Con questo slogan le manifestazioni in Germania in solidarietà con i migranti bloccati nell'isola di Lesbo, ribaltano la narrazione dominante sull'accoglienza partendo dalla lotta sull'utilizzo degli stabili lasciati vuoti per la crisi del turismo
Nella notte tra l’8 e il 9 settembre, un incendio ha devastato il campo di Moria sull’isola di
Lesbo. Gli incendi dei giorni successivi l’hanno definitivamente distrutto. Le
12.000 persone presenti nel campo si sono ritrovate a vagare per le strade
dell’isola, senza nessun supporto, nessuna cura, acqua o cibo. Il governo greco
ha però ribadito che nessuno, a eccezione dei minori accompagnati, lascerà
l’isola, colpevolizzando gli abitanti del campo di aver appiccato l’incendio.
L’esercito è arrivato dalla terraferma per impedire che gli sfollati possano
avvicinarsi alla città principale dell’isola, Mitilene.
Il sostegno di Ong e solidali sull’isola non può che essere limitato
rispetto alle esigenze delle migliaia di persone in difficoltà, nonché
ostacolato tanto dalle forze dell’ordine quanto dai rigurgiti razzisti che
colpiscono le attività delle Ong e i migranti stessi.
Dal continente, centinaia di manifestazioni sono state organizzate per
mostrare solidarietà ai migranti bloccati a Lesbo. In particolare, il weekend
successivo agli incendi, le piazze di diverse città europee si sono riempite di
manifestanti, cartelli e cori: «Leave no one behid», «Borders kill», «Refugees
are welcome» tra i più comuni e utilizzati. Tuttavia, nella partecipatissima
manifestazione di Berlino (quasi 15.000 persone provenienti da realtà
eterogenee e comprendente anche molti migranti) ha prevalso il coro «Wir Haben
Platz» («Abbiamo posto»). Mettere «noi» al centro di uno slogan anti-razzista
chiama in causa non soltanto i governi e le loro responsabilità – costantemente
evase – di accoglienza, ma ripropone con forza anche l’importanza e la
necessità del mutuo sostegno tra le popolazioni metropolitane europee e i
migranti intrappolati a Lesbo. «Wir Haben Platz» coinvolge direttamente i
cittadini europei, che da dentro possono spingere per liberare o creare lo
spazio per l’accoglienza e il sostegno delle comunità migranti.
Il filosofo francese Jacques Ranciere, proprio osservando le lotte dei sans
papier e dei solidali all’inizio del secolo, ha definito la politica come l’atto
che «istituisce una parte per quelli che non hanno parte». Rancière pone
l’accento sulla spontaneità delle lotte, in cui sono i soggetti esclusi per
primi a mobilitarsi per veder riconosciuta la loro parte nella società. Spesso,
però, la polizia – nel senso stretto del termine, ma anche nel senso più ampio
di pratiche e discorsi istituzionali escludenti – toglie a queste lotte la
possibilità di essere riconosciute, alza le barriere per tenere esclusi gli
esclusi. In questo contesto, che è anche il contesto di Moria, «Wir Haben
Platz» si configura come una proposta politica non paternalistica, ma solidale,
in cui l’accoglienza delle persone migranti viene identificata chiaramente
all’interno del tessuto abitativo cittadino: i palazzi sfitti o abbandonati
pronti a essere investiti dalla speculazione edilizia, ma anche gli Airbnb e le
altre forme di turistificazione che la pandemia ha messo in crisi facendo
emergere tutte le contraddizioni del sistema, sono i luoghi nei quali si deve
accogliere. E, seguendo il ragionamento di Rancière, in questo modo la lotta
per l’istituzione di una parte per quelli che non hanno parte può contare su un
supporto dall’interno.
Pandemia, esclusione e contraddizioni
L’incendio di Moria è strettamente legato all’inasprimento delle linee
dell’esclusione che la pandemia ha generato. A fine febbraio, quando la
pandemia iniziava a diffondersi in Europa ma tutto procedeva come se non ci
fosse, Erdogan annunciava l’apertura dei confini con la Grecia, lasciando che
migliaia di persone bloccate in Turchia si riversassero ai confini dell’Europa.
Mentre la Grecia serrava i confini e sparava ai migranti, i rappresentanti
dell’Unione europea si precipitavano al confine per assicurarsi che fosse
chiuso ermeticamente. Invece di ammettere il totale fallimento di dieci anni di
politiche migratorie comunitarie, l’Unione europea utilizzava la possibilità di
diffusione del contagio come arma per escludere, per abbandonare. Il pericolo
di diffusione emergeva però drammaticamente anche sulle isole, Lesbo per prima.
La decisione, in questo caso, è stata quella di sigillare l’isola, isolare
completamente il campo di Moria, proibendo a chiunque di entrare e uscire. La
pandemia ha dunque anche in questo caso funzionato come un acceleratore delle
pratiche escludenti e discriminatorie già in atto.
Bloccati a Moria per cinque mesi, senza poter uscire dal campo, a sua volta
militarizzato per prevenire che «gli untori» potessero scappare, le
manifestazioni degli abitanti del campo si sono susseguite durante tutti questi
mesi. Dapprima era il lockdown, ma pian piano la Grecia ha iniziato a riaprire,
i turisti ad arrivare, sono ricominciate le scuole e hanno riaperto aeroporti e
business. Proprio a inizio settembre, quando il lockdown nel campo sarebbe
dovuto finire, un caso di positività ha riportato tutti nell’incubo
dell’isolamento. Mentre ancora una volta ci si interrogava su dove fosse
l’Europa, il campo di Moria è andato in fiamme.
