Un esercito di educatori marcia inarrestabile attraverso le periferie degradate, i centro città indecorosi, recidendo le sacche del disagio, sbaragliando la devianza, pacificando le indocili genti che pascolano senza vergogna ai margini della civiltà, redimendo chi è disposto a pentirsi della sua inadeguatezza e consegnando alla legge i recidivi.
Con una certa regolarità l’opinione pubblica è scossa da episodi di brutale
violenza commessi da minorenni su altri minorenni o su adulti più o meno
fragili. D’improvviso lo sconcerto si impadronisce dei più di fronte a video su
YouTube nei quali indifesi insegnanti vengono impietosamente bullizzati dai propri
studenti, ma anche di fronte a episodi ripugnanti come stupri di gruppo,
accoltellamenti, pestaggi. È in queste occasioni che politici, giornalisti,
spacciatori di opinioni, invocano gli educatori: un esercito di educatori.
Questo mantra è il contraltare progressista di chi impugna il manganello, fa
tintinnare le manette, chiede la galera per i genitori e l’abbassamento
dell’età punibile fino al periodo fetale e sbraita per più esercito, più
polizia, più carabinieri, ronde, porto d’armi in allegato ai quotidiani in
edicola e pistole nei distributori automatici agli autogrill. Curiosamente a
quest’ultima categoria appartengono i difensori della famiglia contro agli
assistenti sociali, quando un bambino abusato da un parente viene portato in
una comunità.
Il comune denominatore tra i sostenitori della società law &
order e quelli della società liberale dove “tutti nasciamo uguali e
con le stesse opportunità e poi saranno i nostri talenti a stabilire chi
diventeremo”, è la tendenza a individualizzare il disagio: i ragazzi che
commettono atrocità sono individui con qualche problema, risolvibile con la
galera o con un percorso educativo a seconda dell’orientamento del maître
à penser. Così come secoli fa, ancora oggi si tende a considerare il
comportamento violento un problema d’indole o, addirittura, di spessore morale;
quindi, se un ragazzino partecipa a uno stupro di gruppo, pesta un altro
ragazzino o lo accoltella è perché è fatto così, è cattivo: “Franti tu uccidi
tua madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise!”.
Se tutto si riduce a una questione morale, o qualche positivista potrebbe
dire genetica, “perbacco è tutto scritto nel Dna!”, si capisce allora che tipo
di esercito deve essere quello degli educatori: un esercito della salvezza. Nel
caso della natura genetica del male passeremmo, addirittura, dalla missione
salvifica a quella miracolistica! Non si capisce in base a quale particolare
disposizione un educatore, nell’incontro empatico, si dice così, con il
ragazzino deviante, dovrebbe mostrargli che la vita non è tanto male, che ci
sono tante possibilità e che è solo una questione di volontà coglierle o meno.
Ecco, è una questione di volontà. Quindi se non le cogli, le occasioni, è colpa
tua.
Che poi l’educatore, se non è un volontario, sia un lavoratore precario,
sfruttato, malpagato, frustrato, represso, calpestato, odiato, è una cosa che
nessuno mette in conto, ma che potrebbe comprensibilmente inficiare la sua
capacità di prospettare al ragazzo praterie sconfinate di possibilità. Meno che
mai potrebbe essere, agli occhi del giovane deviante, un modello salvifico di
identificazione.
Eppure, caso strano, nessuno nell’invocare l’esercito degli educatori
rivendica un miglioramento delle condizioni di vita delle truppe. Neanche gli
stessi soldati. Questo succede perché anche molti educatori si sentono
investiti di una missione salvifica, sono convinti che il loro lavoro consista
nel salvare gli assistiti, nel redimerli, nel farli diventare persone migliori.
Anche molti educatori, quindi, condividono l’orizzonte morale del disagio
giovanile, si possono far diventare buoni i cattivi: “Franti tu uccidi tua
madre! – Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame scoppiò in un
pianto disperato!”.
L’abnegazione personale, la vocazione salvifica, operando di fatto come
fattori di rimozione delle condizioni di vita dell’educatore, che con il suo
lavoro occupa un segmento preciso della catena di produzione e riproduzione
sociale ed economica, nascondono la violenza di cui quelle condizioni di vita
sono espressione. La precarietà lavorativa, che diventa precarietà
esistenziale, che conduce tanti laureati di vario livello sulla strada della
proletarizzazione o, in termini più contemporanei, dell’impoverimento rispetto
alle condizioni economiche della famiglia di provenienza, è di fatto la
manifestazione di una violenza sistemica che attiva un ascensore sociale al
contrario, che spinge le persone verso il basso.
