Un tema di grande interesse presso gli studiosi di politica è se la pandemia abbia o no indebolito il populismo. Imponendo ai governi decisioni capaci di tenere insieme attenzione alle competenze e responsabilità politica, il Covid -si sostiene- ha ristretto le possibilità di successo del populismo. Dovremmo essere dubbiosi verso questa lettura ottimistica.
Per motivare il dubbio suggerisco di
partire dalle due caratteristiche peculiari del populismo del XXI secolo: in
primo luogo, ha saldato un’alleanza con il nazionalismo nativista a
giustificazione di una retorica e (se al potere) di politiche aggressive contro
obiettivi specifici: immigrati, minoranze culturali, opposizioni, media non
supini, forme sovranazionali di cooperazione. Lo ha fatto per costruire una
narrativa escludente e faziosa del “popolo” al quale un leader dà
voce e volto. In secondo luogo, ha orchestrato una permanente campagna
elettorale per dimostrare di essere radicalmente contro l’establishment o
la casta. -n nemico del quale, però, ha bisogno per esistere e crescere.
Questa è la fisionomia del potere
populista nel nostro tempo. La pandemia ha iniettato nel tessuto
socioeconomico e legale-politico delle nostre democrazie dei mutamenti che
avranno un impatto sul populismo. E se è impossibile predirne il futuro, si può
almeno cercare di individuarne la traiettoria a partire proprio da questi mutamenti.
I mutamenti indotti dal Covid riguardano
da un lato, il tenore delle democrazie costituzionali (più esecutive, meno
parlamentari) e dall’altro, il ruolo della competenza. La pandemia ha innalzato
l’autorità della scienza, ma ha anche confermato quel che da tempo studiosi e
cittadini sostengono: che le procedure democratiche sono spesso inefficaci,
lente, e mal disposte a farsi correggere dalla competenza. Secondo alcuni
osservatori, il Covid ha imposto l’ascolto della competenza e questa sarebbe una
pessima notizia per il populismo, il quale è notoriamente anti-intellettuale e
pronto a creare ed abbracciare fake news e retoriche
cospiratorie.
Eppure, c’è ragione di dubitare che la
scienza ci salverà dal populismo (lasciamo a un’altra occasione la questione se
possa essere un buon correttivo della politica democratica). E’ proprio la
pandemia a rafforzare questo dubbio. Il Covid ha mostrato quanto provvisorie
siano le teorie e i risultati delle scienze biomediche, esposti ai mutamenti
quasi come le opinioni generiche di noi cittadini. La sperimentazione procede
per tentativi ed errori e, soprattutto di fronte ad un virus nuovo, non riesce
a dispensare forti certezze.
Gli scienziati stanno imparando come
noi, benché usino laboratori e ricerche controllate invece di opinioni raccolte
qua e là, seguendo la bussola delle emozioni come la speranza e la paura. Ma
l’incertezza e la provvisorietà delle conoscenze è ed è stata tanta. Ad essa si
è aggiunto il potere di fuoco dei media che ha travolto gli esperti, divenuti
nel volgere di poche settimane degli opinion-makers e delle
celebrità, proprio come i politici. In molti si sono esposti al rischio della
contestazione popolare e hanno eroso l’aura di imparzialità della loro
competenza. E tutto ciò fa molto bene al populismo.
Per questa ragione, ha senso essere
scettici sulla funzione riparatrice della conoscenza scientifica. Matteo
Salvini ha mobilitato migliaia di seguaci per gettare discredito sulle
raccomandazioni dei biologi e dei medici, reclamando la libertà dalla
mascherina e dalle norme di distanziamento sociale, e accusando il governo di
tenere un ruolo subalterno rispetto agli esperti.
Similmente a Giorgia Meloni, si è eretto
a leader libertario, contro il governo autoritario, attaccato
prima per la scelta della chiusura e poi per quella della riapertura. A partire
da agosto, le piazze delle capitali europee hanno preso ad imitare le
manifestazioni dei nostri arancioni contro la mascherina, persuasi che il Covid
sia stato un bluff o una esagerazione inventata dalle case
farmaceutiche per imporci il vaccino (futuro oggetto di scontro).
In tutti i Paesi dove ha voce, il
populismo nell’era del Covid mostra di avere una preferenza per le risposte
neoliberali al contagio e alla sanità. Negli Stati Uniti e in Brasile la lotta
demagogica contro le opposizioni si è tradotta in attacco allo “statalismo”.
Presentarsi come leader del popolo che difende la libertà
individuale contro le intromissioni “autoritarie” dei governi manipolati dai
virologi è una delle trasformazioni della retorica populista, che può
incontrare simpatie in società che si sono nel frattempo impoverite, anche a
causa di mesi di forti restrizioni delle attività economiche.
L’opposizione tenuta contro il lockdown potrebbe
quindi venire usata dai populisti per conquistare la rappresentanza dello
scontento sociale. La disoccupazione e la crescente sofferenza economica
possono dunque essere benzina gettata sul fuoco del populismo se non ci saranno
altri soggetti politici a dar voce e rappresentanza a chi più ha sofferto le
conseguenze del Covid. Con la riconversione neoliberale messa in atto nei mesi
della pandemia, i leader populisti possono reinventare sé stessi contro i
governi e gli esperti che hanno “affamato la gente”.
Qui sta la sfida alle forze di centro-sinistra e democratiche: se queste
non saranno capaci di riportare la giustizia sociale e le politiche
ridistributive al centro dell’agenda e dei governi, per il populismo si
prospetterà un brillante futuro.
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