Come cambiare la storia dell’umanità - David GraeberDavid Wengrow
Per spiegare le origini della disuguaglianza sociale, da secoli ci raccontiamo una storia piuttosto semplice. Per la maggior parte della loro esistenza, gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. Poi è arrivata l’agricoltura, che ha portato con sé la proprietà privata, e sono apparse le città. Questo ha determinato la nascita della civiltà propriamente detta. La civiltà ha significato molte cose brutte (guerre, tasse, burocrazia, patriarcato, schiavitù), ma ha anche reso possibile la letteratura scritta, la scienza, la filosofia e tante altre grandi conquiste umane.
Quasi tutti conoscono questa storia nelle linee generali. Almeno dai tempi di Jean-Jacques Rousseau, riassume le nostre idee sul disegno generale e la direzione della storia dell’umanità. Ed è un fatto importante, perché questa narrazione definisce anche il nostro senso della possibilità politica. Molti considerano la civiltà, e quindi la disuguaglianza, una tragica necessità. Alcuni sognano di tornare a un passato utopico, di trovare un equivalente industriale del “comunismo primitivo” o addirittura, in casi estremi, di distruggere tutto e ricominciare a essere cacciatori e raccoglitori. Ma nessuno mette in discussione la struttura di base della storia. Eppure c’è un problema di fondo in questa narrazione: non è vera.
L’archeologia, l’antropologia e le discipline affini offrono prove schiaccianti che cominciano a delineare un quadro piuttosto chiaro degli ultimi quarantamila anni della storia umana, e questo quadro non somiglia affatto alla narrazione convenzionale. In realtà la nostra specie non ha passato gran parte della sua storia in minuscoli gruppi; l’agricoltura non ha segnato una svolta irreversibile nell’evoluzione sociale; le prime città spesso furono profondamente ugualitarie. Anche se i ricercatori sono gradualmente arrivati a un consenso generale su questi temi, gli autori che riflettono sui “grandi problemi” della storia umana – Jared Diamond, Francis Fukuyama, Ian Morris e altri – continuano a prendere come punto di partenza l’interrogativo di Rous-seau (“Qual è l’origine della disuguaglianza sociale?”) e danno per scontato che la grande storia cominci con una sorta di perdita dell’innocenza primordiale.
Mezze misure e compromessi
Già solo inquadrare la questione in questi termini significa partire da una serie di presupposti: che esiste una cosa che si chiama disuguaglianza, che la disuguaglianza è un problema e che c’è stato un tempo in cui la disuguaglianza non esisteva. Con la crisi finanziaria del 2008 e gli sconvolgimenti che ne sono seguiti, il “problema della disuguaglianza sociale” è diventato centrale nel dibattito pubblico. Negli ambienti politici e intellettuali sembra dominare la convinzione che i livelli di disuguaglianza sociale siano aumentati a dismisura sfuggendo a ogni controllo e che da questo, in un modo o nell’altro, dipendano quasi tutti i problemi del mondo. Oggi denunciare questa realtà è considerato una sfida alle strutture di potere globale, ma pensate a come questi problemi sarebbero stati discussi una generazione fa. A differenza di termini come “capitale” o “potere di classe”, la parola “disuguaglianza” sembra fatta apposta per condurre a mezze misure e compromessi. Si può immaginare di rovesciare il capitalismo o di abbattere il potere dello stato, ma è molto difficile immaginare di cancellare la “disuguaglianza”. Di fatto, non è neppure chiaro cosa significhi, perché le persone non sono tutte uguali e nessuno vorrebbe davvero che lo fossero.
“Disuguaglianza” è un modo di inquadrare i problemi sociali adatto ai tecnocrati riformisti, i quali partono dal presupposto che qualunque reale trasformazione sociale è esclusa dal dibattito politico da molto tempo. Consente di armeggiare con i numeri, ragionare sui coefficienti di Gini, ricalibrare i regimi fiscali e lo stato sociale, consente perfino di spaventare l’opinione pubblica con cifre che dimostrano quanto è peggiorata la situazione (“Ci pensate? Lo 0,1 per cento della popolazione mondiale controlla più del 50 per cento della ricchezza!”), e tutto ciò senza affrontare nessuno degli aspetti che la gente critica realmente di questi ordinamenti sociali così “disuguali”: per esempio il fatto che alcuni riescono a trasformare la loro ricchezza in potere, mentre altre persone si sentono dire che le loro esigenze non sono importanti e la loro vita non ha un valore in sé. Tutto questo sarebbe solo l’effetto inevitabile della disuguaglianza, e la disuguaglianza sarebbe la conseguenza ineludibile del vivere in qualunque società grande, complessa, urbana e tecnologicamente sofisticata.
