Sono un tifoso juventino moderato. Lo dico solo per evitare che ciò su cui vorrei riflettere venga interpretato come anti-juventinismo, sentimento piuttosto diffuso nel Paese. Mi riferisco alla vicenda Juve-Napoli, partita fantasma, con vittoria probabilmente assegnata a tavolino ai bianconeri a causa della quarantena imposta ai giocatori del Napoli dalla Asl campana.
Non voglio
discutere sulla scandalosa rigidità della Lega (quella del calcio) asservita
agli interessi economici al punto di insistere a voler considerare il calcio
una bolla a parte, da non toccare in alcun modo. Quello che mi colpisce è
l’assoluto silenzio dei calciatori. Tutti. Soprattutto di quelli della
Juventus. Possibile che non ci sia stato uno, dico uno tra questi ragazzi, che
abbia sentito il bisogno di esprimere un minimo di solidarietà verso i suoi
colleghi del Napoli e di dire “questa partita non la dobbiamo giocare”? Non
dobbiamo andare negli spogliatoi, non dobbiamo accettare la farsa di attendere
quarantacinque minuti, sapendo che tanto l’altra squadra non verrà mai.
Eppure lo
sport ha saputo esprimere momenti alti, di impegno civile, di atleti che hanno
saputo anteporre valori e ideali in cui credevano al risultato. Certo spesso
hanno pagato: basti pensare a Mohammed Alì, che rifiutò di andare a combattere
in Vietnam, perché, parole sue, “nessun vietnamita mi ha chiamato negro”, o a
Tommy Smith e John Carlos quando scossero il mondo con i loro pugni guantati di
nero a Città del Messico nel 1968.
D’accordo,
erano altri tempi, il mondo sapeva ribellarsi e in ogni caso stiamo parlando di
monumenti di umanità. Ma veniamo a oggi, nella nostra povera (di ideali) epoca.
Abbiamo assistito all’inginocchiamento dei giocatori del football americano e
del basket Nba per protestare in favore del movimento Black Lives Matters. Lo
hanno fatto anche molti (non tutti) piloti di Formula 1 e Lewis Hamilton ha
chiesto che le Mercedes fossero nere, proprio come il colore della pelle degli
uccisi, nonché la sua
E torniamo a
noi, si tratta di misere cose al confronto, ma proprio per questo bastava un
piccolo gesto, una frase, un tweet se proprio si vuole. Capisco che i contratti
di sponsorizzazione impongano regole rigide, ma possibile che nessuno riesca a
fare valere uno spirito di solidarietà, che non posso credere sia sconosciuto
ai calciatori? Non credo che questi ragazzi siano tutti così cinici, che il
gusto della vittoria sia così forte da offuscare ogni senso di lealtà.
Sarebbe
stato bello sentire una o più voci che avessero anche pacatamente posto la
questione. I calciatori hanno un’immagine forte, sono a loro modo degli influencer,
perché non usare questa rendita di posizione per altri argomenti che non siano
solo lo schema di gioco e le decisioni dell’arbitro? Nessuno chiede a questi
ragazzi di esprimersi su temi che non competono loro, ci mancherebbe, siamo già
pieni di tuttologi, ma qui si tratta solamente di esprimere un semplice
sentimento di solidarietà e di sportività. Sarebbe stato bello e bastava poco.
Il “Noi rispettiamo le regole” è davvero una miseria di cui avremmo fatto a
meno.
L’articolo
è pubblicato anche sul blog del fattoquotidiano.it
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