1 - In che modo finisce il mondo? Anzi, riformulo subito la domanda: in che modo finisce un mondo? Siamo stati in questi mesi, tutti quanti, spettatori di uno strano fenomeno: la pandemia ci ha mostrato in maniera chiara che il mondo, questo mondo che siamo abituati a vivere, del quale ci lamentiamo, che cerchiamo di proteggere o di distruggere con i nostri comportamenti, che ci è consueto, che - pur essendosi allargato a dismisura con la rete, i mezzi di trasporto e telecomunicazioni - rimane un piccolo mondo, fatto dai nostri sistemi produttivi, economici, sociali, prodotto dalle nostre relazioni, imposto dal mercato, e recalcitrante allo stesso; questo mondo assolutamente meraviglioso - quanto erano belle le meduse trasparenti nei canali di Venezia! Oppure l’erba verde brillante che spuntava a ciuffi dai san pietrini di Piazza del Campo a Siena; senza dimenticare la scoperta del colore dell’acqua del Po, che in realtà è una forma di luce liquida, che si deposita lungo la città e la riverbera -, il mondo dei nostri genitori vecchi, e di colpo fragili e mortali, il mondo dei nostri amici, delle nostre relazioni, il mondo abitato dai nostri corpi, era finito.
2 - In realtà uno dovrebbe analizzare bene le frasi che scrive, chiedendosi
se la frase abbia senso, e domandandosi almeno cosa significhino realmente la
parola “mondo” e la parola “fine”.
Ernesto De Martino ne La fine del mondo (Einaudi) racconta
l’episodio del campanile di Marcellinara (pp 69-76): De Martino è con la sua
macchina, deve raggiungere una località, ma non riesce a trovarla. Nel suo
vagabondare incontra un pastore e gli chiede indicazioni, l’uomo gliele dà, ma
De Martino, non completamente convinto, lo prega di salire in macchina e di
mostrargli la strada. L’uomo, non senza qualche perplessità, accetta. Iniziano
il viaggio verso la località e con lo scorrere del tempo e dei chilometri
l’ansia del contadino aumenta fino a diventare una agitazione quasi
insopportabile, quando l’uomo si rende conto di non vedere più nel suo
orizzonte visivo il campanile di Marcellinara. Così l’agricoltore chiede a De
Martino di riportalo indietro al punto da dove potrà rivedere il suo
campanile, cosa che l’antropologo fa.
Ora non è necessario stabilire, né interessa, se questo episodio sia
realmente avvenuto, o se sia un apologo creato ad hoc da De
Martino per farci entrare nella sua ricognizione della fine del mondo. Sta di
fatto che per il contadino il mondo finisce quando il campanile del suo paese
scompare dal suo orizzonte e campo visivo.
3 - Così mi sono chiesto come finisce il mio mondo, e mi sono ricordato di
un episodio di molti anni fa (ero un adolescente), in cui eravamo sulle
panchine nella piazza del paese, bevevamo qualche bibita gassata, coca
cola, pepsi, aranciate e altri intrugli, quando è arrivato il Bepi. Il Bepi -
come il contadino di De Martino - non era mai uscito dal paese, tranne che per
un breve e avventuroso, e non sapremo mai quanto vero, il segreto se l’è
portato nella tomba, soggiorno in Libia durante la guerra, culminato in un
soggiorno di tre mesi nelle carceri, in quei giorni dice che l’unico libro in
lettura fu la Vita Nova di Dante, di cui recita sempre a
memoria qualche pezzo, facendo sì qualche storpiatura e arrangiando un po’ la
sintassi, ma tutto sommato con una certa aderenza all’originale; il Bepi
arriva, in quel pomeriggio sonnacchioso, si mette esattamente nel mezzo,
equidistante da tutti e dice: “Guardate che il mondo finisce per quello che
beviamo”. Noi ovviamente non diamo nessuna importanza a quelle parole, ma lui
non si arrende, Bepi non era il tipo da abbandonare la discussione, e riprende:
“Che dovreste saperlo voi che siete andati a scuola, ad esempio perché è finito
l’impero romano, che era imbattibile, che avrebbe distrutto e dominato ogni
popolazione in tutto il mondo? Lo sapete? Voi come è finito l’impero romano?».