Le scienze sociali dominanti oggi sembrano voler rafforzare questo senso d’impotenza. Quasi ogni mese ci troviamo davanti a pubblicazioni che cercano di proiettare sull’età della pietra l’attuale ossessione per la distribuzione della proprietà, e ci spingono a una falsa ricerca di “società ugualitarie” definite in termini che ne rendono impossibile l’esistenza al di fuori di qualche minuscolo gruppo di cacciatori-raccoglitori (e forse neanche in quelli).
L’opinione comune sul corso generale della storia umana si può riassumere più o meno così: circa duecentomila anni fa, alla comparsa dell’Homo sapiens anatomicamente moderno, la nostra specie viveva in gruppi piccoli e mobili che comprendevano tra i venti e i quaranta individui. Cercavano i territori migliori per cacciare e procurarsi da mangiare, seguendo i branchi, raccogliendo noci e bacche. Quando le risorse cominciavano a scarseggiare o emergevano tensioni sociali, reagivano spostandosi altrove. Per questi primi esseri umani – potremmo parlare di infanzia dell’umanità – la vita era piena di pericoli, ma anche di possibilità. C’erano pochi beni materiali, ma il mondo era un posto incontaminato e invitante. La maggior parte di loro lavorava solo poche ore al giorno, e le dimensioni ridotte dei gruppi sociali permettevano di mantenere un disinvolto cameratismo, senza strutture formali di dominio. Nel settecento Rousseau lo definì “stato di natura”, ma oggi si presume che sia durato per la maggior parte della nostra storia. Si presume anche che quella fu l’unica era in cui gli umani riuscirono a vivere in autentiche società di uguali, senza classi, caste, capi ereditari o governi centralizzati.
Purtroppo questo idillio era destinato a finire. La versione convenzionale della storia mondiale colloca questo momento intorno a diecimila anni fa, al termine dell’ultima era glaciale. A quel punto, i nostri immaginari attori umani erano sparsi in tutti i continenti, e cominciarono a coltivare la terra e ad allevare il bestiame. Quali che fossero le ragioni a livello locale (l’argomento è oggetto di discussione), gli effetti furono epocali, e sostanzialmente identici dappertutto. L’attaccamento al territorio e la proprietà privata dei beni acquistarono un’importanza prima sconosciuta, e cominciarono scontri sporadici e guerre.
L’agricoltura garantiva un’eccedenza di cibo, che permise ad alcuni di accumulare ricchezza e potere al di là del ristretto gruppo familiare. Altri usarono l’affrancamento dalla ricerca di cibo per sviluppare nuove abilità, come costruire armi, utensili, veicoli e fortificazioni o per dedicarsi alla politica e alla religione organizzata. Di conseguenza, questi “agricoltori del neolitico” ebbero presto la meglio sui loro vicini cacciatori-raccoglitori e cominciarono a eliminarli o assorbirli in un nuovo stile di vita, superiore ma meno ugualitario.
A complicare ulteriormente le cose, così continua la storia, l’agricoltura provocò un aumento globale della popolazione. Man mano che si univano in concentrazioni sempre più grandi, i nostri progenitori fecero un altro passo irreversibile verso la disuguaglianza e circa seimila anni fa comparvero le città: a quel punto il nostro destino fu segnato. Con le città arrivò l’esigenza di un governo centrale. Nuove classi di burocrati, sacerdoti e politici-guerrieri assunsero cariche permanenti per mantenere l’ordine e garantire i servizi pubblici e la regolarità degli approvvigionamenti. Le donne, che un tempo avevano un ruolo preminente negli affari umani, furono isolate o imprigionate negli harem. I prigionieri di guerra diventarono schiavi. Arrivò la vera e propria disuguaglianza, e non ci fu modo di liberarsene.
Eppure, ci assicurano sempre i narratori, la nascita della civiltà urbana ebbe anche aspetti positivi. Fu inventata la scrittura, in un primo momento per tenere la contabilità dello stato, che consentì progressi straordinari nella scienza, nella tecnologia e nelle arti. A prezzo dell’innocenza siamo diventati moderni, e ora possiamo solo guardare con compassione e invidia a quelle poche società “tradizionali” o “primitive” che in qualche modo hanno perso il treno.
