Per chi, come me, ritiene di
ritrovarsi in un mondo ridicolo, nell’era più ridicola della storia, cui
felicità è solo un’impalpabile illusione decantata da chi, della felicità, non
ne sa cogliere che l’aspetto più vacuo e artificioso, i significati stanno
altrove. Il senso della vita, sta altrove. Per chi, come me, fa della
letteratura un’entità dirimente, tra chi è vivo e chi sopravvive, leggere e
rileggere Fëdor Dostoevskij è aria da respirare,
l’unica aria possibile da respirare. E Dostoevskij e il respiro sono le
stigmate di un altro autore a me caro, per me fondamentale: Thomas
Bernhard. Ora, per cogliere almeno un riflesso
della poetica, della profondità, dell’abisso dell’animo di Thomas Bernhard,
leggere i suoi libri autobiografici è passo fondamentale (son cinque, tutti
necessari: L’origine, La cantina, Il respiro,
Il freddo, Un bambino; sempre sia lode ad Adelphi), è passo decisivo
oltre che catartico. E l’animo e la vita di Thomas Bernhard son stati legati a
infinito filo con la sua malattia, col respiro appunto,
con i polmoni che l’hanno perseguitato sin dall’adolescenza e quindi ucciso a
soli 58 anni, nel 1989. Se nel volume (il terzo dei cinque) Il
respiro abbiamo lo scrittore ancora adolescente che si ritrova
ricoverato a Grossgamin con una sospetta tubercolosi, nel successivo Il
freddo la tubercolosi è ferale certezza. Ed è in questo passo
autobiografico, il suo soggiorno al sanatorio di Grafenhof, che Dostoevskij si
palesa per dare un senso, il senso, alla vita dello
scrittore. Il respiro e Dostoevskij. Tutto torna, tutto si spiega.
*
Urge però cominciare da un preludio:
durante il ricovero a Grafenhof la madre di Thomas, da tempo malata di cancro,
viene a mancare. E Bernhard lo viene a sapere nel modo più crudele e grottesco
possibile: “Fu allora che scoprii un giorno nella rubrica ‘annunci mortuari’
del giornale che avevo portato con me sulla panchina il seguente annuncio
‘Herta Pavian, 46 anni’. Era mia madre. Lei si chiamava Herta Fabjan, ma senza
dubbio il nome Pavian era frutto di un fraintendimento del giornale che si
faceva comunicare quotidianamente per telefono i decessi del giorno per
pubblicarla in una rubrica nascosta ma letta avidamente da tutti. Herta Pavian!
Corsi nella mia stanza e dissi al dottore, il quale giaceva nel suo letto più
morto che vivo, che mia madre era morta e che il suo decesso veniva riportato
dal giornale sotto il nome di Herta Pavian anziché sotto il nome giusto di
Herta Fabjan. ‘Herta Pavian, 46 anni’, ripetevo in continuazione tra me e
me”. Bernhard ottiene il permesso per poter almeno andare al
funerale, ma il grottesco di quell’annuncio rende insopportabile persino
l’ultimo addio: “Continuavo a sentire da tutte le parti la parola ‘Pavian’ e
per finire fui costretto a lasciare il cimitero prima ancora che la cerimonia
finisse. Pavian! Pavian! Pavian! sentivo urlare nelle mie orecchie e lasciai
precipitosamente il paese senza aspettare i miei, e feci ritorno a Salisburgo”. Il
mondo di Bernhard crolla a pezzi, in briciole, in polvere: “Adesso
ho perso tutto, pensavo, adesso la mia vita è completamente senza senso. Mi
piegai al corso della giornata, non mi preoccupavo più di nulla, subivo
passivamente ogni cosa. Lasciavo che tutto si avvicinasse a me purché niente
assumesse una forma distinta, sopportavo le cose soltanto quando erano
indistinte, confuse. Trascorsi alcune settimane in questo stato”.
*
A salvare Thomas sono i libri. A
dare una speranza, uno scopo, un motivo di vivere, e non sopravvivere, è in
particolare un libro. Il libro di tutti i libri, per Bernhard (e per chiunque
colga il significato del leggere): “Mi immersi in Verlaine
e in Trakl, e lessi ‘I demoni’ di Dostoevskij, un libro di una tale
insaziabilità e radicalismo, e anche di una tale grossezza non lo avevo mai
letto in tutta la mia vita, mi inebriai e per qualche tempo mi perdetti
totalmente nei ‘Demoni’. Quando ritornai in me, per un po’ non volli leggere
nient’altro perché sapevo con certezza che avrei avuto un’immensa delusione,
che sarei caduto in un abisso terrorizzante. Per settimane intere rifiutai
qualsiasi altra lettura. La mostruosità dei ‘Demoni’ mi aveva fortificato, mi
aveva mostrato una via, mi aveva detto che ero sulla buona strada per ‘venirne
fuori’. Ero stato così colpito da un’opera letteraria impetuosa e
grande che io stesso ne ero uscito come un eroe. Non mi è accaduto spesso, in
seguito, che un’opera letteraria esercitasse su di me un influsso così immenso.
(…) Il pudore che mi tratteneva dallo scrivere poesie era più grande di quanto
avessi pensato, e quindi mi astenni dallo scrivere anche una sola poesia. Cercai
di leggere i libri di mio nonno ma non vi riuscii, ne avevo passate troppe nel
frattempo, avevo visto troppe cose, li misi da parte. Nei ‘Demoni’ avevo
trovato una consonanza. Cercai nella biblioteca altri prodigi di quel genere,
opere altrettanto eccezionali, ma non ce n’erano più. È superfluo elencare i
nomi degli autori di cui ho aperto i libri per poi richiuderli immediatamente
perché quei libri non potevano far altro che disgustarmi per la loro pochezza e
meschinità. La letteratura, fatta eccezione per ‘I demoni’, non era fatta per me,
ma io pensavo che di questi ‘Demoni’ ne esistono certamente altri. Ma certo non
dovevo cercarli nella biblioteca del sanatorio, che straripava di ottusità e
cattivo gusto, di cattolicesimo e nazionalsocialismo Ma come fare a procurarsi
altri ‘Demoni’? La sola via possibile per me era lasciare Grafenhof al più
presto e cercare in libertà altri ‘Demoni’”. Bernhard, dopo quasi un anno
lascia Grafenhof. Segue controvoglia le indicazioni mediche, salta i controlli,
avrebbe quindi bisogno di ritornarci. Ma è deciso. Ha deciso. Le sembianze che
avrà la sua morte già le conosce, il suo respiro è compromesso per
sempre. I demoni li troverà e li
scriverà, nelle sue pagine e nei suoi libri. Ma non bastano queste poche
righe per raccontarli. Ci sono le sue opere. Divoratele.
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