(a cura di Enrico Manera)
Il
recentissimo volume di Einaudi Africa antica, maestoso nell'edizione e nell'apparato
iconografico, è una splendida occasione per affrontare il tema della rimozione
coloniale con un taglio non solo decostruttivo e “difensivo”, ma anche
costruttivo e capace di andare in profondità dal punto di vista storico, in
senso periodizzante ed epistemologico. In un arco cronologico che va da
ventimila anni a.e.v. al XVII secolo, il curatore F.-X. Fauvelle dirige
un'imponente operazione (articolata in 2 sezioni e circa 25 saggi, senza
contare le appendici e il corredo iconografico) che supera gli stretti
obiettivi disciplinari e pone problemi importanti di scienza della cultura:
muovendo dal dato archeologico interessa un'ampia nozione di sapere storico in
cui l'antropologia e la storia del lunghissimo periodo emergono come
prospettive di grande rilievo.
Tutto questo
è utile non solo allo studioso ma può servire a chiarire alcuni nodi centrali
della storia pubblica del presente, per una ridenifizione della storia del
continente africano capace di retroagire sul rapporto con la memoria del
colonialismo e con le migrazioni del tempo presente, territori minati per
stati e cittadini, non solo europei, dal punto di vista umanitario e culturale.
Quello che
segue è una conversazione con Igiaba Scego e Carlo Greppi, una scrittrice/comparatista
e uno storico attenti al dibattito pubblico, i cui recenti lavori si collocano
all'interno di un cantiere solidale negli intenti, accomunato dall'idea di
promuovere un racconto della storia differente da quello dominante, gravemente insufficiente,
e ad alto tasso etico e politico. Tale discorso a più voci, di cui questa è la
prima parte, intende sollecitare una maggior attenzione dell'opinione pubblica
ragionante sul tema del colonialismo, che non può essere affrontato se non si
chiariscono i presupposti inesplicitati di una immagine del mondo e della
storia che continua a essere eurocentrica, bianca, maschile, cisgender e
talmente concentrata sulla propria testualità da aver escluso dalla nozione di
storia tutto ciò che esula dalla propria auto-rappresentazione identitaria e
dal proprio canone, implicitamente considerato come la realtà tout-court.
Enrico
Manera. La prima
urgenza testimoniata dal libro curato da Fauvelle, che insegna Storia e
archeologia dei mondi africani, è quella di smuovere l'immagine semplificata
dell'Africa che la storia pubblica e la storiografia “bianca” continua a
proporre più o meno consapevolmente: come scriveva Kapuscinski nell'esordio
di Ebano: «L'Africa è un continente troppo grande per poterlo
descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo.
È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la
sua denominazione geografica, in realtà l'Africa non esiste». Il libro vuole
innanzitutto mettere in crisi la visione culturale in cui siamo immersi, quella
secondo cui l'Africa sarebbe un continente senza storia. Al
contrario, i suoi ambienti e le diverse esperienze sociali, politiche,
economiche e religiose sono esplorati con una mappatura di paradigmi significativi,
dal Tadrart Acacus – la grande civiltà sahariana preistorica – al Grande
Zimbabwe – regno il cui splendore si colloca tra il X e il XV secolo –, con una
scelta periodizzante che delimita un tempo pre-coloniale; allo stesso modo una
sezione è dedicata specificamente alla geografia e alla relazione tra umanità e
ambiente: deserto, oasi, pastorizia, metalli, caccia-raccolta, società di
produzione, mentre una sezione finale espone le questioni metodologiche e i
problemi delle diverse fonti per la ricostruzione storico-archeologica: tracce,
documenti, oralità, scritture, arti, proponendo una molteplicità di sguardi a
cui non siamo abituati. «Guardiamoci, dunque, da qualsiasi idea di Africanità,
quell'essenza che risiederebbe come reliquia o come dato invariato in ogni
cultura del continente» (Fauvelle).
Igiaba
Scego: Anche
secondo me l'Africa non esiste e nemmeno l'Europa esiste. Chiarisco il mio
pensiero. Africa ed Europa sono entità fluide, fatte di passaggi, scambi,
scontri, confronti, commerci, brutalità, paure, resilienza, resistenza,
dominio. Entità fluide che per convenzione abbiamo separato. Entità fluide che
per quieto vivere non abbiamo messo in connessione. Quindi ha ragione Fauvelle
a dire che niente deve essere una reliquia. Tutto infatti è in movimento, come
lo è del resto il nostro Pianeta. Come africana europea, mi piace definirmi
così senza trattino, sento che è necessario oggi più che mai mettere al centro
un modo nuovo di intendere la storia dei continenti che abitano fuori e dentro
di noi. Una storia nuova dove non ci siano più frontiere rigide, ma appunto che
permettano di mescolare vissuti, avvenimenti, punti di vista. A scuola, quando
ero piccola, ho vissuto sempre con la brutta sensazione addosso di non sapere
niente di me, del mondo che mi circondava, dei miei antenati. Mi chiedevo
perché quel passato, fatto di date, avvenimenti, battaglie, re che andavano e
venivano, non mi riguardava mai. Perché mi sentivo estranea a quella fredda
statistica di date e dati. Ma poi studiavo diligentemente tutto, perchè sentivo
che c'era qualcosa di più e che un giorno l'avrei scoperto.