Dalle bande agli imperi
Questa è la storia che, come abbiamo detto, costituisce la base di tutto il dibattito contemporaneo sulla disuguaglianza. Se un esperto di relazioni internazionali o uno psicologo vogliono riflettere su questi temi, probabilmente daranno per scontato che per gran parte della loro storia gli esseri umani hanno vissuto in piccoli gruppi ugualitari o che la nascita delle città ha determinato la nascita dello stato. Lo stesso vale per i libri più recenti che guardano alla preistoria per trarre conclusioni politiche attinenti alla realtà contemporanea. PrendiamoThe origins of political order (2011), del politologo Francis Fukuyama: “Nelle sue prime fasi, l’organizzazione politica umana è simile alla società in bande che si può osservare nei primati superiori come gli scimpanzé. Può essere considerata come una forma quasi automatica di organizzazione sociale. Rousseau ha sottolineato che l’origine della disuguaglianza politica va ricercata nello sviluppo dell’agricoltura, e ha in larga misura ragione”.
Il biologo Jared Diamond, nel suo saggio Il mondo fino a ieri (Einaudi 2012), suggerisce che queste bande (in cui ritiene che gli esseri umani abbiano vissuto “fino ad appena undicimila anni fa”) comprendevano solo “poche decine di individui”, per lo più biologicamente imparentati, e conclude che solo in questi gruppi primordiali la specie umana ha raggiunto un grado significativo di uguaglianza sociale.
Per Diamond e Fukuyama, come per Rousseau qualche secolo prima, a mettere fine a quell’uguaglianza – ovunque e per sempre – furono l’invenzione dell’agricoltura e il conseguente aumento della popolazione. L’agricoltura provocò una transizione dalle “bande” alle “tribù”. Le eccedenze alimentari consentirono la crescita della popolazione, portando alcune “tribù” a svilupparsi in società gerarchiche governate da un capotribù.
Ben presto i capitribù si proclamarono re e perfino imperatori. Resistere non aveva senso. Una volta adottate forme di organizzazione grandi e complesse le conseguenze erano inevitabili. E quando i capi cominciarono a comportarsi male – appropriandosi delle eccedenze di cibo per favorire parenti e lacchè, rendendo la loro posizione permanente ed ereditaria, collezionando crani come trofei e harem di schiave o strappando il cuore dei rivali con coltelli di ossidiana – era troppo tardi per tornare indietro. “Le popolazioni numerose”, sostiene Diamond, “non possono funzionare senza capi che prendono le decisioni, esecutori che le attuano e burocrati che amministrano le decisioni e le leggi”.
Anche gli antropologi e gli archeologi, quando cercano di dare un quadro complessivo, finiscono molto spesso per ripetere la versione di Rousseau, con qualche piccola variazione. In The creation of inequality (2012), Kent Flannery e Joyce Marcus impiegano circa cinquecento pagine di studi etnografici e archeologici per cercare di risolvere il mistero. L’aspetto curioso del libro di Flannery e Marcus è che tutti gli aspetti davvero cruciali della loro ricostruzione delle “origini della disuguaglianza” si basano su osservazioni relativamente recenti di raccoglitori, allevatori e coltivatori su piccola scala, come gli hadza della Rift valley in Africa orientale o i nambikwara della foresta pluviale amazzonica. Le descrizioni di queste “società tradizionali” sono trattate come se fossero finestre sull’era del paleolitico o del neolitico. Il problema è che non è affatto così. Gli hadza e i nambikwara non sono fossili viventi. Sono in contatto da millenni con stati agrari e imperi, razziatori e mercanti, e le loro istituzioni sociali si sono formate in seguito ai tentativi di trattare con loro o di evitarli. Solo l’archeologia può dirci se hanno qualcosa in comune con le società preistoriche. Anche se Flannery e Marcus offrono molti spunti interessanti su come potrebbero nascere le disuguaglianze nelle società umane, non ci danno molte ragioni per credere che le cose siano andate realmente così.
Il paradosso di Rousseau
La cosa veramente bizzarra di tutte queste evocazioni dello stato di natura di Rousseau e della perdita dell’innocenza è che lo stesso Rousseau non ha mai sostenuto che lo stato di natura fosse esistito davvero. Era solo un esercizio teorico. Nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini del 1754, su cui si basa gran parte della storia che ci siamo raccontati, Rousseau scrive: “Le ricerche che possiamo fare in questa occasione non vanno prese per verità storiche, ma solo come ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatte a chiarire la natura delle cose che a svelarne la vera origine”.