L’educatore che subisce questa forma non spettacolare di violenza incontra
sulla sua strada giovani, provenienti spesso da contesti nei quali non c’è mai
stata nessuna forma di ascensore sociale, né verso l’alto né verso il basso,
che vivono un quotidiano fatto di relazioni affettive brutali, prive di
elaborazione, inabilitanti sul piano cognitivo, che trovano nelle istituzioni
come la scuola moltiplicatori di disagio per la pochezza e l’inadeguatezza dei
mezzi e, talvolta, l’impreparazione del personale docente, che hanno nella
violenza, in quanto possessori di un corpo, l’unica possibilità di affermazione
e di riconoscimento rispetto al contesto nel quale vivono.
Non c’è una strategia esplicita, una pianificazione, al fondo dell’uso
della violenza che i ragazzi fanno, ma l’esibizione di atteggiamenti aggressivi
e il tentativo di imporsi attraverso l’esercizio nudo e crudo della forza sono
una possibilità presente negli abituali rapporti sociali: chi ha visto Briatore
imitare Trump in Apprentice Italia, può capire come a un ragazzo delle tante
periferie urbane italiane possa venire in mente che prendere a calci un altro
ragazzino per stabilire chi comanda sia tutto sommato lecito.
Di fronte a questo tipo di violenza, che non ha niente a che fare con
l’indole o la moralità della persona, ma è la diretta espressione della nostra
organizzazione sociale, la base su cui si fondano in gran parte le nostre
relazioni anche affettive, l’educatore salvifico non ha strumenti, perché
l’intento missionario con cui rimuove la consapevolezza della sua condizione di
sfruttato gli impedisce di vedere le dinamiche sociali che sono alla base dei
comportamenti violenti dei ragazzi. L’educatore con il suo fardello di violenza
subita inconsapevolmente incontra il ragazzo con il suo bagaglio di violenza
agita, ma non metabolizzata, e ne risulta disarmato, impotente.
Questa impotenza, quando non porta l’educatore al burn-out, lo spinge a
rifugiarsi in una narrazione fantastica del suo lavoro nel quale ogni alito di
vento è una dichiarazione d’amore, mentre la violenza delle relazioni sociali
resta sostanzialmente immutata. L’esercito degli educatori è un album di
figurine.
Più che salvare il prossimo e redimere i ragazzi, l’educatore dovrebbe
partire da un profondo lavoro di coscientizzazione, che lo renda consapevole
del senso del proprio lavoro. Per fare questo l’universo atomizzato e precario
degli educatori dovrebbe attivare al suo interno delle sinapsi: entrare in
contatto, abbandonare la narrazione dell’individuo come alfa e omega
dell’esistente, che ha avvelenato l’umanità negli ultimi quaranta anni, e riscoprire
la dimensione collettiva. Percepirsi e iniziare ad agire come soggetto
collettivo pronto a fronteggiare un sistema di produzione e riproduzione
sociale ed economico che ha nella marginalità, nell’alienazione e nella
violenza che ne deriva il suo nutrimento. L’educatore dovrebbe riscoprire la
natura sostanzialmente politica del suo lavoro.
All’università insegnano che l’intervento educativo per essere tale deve
trasformare i soggetti e i contesti abitati dai soggetti. Però all’università
nulla dicono su ciò che fonda i contesti; i giovani educatori lo scoprono sulla
loro pelle e per lo più si rifugiano nel meccanismo rimossivo: nessun individuo
può fronteggiare un intero modo di produzione. Ma come soggettività collettiva
l’educatore potrebbe arrivare alla consapevolezza che un intervento educativo
per essere tale deve mirare a essere rivoluzionario.
Allora il problema non sarà più pacificare un soggetto alienato facendogli
ingoiare o rimuovere la sua alienazione, ma renderlo consapevole delle ragioni
di una violenza che è solito agire senza elaborarla. In termini un po’ estremi
si potrebbe dire che la funzione dell’educatore non è nascondere il sasso che
il ragazzo sta per lanciare, né tantomeno convincere il ragazzo a non
lanciarlo, dato che i motivi della sua rabbia vanno oltre il gesto in sé, ma
aiutarlo a comprendere le ragioni profonde del suo gesto mettendolo nelle
condizioni di scegliere se o contro chi lanciare il sasso.
“Il Direttore guardò fisso Franti, in mezzo al silenzio della classe, e gli
disse con un accento da far tremare: – Franti, tu uccidi tua madre! – Tutti si
voltarono a guardar Franti. E quell’infame baciò il Direttore sulla bocca!”.
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