Sapevo, era
la mia insoddisfazione a parlare, di aver imparato una storia a metà, una
storia circoscritta da una cornice rigida e inespugnabile. Per esempio ricordo
con nettezza la mia delusione nel vedere che la storia dei vari popoli
dell'Africa era assente dai libri scolastici. Io sapevo che c'era una storia
che riguardava la terra dei miei antenati, ma quella non appariva mai o non le
veniva dato valore. E quando appariva fugacemente su un libro di testo era
anche peggio. Infatti l'Africa esisteva solo di luce riflessa. Erano gli occhi
europei quelli con cui ce la mostravano a scuola, un continente quindi nato
dalle navi negriere e dal colonialismo. E nemmeno schiavitù e colonialismo
erano “storie” spiegate bene a scuola come altrove. Il tutto era solo accennato
vagamente, e poi accantonato. In realtà il continente africano, l'ho capito da
adulta, è un insieme di entità diversissime tra loro, ognuna di queste entità
ha avuto la sua lingua, la sua cultura, il suo modo di intendere la vita e
naturalmente una storia variegata, plurale e piena di intrecci. Solo da adulta
ho capito che la denominazione storia dell'Africa è qualcosa che tenta di
contenere l'incontenibile. Solo da adulta ho capito quanto poco sapessi di
tutto questo. E non era una ignoranza solo mia, personale, ma una ignoranza
collettiva. Ignoranza, quella sì, nata con il colonialismo, che ha imposto il
dominio anche sullo sguardo su se stessi. Ed ecco che a seconda della
colonizzazione ci si è visti con occhi francesi, inglesi, belgi, tedeschi,
italiani ecc. Ora è giunta l'ora di rimettere in discussione tutto. Ora con un
termine molto usato diremmo che è l'ora di decolonizzare la storia, il mondo, i
saperi. Ma questa può avvenire solo se capiamo che non c'è una linea retta che
divide i buoni dai cattivi o appunto l'Europa dall'Africa. La vera
decolonizzazione sta nel dare complessità storica a quello che andiamo a
esaminare. Lo storico, come dice spesso la mia amica storica Leila el Houssi,
guarda gli archivi e rifiuta un approccio militante, che temo stia andando per
la maggiore. Lo storico, ma in generale lo studioso cerca di scavare nel
dubbio, nelle contraddizioni, nella complessità.
E
soprattutto chi lavora con la storia (storiche/i, studiose/i affini, artiste/i)
sa che niente è bianco e nero. Quindi ecco perché opere come Africa
antica a cura di Fauvelle, ma come anche African Europeans.
The untold history della storica Olivette Otele, prima
storica afrodiscendente di ruolo in una università britannica, sono di fatto
opere che tendono a minare le certezze di molti dalle fondamenta. Guardano in
parte a ciò che c'era prima della mercificazione dei corpi africani. Ci fanno
vedere come contatti per esempio l'Africa li ha avuti molto con l'estremo
oriente o con il mondo arabo-islamico. Un po' come in Le cose crollano di Chinua Achebe notiamo che le società antiche dell'Africa, nel caso del libro di
Achebe la Nigeria, le cosiddette società precoloniali sono attraversate da
rivalità, guerra, schiavitù, lotte per il potere. Non sono il mondo ideale, ma
un mondo che se non fosse arrivata la tratta e il colonialismo, avrebbe avuto
un altro futuro. Non sappiamo se migliore o peggiore. Comunque altro. Ed è
interessante secondo me vedere cosa è sopravvissuto in Africa di
quell'antichità. Perché non è tutto sparito con la tratta e il colonialismo.
Vedere cosa di quell'antichità è arrivato in Europa con gli afrodiscendenti.
Ecco perché, in un mondo fatto di passaggi e attraversamenti come il nostro
(ricordiamoci sempre che abbiamo piedi e non radici), la parola chiave è
fluidità. Africa e Europa sono continenti fluidi, a volte l'uno è la continuità
dell'altro, nel bene e nel male. Ed entrambi hanno connessioni con l'Asia e
così via. Nessuno ha una storia singola, la storia è sempre da coniugare al
plurale. Inoltre i popoli che hanno abitato i continenti, ci tengo a dirlo,
hanno avuto ruoli attivi sui propri vissuti. Un libro che sento di consigliare
è Storia della schiavitù in Africa di Paul Lovejoy, che esamina anche il ruolo dello schiavismo dei
popoli africani verso altri popoli africani. La lettura di questo testo mi ha
costretto a mettere da parte le mie certezze e mettermi umilmente a studiare
ciò che non conoscevo.