Lo stato di natura di Rousseau non è mai stato concepito come una fase dello sviluppo. Era piuttosto un racconto allegorico. Come ha sottolineato la politologa Judith Shklar, in realtà Rousseau stava cercando di approfondire quello che considerava il paradosso fondamentale della politica umana, e cioè che la nostra innata ricerca della libertà in qualche modo ci porta ogni volta a una “spontanea marcia verso la disuguaglianza”.
Dobbiamo concludere che i rivoluzionari non si sono dimostrati molto ricchi d’immaginazione, soprattutto quando si tratta di collegare passato, presente e futuro. Tutti continuano a raccontare la stessa storia. Probabilmente non è un caso se oggi, agli albori del nuovo millennio, i movimenti rivoluzionari più vitali e creativi, come gli zapatisti del Chiapas e i curdi del Rojava, sono quelli che si radicano in un passato profondamente tradizionale. Invece di immaginare una qualche utopia primordiale, possono ispirarsi a una narrazione più complessa. Di fatto sembra esserci una consapevolezza sempre maggiore, negli ambienti rivoluzionari, che la libertà, la tradizione e l’immaginazione sono state e saranno sempre intrecciate in modi che non comprendiamo fino in fondo. È arrivato il momento che anche tutti gli altri si aggiornino e comincino a considerare una versione non biblica della storia umana.
Quindi cosa ci hanno insegnato davvero le ricerche archeologiche e antropologiche condotte dopo Rousseau? Per prima cosa, che probabilmente interrogarsi sulle “origini della disuguaglianza sociale” è un punto di partenza sbagliato. La verità è che non abbiamo idea di come fosse la vita sociale umana prima dell’inizio di quello che chiamiamo paleolitico superiore.
Le più antiche prove concrete sull’organizzazione sociale umana nel paleolitico vengono soprattutto dall’Europa, dove la nostra specie visse a fianco dell’Homo neanderthalensis fino all’estinzione di quest’ultimo circa quarantamila anni fa. A quell’epoca, e per tutto l’ultimo massimo glaciale, le zone abitabili dell’Europa somigliavano più al parco del Serengeti in Tanzania che a un qualunque habitat europeo di oggi. A sud delle calotte glaciali, fra la tundra e le sponde del Mediterraneo, si stendevano vallate popolate da animali selvatici e steppe attraversate da mandrie di cervi, bisonti e mammut. Gli studiosi della preistoria ribadiscono da decenni – a quanto sembra con scarsi risultati – che gli abitanti di questi ambienti non avevano niente in comune con quelle bande ugualitarie e semplici di cacciatori-raccoglitori che immaginiamo come nostri lontani progenitori.
Tanto per cominciare c’è l’esistenza indiscussa di ricche sepolture, che risalgono fino al culmine dell’era glaciale. Nel permafrost sotto l’insediamento paleolitico di Sunghir, a est di Mosca, è stata trovata la tomba di un uomo di mezza età sepolto – come osserva Felipe Fernándes-Armesto nella sua recensione di The creation of inequality sul Wall Street Journal – con “stupefacenti segni di prestigio sociale: braccialetti d’avorio, un diadema di denti di volpe e quasi tremila perle d’avorio laboriosamente scolpite e levigate”. A pochi metri di distanza, in una tomba identica, “giacevano due bambini di 10 e 13 anni, adorni di doni funerari dello stesso tipo, comprese circa cinquemila perle e una lancia d’avorio”.
Sepolture altrettanto ricche sono state scoperte nelle grotte e negli insediamenti del paleolitico superiore in gran parte dell’Eurasia occidentale. Per esempio, la “signora di Saint-Germain-de-la-Rivière”, risalente a 16mila anni fa, che indossava ornamenti realizzati con i denti di giovani cervi cacciati a trecento chilometri di distanza, nel paese basco spagnolo, e le sepolture della costa ligure, come quella del “giovane principe”, che nel suo corredo funerario ha una lunga lama di selce, bastoni di corna di alce e un elaborato copricapo di conchiglie traforate e denti di cervo. Questi ritrovamenti pongono sfide interpretative stimolanti. Ha ragione Fernández-Armesto nel sostenere che sono le prove di un “potere ereditato”? Qual era lo status di questi individui?
