(a cura di Joshua Evangelista)
Questa storia è parte di "Memoria e percorsi curdi", una serie di storie di richiedenti asilo di origine curda in fuga dalla Turchia. Il progetto è curato in collaborazione con l'associazione Dare.ngo di Milano. Tutte le storie sono totalmente vere, ma per motivi di sicurezza nomi e località potrebbero essere stati modificati.
Mi chiamo Hangisi, sono un
musicista curdo. Sono cresciuto in un villaggio vicino Kahramanmaraş e tutta la
mia vita è stata contrassegnata da un episodio accaduto nel 1991. Quell’anno
mio cugino Amed venne assassinato.
Ero bambino ma ricordo
perfettamente la grande festa che i suoi amici stavano preparando per
abbracciarlo dopo la fine del servizio di leva.
Ma c’era qualcosa di
strano nell’aria. Mia cugina corse da lui per avvisarlo: aveva visto i corpi
speciali dell’esercito girare nel nostro villaggio. Lui l’aveva
tranquillizzata: era ancora un soldato dello stato, seppur in congedo. Non gli
avrebbero fatto nulla.
Mentre lui e suoi amici
tornavano a casa, erano circa le 22, qualcuno sparò verso di loro, senza però
riuscire a colpirli. Mio cugino si nascose dietro un cespuglio. Sperava di
averla fatta franca, ma alla fine lo trovarono e gli spararono alla pancia. Era
ancora vivo quando lo portarono in ospedale. Con grande sgomento, quei
poliziotti scoprirono che mio cugino era un militare, che si era appena
congedato. La faccenda era compromettente, così gli puntarono la
pistola all’altezza della tempia e premettero il grilletto.
Mio cugino morì
con l’accusa di essere un terrorista. Senza prove, senza processi, senza
motivo. In quei giorni i corpi
speciali agivano così. Il giorno dopo l’omicidio, gli stessi poliziotti
tornarono e uccisero il cane di un uomo del villaggio. Lui chiese perché e i
corpi speciali lo minacciarono dicendo che se avesse continuato a fare domande,
avrebbe fatto la stessa fine del cane.
Li chiamano Özel Harekat
Başkanlığı e in teoria è la branca della polizia che si occupa di proteggere i
cittadini dal terrorismo. Non mancarono di farsi vedere neanche al funerale di
Amed.
La mia musica ha risentito
di questa e di tante altre ingiustizie. Nelle parole delle mie canzoni, che una
volta erano su YouTube, chiedevo giustizia sociale e rispetto per le minoranze
della Turchia. Ovviamente in curdo, la lingua che amo. Suonavo dove potevo,
anche in grandi concerti davanti a duemila persone. A volte mi chiedevano se
non avessi paura nel esporre così apertamente il mio pensiero. E io rispondevo:
“Mio cugino è stato ucciso dallo Stato, che paura potrei avere io?” Tutta
la mia vita è stata contrassegnata dal dolore, non ero più preoccupato di
essere in pericolo.
Ma non pensate che
suonassi solo canzoni politiche. Mi piaceva cantare e suonare versi d’amore e
per questo venivo molto spesso invitato a esibirmi nei matrimoni e nelle feste
del Newroz, il momento dell’anno più importante per noi curdi. Eppure la mia
presenza diventava sempre più scomoda. A volte le famiglie degli sposi mi
chiedevano di non suonare determinate canzoni “pericolose”. Altre volte i
poliziotti irrompevano durante le esibizioni, a matrimonio in corso, e mi
portavano via per interrogarmi.
Una volta mi
picchiarono davanti a mio figlio,
che aveva pochi anni. Dopo avermi intimato di non cantare canzoni in
curdo, mi avevano tirato un pugno e per poi allontanarmi. Lui ha visto tutto.
Ha avuto problemi psicologici legati a questa violenza per molto tempo.
Il paradosso di quei tempi
strani è che in quel periodo c’era un’apparente apertura di Erdogan. La tv
statale turca aveva persino avviato TRT6, un intero canale in curdo. Ma
evidentemente questo alla polizia non interessava.
Nel frattempo iniziavo ad
essere attivo anche politicamente. Un altro mio cugino, Baran, che per mestiere
riparava orologi, divenne il responsabile politico locale del BDP (“Pace e
democrazia”, un partito curdo con ideali socialisti). Fu lui a introdurmi alla
politica. Ascoltò le mie canzoni in cui parlavo della speranza e del dolore del
nostro popolo sottomesso e mi disse: “Hangisi, perché non
trasformi le tue parole in azione politica?”
Mi propose di diventare il
referente della sezione di quartiere del partito, che nel frattempo si era
unito all’HDP (Partito democratico del popolo), un partito universale che aveva
l’intento di avanzare una proposta democratica che coinvolgesse tutti: turchi e
curdi, musulmani, cristiani e atei. Accettai.
Come tanti altri attivisti
politici, Baran fu incarcerato, poi liberato e infine condannato a quattro anni
di carcere. Prima di scontare la sua pena fuggì verso la Svizzera. Le cose
peggioravano di giorno in giorno: c’era una vera e propria caccia all’uomo,
ormai i poliziotti in borghese riuscivo a riconoscerli perfettamente per quante
volte li avevo visti durante i concerti. Più aumentava il mio
impegno politico, più ricevevo intimidazioni. Di ogni genere: da multe
automobilistiche molto “strane”, ad appostamenti sotto casa e fermi in questura
che duravano ore e ore. Molti miei amici militanti sono stati arrestati e
quelli che sono stati liberati non possono lasciare il paese.
Nel frattempo la mia fama
aumentava, visitavo un paese europeo dopo l’altro, mi chiamavano a cantare
ovunque, guadagnavo molti soldi. Durante una tournee in Germania i miei amici
mi dissero che se fossi tornato in Turchia sarei stato arrestato. Ho
pensato a mio figlio, ho pensato al destino che aveva davanti: essere
emarginato a scuola, come lo sono stato io, venire trattato da cittadino di
serie b. Così decisi di non tornare, sperando di potermi ricongiungere a lui il
prima possibile. Sono quattro anni che non lo vedo.
Non poter tornare
al mio villaggio, dai miei parenti e soprattutto da mio figlio, mia ragione di
vita, è estremamente doloroso. Ora
vivo in Lombardia, faccio il cameriere in un ristorante curdo, qualche volta
canto nei matrimoni. Ma sempre di meno, molti miei connazionali mi emarginano,
forse hanno paura o forse non vogliono avere a che fare con un cantante
impegnato in politica.
La mia compagna vive con me
in Italia, ma in Turchia ha tre mandati di cattura per aver scritto dei post
sui social. Nella lotteria del riconoscimento della protezione internazionale a
me è andata bene, a lei no. Non so cosa le succederà.
Nessun commento:
Posta un commento