Carlo Greppi: “L'unica storia autentica – ha
scritto Marc Bloch – è la storia universale”, ed è quella a cui dobbiamo
tendere. In riferimento alle vicende passate esistono, ed è così da sempre, uno
o più racconti di una certa uniformità che occupano il cosiddetto mainstream –
letteralmente: il corso principale, la corrente principale –, ma teniamo sempre
presente che questo stream può in effetti lasciare ai margini,
come spesso fa, le storie degli oppressi, per dirla con Benjamin, e più nello
specifico quelle degli “altri”: è il “pericolo di un'unica storia” denunciato dalla scrittrice di origine nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. È forse fisiologico procedere per
cerchi concentrici e raccontare innanzitutto le storie che riguardano il
territorio in cui viviamo – ma anche, come dice giustamente Igiaba, i suoi
scontri e i suoi confronti. Rimane, nella maggior parte delle narratives (locali,
nazionali, continentali) un vuoto pachidermico che volumi come Africa
antica contribuiscono a riempire, perché è sempre più urgente iniziare
a raccontare – per sezioni che però devono essere aperte, comunicanti – la
parabola della “famiglia umana”, come auspicava la Dichiarazione universale
dei diritti umani nel 1948, e sostituirla a una stanca replica di
favole nazionalpatriottiche edificanti. Il grande sociologo Edgar Morin
sostiene – lo ha scritto di recente anche su Twitter – che è «essenziale»
prendere definitivamente coscienza della nostra «identità terrestre»; ed è
forse l'unico caso in cui è lecito usare il termine “identità” per indicare i
molti sensi di appartenenza che ci contraddistinguono. Chiediamocelo sempre:
quanto contribuisce a definirci la nostra etichetta territoriale? E quanto
possiamo considerarla un dato reale?
D'altra
parte, per riprendere l'efficace citazione di Kapuscinski proposta da Enrico,
cosa esiste per davvero, al di là delle denominazioni geografiche
convenzionali? Le nazioni come le conosciamo, ad esempio, sono un “prodotto”
recente che nulla ha di “naturale”, un colpo di tosse della storia
dell'umanità. Nel passato il senso di appartenenza rispondeva a logiche
completamente diverse, e la maggior parte delle nazioni di oggi sono nate negli
ultimi due secoli, come sappiamo. Le “nuove comunità immaginate” sorte quasi
all’improvviso in gran parte a partire dall’Ottocento superando in
un’accelerata spettacolare gli “universalismi” (imperi, religioni, ecc.) e i
“particolarismi” (città-stato, comuni, ecc.), si sono sempre viste come
“antiche”, come ci ha raccontato Benedict Anderson: «In un’epoca in cui la 'storia'
era concepita in termini di 'grandi eventi' e 'grandi leader', perle inanellate
nel filo della narrazione», era una tentazione irresistibile quella di
“decifrare il passato della comunità” seguendo la genealogia di antiche
dinastie.
Come
se le nazioni di oggi fossero sempre state lì così come le pensiamo nel presente
– immutabili, eterne, che «scivolano verso un futuro senza limiti». Anche se
ammettiamo che le entità territoriali ora costruite esistono sulle nostre carte
e nelle nostre teste, dobbiamo renderci conto che molti dei nostri antenati non
si percepivano affatto “africani” e/o “europei” e/o “italiani”, naturalmente,
al di là di una ristretta cerchia di letterati come ad esempio Dante, oggi come
ieri sbandierato dalle tante firme del giornalismo nostrano per illuminare di
luce riflessa una presunta sempiterna “idea di Italia”. Per fare un esempio
lampante di uno tra i tanti maschi, bianchi, potenti over-50 che coltivano
questo genere di retoriche consunte che hanno la storia come loro scenario,
Aldo Cazzullo alcuni mesi fa scriveva che «la storia italiana era ed è fatta
dalla genialità e dall’umanità della nostra gente. Una genialità che si è
espressa in un patrimonio artistico più grande di quello di tutte le altre
nazioni messe assieme, e un’umanità che si è tradotta in capacità di sacrificio
e di lungimiranza»; di recente è tornato a dire che «siamo forse il Paese che
più ha dato al mondo in termini di cultura, di arte, di letteratura, di
bellezza». Sono parole stampate e distribuite dal «Corriere della Sera» nel
2020.
Finché il
principale quotidiano della borghesia nostrana pubblicherà questo nazionalismo
d'accatto e fuori tempo massimo saremo messi male, molto male. Serve militanza,
mi permetto di scrivere in scia a quanto diceva Igiaba: una “militanza
culturale” che non lasci passare queste espressioni altamente tossiche, che
spazzi via il fumo dai nostri occhi e ribadisca, come fanno ormai da decenni
gli studiosi, che le nazioni e in generale le espressioni territoriali alle
quali ci riferiamo per ragioni geografiche o convenzionali – come Africa, come
Europa – sono costruzioni culturali, sono dei processi storici ricostruiti e
ricostruibili. Come ha detto nel 1978 (!) Furio Jesi, il nome stesso “Europa”
si è riempito di «contenuti diversissimi fra loro che arrivano fino ad oggi e
che si trasformano continuamente». Le culture circoscrivono territori (e
viceversa, d'altronde), in un processo in continuo divenire che va
faticosamente studiato; è un'operazione entusiasmante che ci aiuta a non
prendere troppo sul serio le “etichette” che si avvicendano nei secoli. Su
“noi” e sugli “altri”.
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