«Sarebbe bello se vedere e rabbrividire
fossero uniti etimologicamente»
Ludwig Hohl
Credo che sia stato ampiamente provato, anche scientificamente, che noi vediamo soprattutto col cervello. Cioè vediamo quelle cose che riusciamo già a riconoscere, o che possiamo paragonare con altre cose che già conosciamo.
A questo proposito, lo scrittore Ludwig Hohl racconta di un pastore che era capace di riconoscere, fra tutti gli animali, soltanto le pecore. E se per caso s’imbatteva in una mucca o un asino, per lui c’era soltanto uno spazio bianco ed ammetteva tranquillamente di non vedere niente. Se poi da quel «niente» riceveva un calcio, si lamentava perché gli facevano male le reni, ma non riusciva ad ammettere la presenza di qualcosa che non conosceva.
Mi viene in mente questa storia, che parrebbe quasi inverosimile, perché in effetti registra una situazione che mi sembra di vivere ogni volta che mi propongo di scrivere. Ho la sensazione di avere qualcosa davanti, qualcosa che può avere i contorni di una storia o di un paesaggio, che però non riesco a vedere. A volte sento anche di aver ricevuto qualche calcio che mi fa pure male. Ma ugualmente non riesco a distinguere nulla. E come mai, mi chiedo, pretendo di usare la scrittura per scoprire questo qualcosa che non sono capace di vedere?
Devo dire che quando mi accingo a scrivere (per esempio questo testo) ho quasi sempre l’impressione di non sapere niente, o meglio che tutto quello che so sia come sospeso, confuso. È un atteggiamento che può avere risvolti negativi: è la paura del foglio bianco, che spesso mi assale e che può portare a lunghi e frustranti stati di paralisi, di assoluta cecità. In quei momenti prevale la sensazione che tutto ciò che si vede, e si vive, non possa entrare nella propria scrittura, perché magari lo si riesce solo a riportare in parole e in frasi, già largamente riconoscibili, che pare non esprimano o mostrino più nulla. «Lo scrittore», sostiene Max Frisch, «sottopone le proprie percezioni alla domanda se siano degne di descrizione, e vive malvolentieri ciò che in nessun caso si può ridurre in parole. Questa malattia professionale degli scrittori ne riduce molti all’alcolismo».
E Kafka, ribaltando un po’ il problema, e cioè cercando di scorgere le potenzialità percettive che possono derivare da un atto di scrittura, annotava in una delle ultime pagine del suo diario: «Strana, misteriosa, forse redentrice consolazione dello scrivere: uscire dalla fila degli uccisori, osservare i fatti. Osservazione dei fatti in quanto si crea una specie superiore di osservazione, superiore, non più acuta, e quanto più è superiore, quanto più è irraggiungibile partendo dalla “fila”, tanto più diventa indipendente, tanto più segue proprie leggi di moto, tanto più la sua vita è incalcolabile, gioconda, ascendente».
Ho letto e riletto più volte questo brano. Mi sembra che Kafka sia riuscito a sondare, molto in profondità, quel particolare rapporto che s’instaura fra scrittura e osservazione. Infatti coglie lo sguardo che nasce dalla scrittura, che si esercita mentre si scrive. Ma avverte anche i pericoli dell’oblìo, dell’indistinto, che può esercitare la scrittura sullo sguardo. E appunto lo scrivere che permette di «uscire dalla fila degli uccisori», dice Kafka; è la scrittura che rende possibile l’osservazione, facendone un atto, un movimento verso una forma. Ma proprio seguendo questo movimento si corre il rischio di andare verso forme che si allontanano sempre di più da ciò che si vorrebbe descrivere, da quei fatti che si vorrebbero osservare.
«Ancora una volta», consiglia Peter Handke in un suo diario, «evita, di pensare col linguaggio, rimani nelle cose e nel loro splendore. Così diventa il linguaggio reale, così il linguaggio diventa reale. Non pensare al linguaggio. Ed è proprio scrivendo che corro meno il rischio di pensare col linguaggio tradendo le cose». E in una poesia di qualche anno prima lo stesso Handke diceva: «Da adolescente/quando appariva un senso del mondo/provavo solo il piacere di qualcosa da SCRIVERE./Adesso, per lo più, si manifesta un piacere poetico del mondo/soltanto con lo scrivere». Ed è più o meno quello che afferma anche Max Frisch in una sua battuta: «Vivere è noioso, ormai faccio delle esperienze soltanto quando scrivo».