Allora qualcuno per dargli corda risponde: «Bepi, i Barbari… lo sanno tutti”. E
lui: “No che barbari e barbari!! L’esercito romano li avrebbe distrutti, fu per
colpa delle acque che bevevano. La colpa è del rame con cui avevano fatto i
tubi per far correre le acque. Ecco nel corso dei decenni e dei secoli, il rame
ha avvelenato le acque, e l’acqua che i romani bevevano era avvelenata e
lentamente, piano piano, i romani si sono auto-avvelenati e sono diventati meno
forti, più inclini alla malinconia, e pazzi. Così i barbari li hanno invasi e
hanno fatto finire quell’impero. E ora eccovi qua, voi uguali, a bere schifezze
sulle panchine, per colpa vostra il mondo finirà...”.
4 - Il povero Bepi mi è tornato in mente in questi mesi, perché negli anni
mi aveva sempre colpito il suo atteggiamento paranoico nei confronti del mondo
che finisce – una volta erano le bibite che bevevamo, un’altra il tipo di
cemento che usavano per costruire le case, oppure il tipo di pomodoro che
mangiavamo - e che mi è parso simile a molti comportamenti, osservati in questo
periodo di chiusura; c’era qualche cosa del Bepi, e del contadino raccontato da
De Martino, sia in quelli che presi da raptus improvvisi panificavano, facevano
dolci, e cucinavano, come se la sovra-produzione di cibo possedesse in sé una
potenza esorcistica, o in quelli che dai balconi sentivano il bisogno di
cantare o applaudire; sia nella manifestazione paranoica di coloro che
nonostante le evidenze interpretavano i numeri ei morti e dei contagi come se
fossero una truffa, parlando in modi più o meno ossessivi di complotti, verità
nascoste etc etc.
È vero, ciò che è accaduto all’Italia, e al mondo, in questi mesi è
qualcosa di strabiliante: la medicalizzazione della nostra esistenza, la scelta
imposta, come necessaria e non derogabile, della salute sull’economia, e le
ricadute che queste scelte produrranno nei prossimi anni a livello psichico, ma
anche speculativo e legislativo saranno enormi.
Il modo di pensare il mondo è cambiato, la nostra idea di etica si è
modificata, potremmo dire che abbiamo assistito a un vero e proprio “crollo”. E
ancora una volta De Martino ne La fine del mondo, nei capitolo
intitolato Mundus, parla del caso del contadino di Berna, che nel
1947 fu ricoverato presso un ospedale che presentava un delirio
schizofrenico di fine del mondo (pp. 97-118). Mi interessa di questo capitolo
la parola crollo come «vissuto della fine del mondo» (p.100), come perdita di
una normalità:
Il mondo normale è domestico, familiare, mio in quanto comunicabile agli
altri […]. La perdita della normalità del mondo è il perdersi della sua
storicità, il suo uscire dal cammino che dal privato porta al pubblico (De
Martino p.101)
5 - C’è un ordine del mondo e questo ordine stabilisce il mio perimetro di
movimento e di azione (ritorna in altro modo la metafora del campanile), il
mondo è in realtà ciò che mi definisce come persona/storia, e come privato.
L’aggettivo “domestico”, usato da De Martino, assume un significato di casa:
“casa” non nel senso di alcova, di rifugio, ma nel senso di luogo in cui ogni
parte di me stesso, del mio essere me, si trova in equilibrio. Poi
avviene il crollo, per il giovane di Berna il crollo ha un significato preciso:
«Quando gli uomini non sono al posto giusto» (p.106). De Martino
aggiunge:
Ma non soltanto gli uomini on sono al loro posto giusto, ma anche gli
alberi, le case – in generale tutte le cose. Ha avuto luogo in cambiamento
(Wechsel). Gli uomini non hanno più le loro cose con sé, e ora le cercano (De
Martino, pp.106-107)
Della citazione mi soffermo sulla parola “cambiamento”, mi ritorna alla
mente un passaggio del libro di Vito Teti, Prevedere l’imprevedibile.
