girandoci attorno. Ad afferrare le parole
giuste è sempre l’altra parte, e io non riesco a starle dietro».
A quarant’anni
dall’esordio, Haruki Murakami ha ormai acquisito lo status di
autore giapponese più conosciuto al mondo: chiunque abbia mai messo piede in
una libreria, per forza di cose, avrà incrociato lo sguardo con la costina di
un suo romanzo. Non vi è dubbio che si tratti di uno degli scrittori più
influenti del nostro tempo, in grado di esercitare un enorme ascendente sulle
preferenze – non soltanto letterarie – di milioni di lettori: tanto per fare un
esempio, nell’aprile del 2013, pochi giorni dopo l’uscita di L’incolore
Tsukuru Tazaki e i suoi anni di pellegrinaggio, i dischi del
compositore ungherese Franz Liszt che contenevano il brano Années de
pèlerinage, che ha ispirato il titolo ed è un elemento ricorrente del
romanzo, sono letteralmente andati a ruba.
Kafka sulla spiaggia
Un ragazzo di quindici anni, maturo
e determinato come un adulto, e un vecchio con l'ingenuità e il candore di un
bambino, si allontanano dallo stesso quartiere di Tokyo diretti a Takamatsu,
nel Sud del Giappone.
Probabilmente,
il segreto del suo successo risiede nella capacità di aver saputo accogliere
milioni di avventori occasionali della letteratura giapponese negli anfratti di
quel suo alter-mondo ospitale ma, al contempo, non
completamente accessibile: un universo collocato in una dimensione terza,
perennemente sospesa tra la realtà e la finzione, priva di coordinate
geografiche, sociali e culturali ben precise e che, proprio per questo motivo,
ogni lettore, a prescindere dal portato etnico e simbolico di cui è detentore,
impara presto ad apprezzare; un microcosmo fatto di metafore inusuali, terre
parallele e risvolti magici, in cui fanno capolino creature trascendentali
portatrici di significati non sempre decifrabili: che si tratti dei gatti
parlanti di Kafka sulla
spiaggia (2002), delle due lune che svettano nel cielo
in 1Q84 (2009)
o di uno dei personaggi più celebri del suo intero pantheon narrativo,
l’uomo pecora di Dance Dance
Dance (2002), nell’universo di Haruki Murakami la
dimensione della metafisica e quella del tangibile interagiscono tra loro senza
soluzione di continuità.
L’accettazione
di questa conditio sine qua non costituisce la clausola
essenziale di un accordo tacito col lettore che, in breve tempo, viene indotto
ad accantonare ogni pretesa di distinguere la realtà dall’irrealtà per ottenere
in cambio una contropartita inestimabile: la possibilità di tornare a visitare
quei non luoghi, accessibili soltanto attraverso il filtro
della sua prosa, in cui è facile sentirsi a casa.
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