Scrivere, sembrano intendere Handke e Frisch, può ridare una presenza al mondo, aiutando forse a dare un senso anche alla propria vita. Ciò che si può avvertire, con maggior intensità, è infatti l’enigma dell’esserci, delle cose che sono e che svelano una inattesa prossimità. Di conseguenza possiamo avvertire anche una nostra effettiva presenza al mondo, che tanto spesso non riusciamo più a sentire. E credo che questa sia un’esperienza che si può verificare in alcuni momenti di un processo di scrittura.
Ieri ad esempio, mentre già ero concentrato a scrivere questo intervento, è capitato che un aereo mi sfrecciasse a bassa quota sopra la testa, e che subito dopo si venisse a posare un piccione sul davanzale della mia finestra. Mi sono quasi spaventato. In effetti erano solo piccoli eventi a cui mi dovrei essere abituato, e che di solito non attirano la mia attenzione. Eppure, mentre sto scrivendo, queste stesse situazioni a volte mi sorprendono, e possono arrivare a spaventarmi. Forse questo è un particolare effetto di quell’allucinazione di realtà prodotta dalla scrittura, e che permette alla stessa scrittura di vedere cose di cui altrimenti non ci si accorgerebbe neppure.
E un’esperienza analoga mi è accaduta qualche ora fa, quando ero in un ristorante per mangiare qualcosa, e mi sono accorto di osservare quasi inebetito, su un giornale che stavo sfogliando, la fotografia di un poliziotto che arresta uno scioperante, durante una manifestazione di minatori inglesi. Questa immagine era in effetti simile a tante altre, e voleva semplicemente riferire visivamente una notizia. Ma ora mi colpiva la corporatura massiccia del minatore, infagottato in un giubbotto di stoffa quadrettata, il suo sguardo smarrito e la bocca aperta di fronte al poliziotto, equipaggiato con elmetto e scudo, e mi accorgevo pure che il poliziotto inglese «digrignava i denti». In altre circostanze, nella maggior parte dei casi, questa immagine avrebbe illustrato soltanto una notizia, secondo cliché che i fotoreporter dimostrano di conoscere molto bene. Ma anche quello che di solito interpreto come un semplice fatto di cronaca, e che perciò mi lascia spesso indifferente, in quel momento mi colpiva, riuscivo a vederne tutta la violenza, e anche una certa tragicità grottesca. Il fatto che fossi già immerso in un progetto di scrittura mi permetteva di intravedere oltre il cliché di questa immagine. Riuscivo persino a distinguere (forse immaginare) l’espressione di due uomini, ritratti a figura intera in una piccola foto in bianco e nero, per di più mal riprodotta sulla carta di un quotidiano. E magari la stessa fotografia, se fosse stata stampata in grande, sulla carta patinata di una rivista, mi avrebbe lasciato indifferente, o forse mi avrebbe anche un po’ irritato. Ma io non mi trovavo nella posizione di giudicare nulla poiché era l’immagine che s’imponeva a me, uscendo dallo sfondo del giornale che stavo sfogliando, e anche dallo sfondo del ristorante in cui mi trovavo. È quell’inconsapevole fissità dello sguardo, che nasce dalla scrittura, che mi fa rilevare particolari così appiattiti dal normale flusso dell’informazione, e dai gesti sempre più sfuggenti delle nostre comunicazioni quotidiane.
Mi piace ad esempio immaginare, e forse mi sbaglio, che Alfred Hitchcock abbia pensato di fare un film come Gli uccelli, perché magari è stato improvvisamente sorpreso da un uccellino sul davanzale della sua finestra. Poi gli è bastato guardare in cielo, per le strade, le piazze di una città, per accorgersi di questa presenza, così ovvia da non riuscire più a vederla.
Questa può essere una forza della scrittura, per immagini o con le parole: seguire e rendere visibili quei processi percettivi che ormai compiamo senza accorgercene, ridare evidenza alle cose che ci stanno attorno.