Presente, passato e futuro in tempo di coronavirus (Donzelli), ma
prima debbo fare un distinguo. Il libro di Teti non è un istant book, certo lo
è per tempismo di uscita, e titolazione, ma in realtà sono temi questi della
fine, dei crolli, dei terremoti, delle carestie e dei rivolgimenti, che da anni
l’antropologo calabrese va indagando. Teti scrive: «Mi viene in mente il
termine catastrofe con cui gli storici latini indicavano un
rivolgimento, un rovesciamento» (Teti, p.10). Il cambiamento raccontato da De
Martino potrebbe essere la catastrofe evocata da Teti? Prevedere
l’imprevedibile nelle sue pagine iniziali pone un dubbio
linguistico, legato al modo con cui definiamo il momento che stiamo
vivendo. È questa veramente al fine? L’apocalisse? La catastrofe? Esiste una
parola adatta una definizione – per delimitare un confine - di ciò che stiamo
vivendo?
6 - De Martino nella citazione precedente parla del mondo
“domestico” come “mio in quanto comunicabile agli altri”. Quindi si fa largo
anche il tema della lingua, della parola, di come dire questo mondo o il suo
crollo; una delle caratteristiche più interessanti del libro di Teti è appunto
l’intento definitorio/linguistico di ciò che abbiamo vissuto; definire il
perimetro della lingua entro la quale si muovono i nostri ragionamenti e gli
accadimenti storici che raccontiamo è fondamentale, soprattutto se come in
questi ultimi mesi a raccontare questi eventi sono stati giornali, televisioni
e social media che spesso fanno un uso vago e approssimativo del linguaggio.
Qualcuno potrebbe dire che i giornali lavorano di semplificazione, ora la
semplificazione non è di per sé un male: la scrittura e il linguaggio sono un
estremo e ultimo entativo di consegnare la realtà che viviamo, il mondo, a un
codice comunicativo semplice; la scrittura è poi proprio un medium composto
da un numero limitato di lettere, che combinate infinitamente possono produrre,
grazie a una serie limitata di regole compositive, un tentativo di comprensione
e di racconto di ciò che accade. Il problema è che spesso si tende a sostituire
la semplificazione con un atteggiamento semplificatorio: ad esempio i giornali
per descrivere questi ultimi sei mesi hanno usato spesso il termine “guerra” e
tutto ciò che nell’immaginario questo comportasse, gli infermieri eroi, i
cassieri dei supermercati martiri, l’esercito dei dottori; c’è stato anche un
tentativo di far percepire la partecipazione alle misure di contenimento
anticovid come una sorta di Resistenza, in un parallelo tra la lotta alla
malattia e la lotta partigiana; una sovrapposizione alcune volte declinata con
simpatici meme, come quello che sosteneva che “tuo nonno per combattere la
guerra è dovuto andare sulle montagne, tu devi solo stare coricato sul divano”.
In questi casi ’equiparazione tra nazi-fascimo e virus ha portato a un altro
interessante cortocircuito linguistico legato alle parole “negazionismo” e
“negazionisti”, termini che, nel linguaggio storiografico, indicano coloro che
negano l’avvenimento storico dello sterminio degli ebrei, ma che in questo 2020
identificano coloro che negano ’esistenza del covid.
7 – Questa volontà di costruire una narrazione di guerra è divenuta
lampante nell’interpretazione/ racconto della vicenda umana di Josip Ilicic,
giocatore dell’Atalanta. Per capire il modo in cui questo è stato narrato
dobbiamo partire da due fermoimmagine diversi. Il primo è quello famoso, più
volte riproposto in questi mesi, di una lunga teoria di camion militari che
nella notte escono da Bergamo portando via, con il loro carico di bare, uomini
e donne morti per il covid; un numero così alto che camere mortuarie,
cimiteri non potevano in nessun modo sopportare. Se le si guarda bene, quelle
sequenze mostrano il collasso della società basata sul mito di Antigone,
sull’usanza di seppellire i propri morti. C’è la rottura di un paradigma
secolare e millenario.
Pensare questo, pensare che non siamo stati in grado per un periodo
piuttosto lungo di tempo di dare una sepoltura degna dei nostri morti, sarebbe
stato troppo complesso da metabolizzare; dirsi che i nostri morti non erano
nostri, ma erano un tutt’uno senza identità, sarebbe stato orribile da
sopportare.
Entra, così, in scena la seconda immagine: un calciatore dotatissimo, in
una partita di Champions League, segna quattro gol, è l’ultima partita prima
della chiusura definitiva degli stadi, prima della sospensione dei campionati.