D’altra parte, a partire da Marzo, quando il lockdown è arrivato anche
nelle città europee, le manifestazioni di solidarietà verso i migranti bloccati
al confine greco-turco e sulle isole greche si sono confrontate con una nuova
realtà, ossia lo svuotamento delle grandi città, nelle quali il modello di
sviluppo «turismo mordi e fuggi» si è sgretolato nel giro pochi giorni. La
pandemia, in questo caso, ha messo in risalto le contraddizioni inerenti al
sistema di sviluppo delle città europee. Infatti, fin da subito, il lockdown è
stato accompagnato dall’esplosione della crisi economica e sociale: chiusure,
fallimenti e licenziamenti in massa hanno messo migliaia di persone in
difficoltà, ma hanno anche dato slancio a proposte di sviluppo differenti, sia
sul piano teorico sia su quello pratico. Di fronte al fallimento del modello di
turistificazione e all’aprirsi della voragine della povertà e dell’abbandono –
già presenti ma fortemente silenziate – all’interno delle grandi città europee,
è diventato evidente che la risposta non poteva attendere.
Mutuo aiuto e solidarietà internazionale
Attraverso le iniziative di mutuo soccorso (le brigate e i gruppi di solidarietà
si sono sviluppati in tutte le città europee), movimenti sociali e normali
cittadini hanno continuato a supportare chi si trovava in difficoltà e a
supportarsi vicendevolmente. È in questo contesto che nelle manifestazioni di
solidarietà internazionale che da marzo si sono susseguite (in piazza quando
possibile, online quando necessario) ha trovato sempre più posto «Wir Haben
Platz» (in Germania, ma anche in altri paesi europei).
È diventato evidente nella pratica quanto il sostegno alla libertà di
movimento e il diritto all’accoglienza per le persone migranti non potesse
slegarsi dalla costruzione e liberazione di spazi capaci di accoglierli. Nelle
manifestazioni del weekend scorso, infatti, si è ribadito che il problema non
sono soltanto i campi profughi in Grecia, ma anche tutte le situazioni in cui l’umanitarismo si mischia alla
detenzione, alla violenza e all’abbandono. Il diritto all’abitare può dunque
essere un terreno di incontro tra le lotte per il diritto alla città e quelle
anti-razziste.
Infatti, la figura del migrante è costruita come quella di una persona
costantemente in movimento, ma in molti casi la messa in movimento del migrante
è una forma di governo delle migrazioni che serve a ridurre i diritti e gli
spazi di vita di queste persone così da poterle gestire e sfruttare – ossia
mettere a valore nelle zone grigie dell’economia contemporanea. Questa è la
tesi che Martina Tazzioli propone in The Making of Migration: The
Biopolitics of Mobility at Europe’s Borders. Nello stesso testo,
Tazzioli spiega che è solo ricostruendo la genealogia delle lotte contro lo
sfruttamento (di cui l’esclusione è una tattica) che si può comprendere come
mobilitarsi in favore dei migranti. Un esempio da lei riportato è
l’intersezione tra le lotte per la tutela del territorio in Val Susa portate
avanti dal movimento No Tav e il sostegno alle persone senza documenti che
tentano di attraversare la frontiera sempre in Val Susa da parte dei solidali a
Oulz.
Allo stesso modo, un movimento capace di tenere insieme una critica alle
forme di spossessamento di cui sono vittima una grossa fetta degli abitanti
delle metropoli europee – espulsione tramite gentrificazione, privatizzazione
di trasporti e spazio pubblico e turistificazione – con una critica alle forme
di spossessamento che devastano il Sud del mondo – soprattutto in ambito
energetico – può riuscire a costruire connessioni tra il «dentro» e il «fuori»,
nel senso inteso da Rancière.
Queste connessioni possono rafforzarsi attraverso due linee d’azione, come
sostenuto l’anarchico e architetto Colin Ward. Da un lato, azioni dirette che mirino a cambiare
l’ambiente in cui viviamo, sia per quanto riguarda il diritto all’abitare –
occupazioni e cooperative abitative, ma anche manifestazioni e blocchi – sia
per quanto riguarda la solidarietà nei confronti delle persone migranti – che
nell’ambiente urbano già partecipano e beneficiano di occupazioni e cooperative
abitative, ma che devono anche riuscire a passare i confini e a evitare le
forme di contenimento e detenzione. Dall’altro, attraverso pratiche di
mutualismo in grado di dare continuità alle azioni dirette e di alimentare
modelli alternativi di società.
Risultati e prospettive
Le manifestazioni a Berlino e in altre città della Germania hanno messo in
evidenza una spaccatura tra la volontà di accoglienza dei movimenti e di 170
amministrazioni cittadine e il governo centrale, che invece non vuole prendere
iniziativa senza prima aver raggiunto un accordo a livello europeo. Il governo
Merkel, messo sotto pressione dalle manifestazioni, sembra intenzionato ad
aprire un canale di accoglienza con il supporto delle città tedesche. Un
risultato simile si sta delineando anche in Francia.
Tuttavia, assentire ad accogliere non è garanzia d’inclusione, e anzi
spesso le grandi metropoli europee riproducono marginalizzazione e sfruttamento
coatto ai danni di chi viene accolto senza una prospettiva abitativa e senza la
garanzia di diritti sociali minimi. Per istituire una parte per quelli che non
hanno parte serve dunque il confronto – e lo scontro – tanto con i governi
centrali e regionali, quanto con le istituzioni locali; ma serve anche
mantenere alta l’asticella del conflitto con gli interessi privati che
definiscono le priorità dei governi nazionali e che sono il motore dei modelli
di sviluppo distorti delle grandi città europee.
*Emilio Caja è laureato in politica e società europea all’Università di
Oxford. Si occupa delle nuove forme di rappresentanza politica nell’economia
delle piattaforme.
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