Credo che chiunque sia uscito dal cinema dopo aver visto Gli uccelli, si sia accorto improvvisamente di quanti uccelli popolassero il cielo, gli camminassero di fianco, fossero appoggiati sul tetto di una macchina, sul ramo di un albero, o sospesi su un cavo della luce. Improvvisamente ci si può rendere conto di una presenza che pure abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni. Perciò anche degli uccelli possono essere cose che quotidianamente guardiamo senza vedere, come quegli spazi bianchi, dove magari c’erano delle mucche o degli asini, per quel pastore che sapeva vedere solo le pecore.
Ma Hitchcock, ovviamente, non ci ha mostrato soltanto delle sequenze, più o meno casuali, con degli uccelli, come quelle che potremmo vedere anche noi, una volta usciti dal cinema. Per poter seguire e rendere visibili questi processi percettivi, ormai impermeabili allo sguardo, è necessario organizzarli in una forma. Questa forma, nel cinema e nella letteratura, coincide spesso con una narrazione.
Una narrazione può nascere anche dalla paura del foglio bianco. Se ci mettessimo a scrivere solo quello che crediamo di sapere, probabilmente non riusciremmo a vedere più niente. La possibilità di scrivere, di narrare, ci permette ancora di sorprenderci per un uccellino sul davanzale della finestra, o per un poliziotto inglese che arresta un minatore, e da lì possiamo cominciare a seguire quelle orme che ci conducono a una storia, a produrre una storia.
«Quando cerco le mie storie nel quotidiano», spiega Peter Bichsel, «quando guardo la gente e ciò che mi circonda, allora non cerco esattamente le storie, ma cerco indizi per delle storie. Cerco dei volti, degli atteggiamenti, dei movimenti che indichino delle storie».
Sono convinto che per scrivere sia appunto essenziale seguire questi indizi, che ci invitano a cercare qualcosa al di fuori di noi, e di tutto ciò che presumiamo già di conoscere. E per accorgermi di queste tracce, di queste improvvise apparizioni, sono arrivato a escogitare anche un piccolo trucco. Quando scrivo qualcosa, un racconto o un intervento a tema, scrivo sempre «da due parti», cioè tengo un foglio sulla macchina da scrivere, dove seguo il filo di quello che vorrei dire, e da un’altra parte metto un foglio bianco, o un brogliaccio, dove butto giù tutto quello «che mi scappa». In quei fogli bianchi, scritti a mano, va a finire tutto ciò che non riesce a entrare ancora nel filo del discorso, e che nasce quasi sempre dall’esterno, oda appunti che mi sembra non abbiano alcuna destinazione. Mano a mano, «quello che mi scappa» prende sempre più posto sulla macchina da scrivere.
Forse è necessario, per dirla con Gregory Bateson, mettersi nei pasticci: «Se non ci cacciassimo nei pasticci, i nostri discorsi sarebbero come giocare a ramino senza prima mescolare le carte». Cacciarsi nei pasticci è infatti un modo per infrangere, e superare, quei cliché che ormai agiscono automaticamente sulla scrittura, e sugli stessi meccanismi del nostro pensiero.
«Cliché», spiega ancora Bateson, «è una parola francese, credo che in origine fosse un termine tipografico. Quando si stampa una frase, si devono prendere le lettere separatamente e metterle una per una in una specie di barra scanalata per comporre la frase. Ma per parole e frasi che la gente usa spesso, il tipografo tiene piccole sbarre di lettere già bell’e pronte. E queste frasi già fatte si chiamano cliché. (...) Ma se il tipografo vuole stampare qualcosa di nuovo, per esempio una cosa in una lingua straniera, dovrà disfare tutte quelle vecchie disposizioni di lettere. Allo stesso modo, per pensare idee nuove e dire cose nuove, dobbiamo disfare tutte le idee già pronte e mescolare i pezzi».
Forse questa definizione di Bateson si avvicina già a un principio costitutivo della scrittura, di una narrazione, o semplicemente della costruzione di una frase che consenta di rinnovare le forme con cui percepiamo il mondo. Per scrivere e pensare frasi, idee nuove, bisogna formulare nuove aggregazioni del discorso, come fa il tipografo quando deve stampare un testo in una lingua straniera.
Ricordo, solo per fare un esempio, che tempo fa leggendo un racconto di fantascienza, un racconto di Ballard, sono stato sorpreso da una frase: «Quando arrivò a casa, la luce del crepuscolo già filtrava nella nebbia color ciliegia che vagava sui motel e i vecchi casinò».