I suoi gesti atletici, il muoversi agilmente, nonostante le brutte e lunghe
leve, l’armonia del tocco, la facilità con cui fa cose che paiono impossibili
sembrano suggerire una speranza, una sorta di leggerezza aerea che ci salva dal
virus tremendo. Il giocatore in questione è Ilicic che gioca nell’Atalanta e
vive a Bergamo.
8 – Passano i mesi, vediamo le immagini, assistiamo alle notizie, prima
allarmanti poi via via più rasserenanti. Si torna alla normalità, o almeno si
tenta, e così si torna a giocare a calcio, ma Ilicic, quando torna a giocare
per pochi minuti, è il fantasma del grande calciatore che è stato in
quell’ultima serata di Champions. Cosa gli è successo? Iniziano le ridde di
supposizioni, fino a che non viene trovata la prefetta narrazione: Ilic, che ha
vissuto la guerra nella ex Jugoslavia negli anni 90, ha visto i camion con le
bare lungo le strade di Bergamo, è tornato indietro nel tempo e ha deciso di
lasciare l’Italia e di tornare al suo paese per curare i propri “demoni” (altra
parola passepartout del giornalismo: non paranoia,
depressione, stato depressivo etc etc ma demoni come a significare qualcosa di
assoluto, radicale, e quindi inspiegabile, ma anche sinistro e affascinante).
Il parallelo tra i camion con le bare e il crollo nervoso del calciatore della
città più martoriata è un perfetto romanzo d’appendice: il ritorno alla terra natale,
la consolante aria della patria, la solitudine e la rigenerazione, la rinascita
fino allo scontato ritorno in Italia (se fosse una fiction sarebbe veramente
pessima, il rischio che qualcuno voglia farci una fiction – con protagonista
Beppe Fiorello nei panni di Ilic non è così peregrina.).
In realtà il ricorso a queste narrazioni così facili, così totalmente
limpide nella loro comprensione, indica che il virus ha mostrato qualcosa di
noi, che tendiamo a voler addomesticare. Il crollo di Ilicic è molto simile a
ciò che De Martino racconta nel suo libro: è come se di colpo il mondo
domestico, l’usato e solito mondo che avevamo visto ed eravamo abituati a
portarci dietro non è più.
9 – Sempre scorrendo i giornali abbiamo letto di crollo, calamità, disastro
e sospensione. Teti ci avverte
Ma anche con queste metafore, che arrivano da precedenti esperienze, da
altre culture, bisogna andare cauti. Perché non restituiscono il senso estremo,
il senso di ultimità che qualcuno aveva temuto, annunciato, prefigurato, ma
nessuno aveva fin qui vissuto. (Teti, 10)
E aggiunge
Non c’è parola che possa dare l’idea di uno scenario di dolore, di paura e
di speranza come questo, del tutto imprevedibile, vissuto insieme dal mondo
intero, senza distinzione di nazioni, etnie, religioni, culture. L’umanità si
scopre, si vive, davvero unita nel rischio della fine. ( Teti 10)
Se dovessimo descrivere la vera esperienza di questi sei mesi, potremmo
definirla una povertà di parola, il nucleo del saggio di Teti sta appunto nel
tentativo di definizione di un linguaggio che possa in qualche modo raccontare
questa fine, che stiamo vivendo. Teti adombra l’ipotesi che parole come
catastrofe, guerra, crollo, calamità, disastro e simili siano infine sinonimi
di una parola che abbiamo paura ad usare ovvero Apocalisse: «E se fosse
l’Apocalisse la parola che non vogliamo adoperare per indicare quanto sta
accadendo da decenni» (Teti, 14). L’Apocalisse come fine del mondo non è tanto
la fine di un mondo, ma la rivelazione di qualcosa che ci è rimasto celato, è
il rivolgimento delle cose così come sono – l’Apocalisse «gira il mondo
sottosopra» (Teti, 17) – e ce lo mostra diversamente da come avevamo mai
immaginato, ci insegna, l’Apocalisse, un linguaggio nuovo, quello della
profezia, del tempo futuro che abolisce il presente che viviamo e che si
collega al passato
Non è molto e ci sembra lontano – quando ascesero in alto
Tutti quelli che avevano reso felice la vita,
quando il padre voltò la sua faccia agli uomini
e luttuosa tristezza giustamente cominciò sulla terra,
appare per ultimo allora un placido genio, un divino
consolatore, annunziò la fine del Giorno e sparì. (Hölderlin, Pane e vino)
L’Apocalisse non è qualcosa che riguarda il nostro futuro, ma in realtà è
strettamente legata al passato, profezia non è leggere i segni di ciò che
accadrà, ma è leggere i segni di ciò che è avvenuto, non è narrare qualcosa di
imprevedibile, ma è prevedere ovvero sapere già dai segni del passato ciò che
avviene: è un guardare prima.