Perché questa frase mi aveva sorpreso? Credo perché non ho mai pensato di vedere una nebbia color ciliegia al crepuscolo. Quando guardo i colori, di solito li percepisco nella loro definizione più astratta, e al massimo mi vengono in mente delle associazioni che già sono diventate cliché di una particolare gradazione, come «verde pisello», o «rosso fuoco».
Ma dopo aver letto una frase come quella di Ballard, può capitare che mi trovi fuori all’ora del crepuscolo e che sia sorpreso da una nebbia color ciliegia, e le mie sensazioni non saranno così opache, risplenderanno di una luce, magari tragicamente dolce, come può essere la luce color ciliegia del crepuscolo che filtra attraverso la nebbia.
Mentre leggevo quel racconto di Ballard — è per questo che me lo ricordo — ero seduto su una panchina immerso nella lettura, e non mi accorgevo del tempo che passava. Quando sono arrivato al punto in cui Ballard descrive la luce del crepuscolo, già mi si stavano gelando i piedi e le mani, così ho alzato gli occhi, e in una perfetta coincidenza e simultaneità di situazioni, mi sono trovato avvolto da una nebbia color ciliegia. Ero entrato in un ambiente che percepivo con una nuova intensità. Quella frase mi dava il potere di modellarmi una sensazione percettiva, che fino ad allora mi era sconosciuta.
Non so se una narrazione si possa basare sulla costruzione di simili frasi. E certo che una scrittura continuamente proiettata a una visione di un esterno, rischia di mandare in cortocircuito la lettura. Si rischia di perdere, insomma, quella che si definisce la «fluidità del narrare».
Chi conosceva bene questi cortocircuiti, era sicuramente Robert Walser.
Amo molto leggere Walser. Non riesco però a leggerlo tutto d’un fiato. Ogni tanto devo interrompere la lettura perché avverto una leggera ebrezza, un capogiro che mi costringe a fermarmi, magari per tornare indietro di qualche pagina, oppure non fare niente per un po’.
Eppure la lettura di Walser mi assorbe completamente, mi cattura come poche altre. Ma spesso vengo scosso da una sorta di eccesso d’intensità. Intensità di cui Walser era consapevole, e che l’ha portato a prediligere la forma del racconto breve, che rispetto al romanzo ha questo vantaggio: l’impressione che si possano raccogliere infinite storie in qualsiasi momento, cogliendo qualsiasi occasione. Basta gira-re gli occhi per incontrare sempre un’altra storia.
In Walser — e in questo lo considero esemplare — la paura del foglio bianco coincide quasi sempre con la tensione di riuscire a definire gli spazi bianchi della realtà. Egli infatti assume in pieno la fragilità della scrittura di fronte alle possibili rappresentazioni del mondo esterno. Ed è anche per questo, credo, che posso sentirmelo molto vicino quando io stesso mi metto a scrivere.
Simon Tanner, protagonista di un romanzo di Walser, costretto per alcuni mesi ad un lavoro in banca, dice a un certo punto: «Adesso fuori è primavera, e io avrei voglia di uscire con un salto dalla finestra, tanto mi fa male questo lungo, lungo non-potermi-muovere. L’edificio di una banca è proprio una cosa stupida, in primavera. Che effetto farebbe un istituto bancario in mezzo a un rigoglioso prato verde? Forse la mia penna mi sembrerebbe un piccolo fiore appena spuntato dalla terra. Ah no, non ho voglia di scherzare. Forse tutto deve essere così, forse tutto ha uno scopo. Solo che io non vedo la connessione perché vedo troppo l’aspetto esteriore. Ed è un aspetto un po’ scoraggiante: fuori dalle finestre questo cielo, negli orecchi questi dolci canti. Le nuvole passano nel ciclo, e io devo stare qui a scrivere».
«Forse tutto ha uno scopo», ammette Simon. «Solo che io non vedo la connessione perché vedo troppo l’aspetto esteriore». E la prima connessione che salta, nella prosa di Walser, è il tempo. Nella sua scrittura quasi tutto è al presente, e spesso è presente all’atto stesso della scrittura. Per questo si diceva, e non è tanto importante verificare se sia vero, che Walser scrivesse senza correggere mai quello che aveva già scritto.