Pensare in questo modo ci spaura, perché nella nostra esistenza comune il
futuro è uscito dall’orizzonte esperienziale; lo abbiamo modificato
trasformandolo in una banale dilazione in avanti: pensavamo che il nostro
futuro potesse essere le prenotazioni dei viaggi da un anno all’altro, la
scelta di andare “domani” a trovare i genitori anziani, lasciandoli nelle Rsa,
di decidere di rimodernare la casa nei “prossimi mesi”. Questo atteggiamento,
che è culturale, sociale, addomestica il tempo a venire in un “sempre presente”
a qualcosa che non passa e non si modifica mai.
10 – Qualche giorno fa ero in un negozio di abbigliamento. Mentre giravo
tra i vestiti ho sentito il commesso parlare con un’amica. L’amica gli chiedeva
come erano andati gli affari, se avessero venduto, se la gente veniva, se era
spaventata: le solite domande che spesso si sentono rivolgere agli esercenti.
Il ragazzo ha raccontato le vicende, le solite: l’incertezza nei mesi di
chiusura, il sollievo di riaprire, le paure legate alle disposizioni sanitarie,
il rischio, la paura di non farcela e chiudere la serranda; infine ha aggiunto:
“E poi non abbiamo avuto la primavera, che vuoi farci?”.
Non abbiamo avuto la primavera, ovviamente il commesso con quella
frase indicava che un’intera stagione di abiti, quellidella collezione
primavera, era andata invenduta con tutte le problematiche di magazzino, di
mancati in troiti. Io, però, mi sono soffermato sul dato simbolico che quella
frase, pronunciata dal commesso, possedeva. Il non avere la primavera significa
che il ciclo temporale, ciò che è sempre stato nei secoli, il complesso volgere
delle stagioni, il susseguirsi di autunno, inverno, primavera estate ha subito
come un salto, un giro a vuoto. Abbiamo perduto una stagione, la nozione dello
scorrere del tempo, la prevedibilità degli eventi naturali così come l’abbiamo
vissuta, introiettata è in realtà rotta: abbiamo noi in questi anni e le
persone prima di noi nei secoli sempre visto il gemmare dei rami, lo sbocciare
dei fiori, ma la nostra esperienza, questa del 2020, è una esperienza, lo
abbiamo detto precedentemente, di povertà, che ci ha donato penuria di parole e
ha mostrato la fragilità della nostra esistenza, e ha reso, almeno per me,
inquietante a frase di Hume: «Che il sole non sorgerà domani è una proposizione
non meno intelligibile e non più contraddittoria dell'affermazione che
sorgerà.». Se abbiamo perduto la primavera, che tempo è il nostro, come
possiamo definire il tempo che abbiamo?
11 – Normalmente noi associamo il concetto di “realtà” a quello di
chronos, e tutti quei romanzi che ignorano completamente questa associazione ci
sembrano romanzi poco seri o addirittura folli; solo l’inconscio è atemporale e
l’illusione che il mondo possa essere costruito per soddisfare l’inconscio è
una illusione senza futuro. […] Il nostro passato è breve, è organizzato dal
nostro desiderio di completezza ed è in semplice relazione con il nostro futuro
A scrivere queste parole è Kermode ne Il senso della fine (Saggiatore,
p. 53), il suo testo è certo un insieme di “studio sulla teoria del romanzo”,
come recita il sottotitolo, ma contiene al suo interno una riflessione sul
concetto del tempo a partire dalla narrazione, che potremmo così riassumere:
che tipo di tempo producono e descrivono i romanzi? Quanto il tempo narrato
nelle finzioni è figlio speculare e in parte distorto delle visioni
apocalittiche e della fine del mondo?