E certo che, leggendolo, non percepiamo quella fluidità narrativa scandita dal tempo, dalla possibilità di dare una forma al tempo. La fluidità, se così la si può ancora definire, è garantita dalla tensione della scrittura, che vuole ad ogni istante restituire una presenza al mondo visibile. Ed è proprio in questo gesto, in questa dichiarata disponibilità al presente, che la scrittura mostra la sua fragilità, e va incontro alle rotture di quelle cadenze narrative che solo una forma del tempo poteva dare.
Il passeggiare, il vagabondare, che è un po’ il tratto distintivo di tutta la prosa di Walser, non è una forma, ma un’ipotetica estensione dello spazio, che si può aprire illimitatamente ai possibili incontri col mondo.
Non è un caso che le varie poetiche dello sguardo, che si sono avvicendate nella letteratura narrativa del Novecento, si siano affermate a mano a mano che si perdeva la tradizione orale del raccontare, che pure era l’autentica legittimazione di ogni narrazione scritta. La lingua ha perduto via via la possibilità di organizzarsi in quelle forme epiche di racconto, che organizzavano le forme del tempo e dell’esistenza. Lo possiamo verificare anche quotidianamente, quando ad esempio guardiamo della gente che si ritrova assieme, e notiamo come ormai non ci si preoccupi tanto di dirsi delle cose, né tantomeno di trasmettersi delle esperienze. Spesso ci si limita a scambiarsi semplici informazioni, e molte volte non ci si parla neppure, ma si comunica con gesti che rimandano ad altri sistemi comunicativi.
Mi è capitato di osservare recentemente, mentre viaggiavo su un treno, dei ragazzi che andavano a vedere una partita di calcio. Comunicavano tra loro con pochissime parole, e con quel fitto scambio di suoni e gesti che vediamo nei cartoni animati: ridacchiavano alzando ritmicamente le spalle, lasciavano partire le braccia con il movimento di un proiettile o di un colpo di karaté, e poi scoppi di risa, sibili, e burn, bam, crash!
Esiste infatti anche quel grande spazio bianco, che è la nostra vita, la vita di un uomo, degli uomini, che spesso si svolge senza che nessuna forma riesca più a percepirla, senza che nessuna lingua riesca più a raccontarla. Lo scrittore si trova ad agire tra l’indistinto del cosiddetto reale, del quotidiano, e l’indistinto della lingua. Ed è solo nello sforzo di dare sostanza a degli spazi visibili che può anche ridare una disponibilità al mondo, perché lo sottrae a una totalità, o a un nulla.
Il gesto del narrare, che ha perso la sua legittimazione più autentica, è diventato anche una tensione sentimentale che forse allude a una forma che non esiste più. Può essere quella nostalgia di cui parla Gianni Celati: «Ho nostalgia di un tono narrativo che mi leghi agli altri, perché tutto quello che so scrivere sono cose separate dalla vita degli altri. Il sentimento vero e forte che potrei raccontare è quello di essere perduto. Non io in particolare, come individuo. È piuttosto uno stato di cose che mi pare di leggere ovunque». E può essere anche quella tristezza di cui parla Peter Bichsel: «Proprio quello stato d’animo in cui le storie non ci possono aiutare, e da cui esse nascono».
E una grande tristezza assale anche Robert Walser, al termine della sua Passeggiata, quando ormai sta calando la sera e lui si trova un mazzo di fiori in rasano, e non sa più a chi li può donare. Scrive Walser: «“Ho raccolto dei fiori per posarli sulla mia infelicità?” mi domandai, e il mazzo di fiori mi cadde di mano».
La letteratura, proprio nel suo sforzo di riorganizzare le forme del visibile, si ricongiunge a una lingua degli uomini che forse non esiste più, o non esiste ancora, se non nell’intensità dell’attesa, o della nostalgia, di altre e forse più vaste forme di organizzazione del visibile.
«Sui volti degli uomini», scrive ancora Bichsel, «non sono scritte soltanto le storie vissute, ma molto di più, e più chiaramente, le storie che vorrebbero produrre».
Con la letteratura, con una narrazione, possiamo anche intravedere, attraverso gli spazi bianchi del visibile, quei grandi spazi bianchi che sono le esistenze degli uomini, la loro vita, le loro relazioni col mondo. E solo muovendoci verso gli altri, e verso ciò che ci circonda, potremmo anche immaginarci una felicità che poi dovrà venire.
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