Nella speculazione di Kermode uno dei fondamenti, che secondo il suo stesso
autore non fu colto a fondo, è appunto l’idea di aevum come luogo temporale
intermedio tra il tempo che scorre (kronos) e il tempo dopo la fine (kairos),
quel tempo fittizio verrebbe da dire in cui esistono i personaggi dei romanzi:
«Potremmo dire che l’aevum è l’ordine temporale dei romanzi. I
personaggi dei romanzi sono indipendenti dal tempo e dalla consecutività, ma
possono – come di solito fanno – operare all’interno di essi» (p.76).
Ecco l’essere stati privati della primavera ci ha costretto a essere come
personaggi di un romanzo, a subire quel tipo di scorrere del tempo è che logico
in un romanzo, ma è totalmente innaturale in noi, che non siamo per nulla
indipendenti dal “temporale consecutività” dello scorrere della vita. Anche
questo produce il crollo psichico e culturale e antropologico di cui parlava De
Martino e che la narrativa adombra in ogni sua pagina. Il tempo, più che la
realtà, è ciò che la letteratura cerca di comprendere, di rendere
intellegibile, e il senso della fine del tempo è forse ciò che come esseri
umani ci spaventa. Non a caso spesso le narrazioni sono una sorta di
ricomposizione temporale.
Pensiamo all’Odissea e al finale incontro tra Laerte, Ulisse e
Telemaco; alla fine di questa lunga peripezia i tre uomini si trovano insieme,
hanno ricostruito il loro albero genealogico, hanno ristabilito la loro
regalità hanno formato nuovamente ciò che all’inizio del poema sembrava
infranto; la loro identità che era perduta - Laerte, Ulisse e Telemaco erano
tutti e tre “uomini da nulla” - viene ricomposta. Il tempo passato, il lungo
scorrere degli anni, infine si chiude, e il sole sorge e la primavera tornerà.
Ciò che ci produce la lettura dell’Odissea, e forse di una buona parte
della letteratura, è la ricomposizione del tempo.
Torniamo al contadino di Berna così scrive De Martino
Il mondo – che il malato rappresentava nella modalità più prossima alla sua
esistenza di contadino come ciò che l’uomo produce col suo lavoro e come ciò
che la natura genera attraverso i suoi ritmi stagionali era entrato in
una crisi radicale a patire dalla precedente primavera, quando al malato era
accaduto di sradicare alcuni arbusti, dando così, con questo sua atto
colpevole, il primo avvio al processo di dissoluzione. (De Martino, p.97)
12 - Il mondo inizia a dissolversi in primavera, quando il ritmo di ciò che
abbiamo sempre visto non avviene, ma la narrazione – pur nelle complicate
peripezie dell’intreccio – ci porta infine a compiere una esperienza di
composizione della frattura, a fare sì che il mondo sottosopra dell’apocalisse
in qualche mondo, alla fine della storia, si ritrovi nuovamente in
ordine.
Esiste, però, la possibilità che il tempo, il kronos, non si ricomponga,
che la storia raccontata, o vissuta, non produca in noi nessun sentimento di
ripristino; c’è la possibilità atroce che perduta la primavera non arrivi
l’estate, che il tempo così come l’abbiamo percepito, e l’esistenza così come
l’abbiamo vissuta, non siano più pensabili: che il trauma, la ferita, il taglio
producano una interruzione dello scorrere del tempo, e aprano – il trauma è
letteralmente un’apertura – a qualcosa di nuovo e terribile. Non tutte le
odissee si concludono con un ritorno, ma possono annunciare a un tempo nuovo,
oscuro, incomprensibile e inquieto, come la vergogna he sopravvive a K. nel del
Processo o come il sogno del lager che chiude l’odissea di Primo Levi
Sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco io so che cosa
questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager,
e nulla è vero all’infuori del lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei
sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa.
Il tempo dell’Apocalisse, il tempo fuori dal tempo che scorre, fuori dalle
stagioni, fuori dal sole che sorge e tramonta, il tempo che non ha che fare con
la vita, il tempo di cui, nei mesi della chiusura, abbiamo fatto seppure breve
e confusa e oscura esperienza, è così simile a ciò che ci fu prima di ogni
tempo, nascosto e dilatato in un silenzio che non possiamo immaginare, nella
lunga angosciosa solitudine sterminata di uno spirito che camminava sul
tutto vuoto.
Nessun commento:
Posta un commento