Non meno misteriose sono le sporadiche ma affascinanti tracce di architettura monumentale che risalgono all’ultimo massimo glaciale. Il pleistocene non ha nulla di paragonabile per dimensioni alle piramidi di Giza o al Colosseo. Però ha costruzioni che, per gli standard dell’epoca, potevano essere considerate solo opere pubbliche, perché implicano una progettazione sofisticata e un impressionante coordinamento della manodopera. Tra queste ci sono le straordinarie “case dei mammut”, costituite da una struttura di zanne rivestita di pelli, di cui si possono trovare esempi databili intorno a 15mila anni fa nella fascia tra Cracovia e Kiev.
Ancora più stupefacenti sono i templi di pietra di Göbekli Tepe, rinvenuti più di vent’anni fa alla frontiera tra Siria e Turchia e tuttora al centro di un vivace dibattito scientifico. Databili intorno a 11mila anni fa, proprio alla fine dell’ultima era glaciale, comprendono almeno venti recinti megalitici. Ognuno era formato da pilastri di calcare alti più di cinque metri e pesanti fino a una tonnellata. Quasi ogni megalite di Göbekli Tepe è un’impressionante opera d’arte, ornata da bassorilievi di animali feroci con i genitali maschili orgogliosamente in mostra. Uccelli rapaci si alternano a immagini di teste umane mozzate. Le incisioni danno prova di capacità scultoree che erano state certamente affinate sul più malleabile legno. Malgrado le loro dimensioni, ciascuna di queste enormi strutture ebbe una vita relativamente breve, che si concluse con un grande banchetto e l’interramento delle sue mura: gerarchie innalzate per essere subito abbattute. I protagonisti di questo spettacolo di costruzione e distruzione erano, per quanto ci è dato sapere, cacciatori-raccoglitori che vivevano dei frutti della natura.
Cosa dovremmo dedurne allora? Alcuni studiosi suggeriscono di abbandonare completamente l’idea di un’età dell’oro ugualitaria e concludere che l’interesse egoistico e l’accumulazione del potere sono le forze che da sempre sottendono lo sviluppo sociale umano. Ma neanche questo funziona davvero. I segni di disuguaglianza strutturale nelle società dell’era glaciale sono solo sporadici. Le sepolture appaiono a secoli e spesso a centinaia di chilometri di distanza.
Regni stagionali
Anche se questo fosse dovuto alla frammentarietà delle prove, dobbiamo chiederci perché le prove sono così frammentarie: se questi “principi” dell’era glaciale si fossero comportati come i principi dell’età del bronzo, troveremmo anche fortificazioni, magazzini, palazzi e tutti i segni degli stati emergenti. Invece, per decine di millenni vediamo monumenti e sepolture magnifiche, ma poco altro che indichi la comparsa di società gerarchiche. Poi ci sono elementi ancora più strani, come il fatto che la maggioranza delle sepolture “principesche” contiene individui con impressionanti anomalie fisiche che oggi sarebbero considerati giganti, gobbi o nani.
Un’analisi più ampia dei reperti archeologici suggerisce una risposta che riguarda i ritmi stagionali della vita sociale preistorica. Gran parte dei siti paleolitici citati fin qui sono associati a segni di aggregazioni annuali o biennali, legate alle migrazioni degli animali – che si tratti di mammut, bisonti della steppa, renne o (nel caso di Göbekli Tepe) gazzelle – o alle migrazioni cicliche dei pesci e ai raccolti di noci.
In periodi meno favorevoli dell’anno, almeno alcuni dei nostri antenati dell’era glaciale sicuramente vivevano e si procuravano da mangiare in piccoli gruppi. Ma ci sono prove schiaccianti che in altri momenti si riunivano in massa in micro-città come quelle trovate a Dolni Vĕstonice, nella Repubblica Ceca, per approfittare della sovrabbondanza di risorse naturali, impegnarsi in complessi rituali e imprese artistiche e scambiare minerali, conchiglie e pelli di animali, coprendo distanze impressionanti. Gli equivalenti di questi siti di aggregazione stagionale in Europa occidentale sarebbero i grandi rifugi rupestri del Périgord francese e della costa cantabrica, con i loro famosi dipinti e le celebri incisioni, che facevano anch’essi parte di un ciclo annuale di aggregazione e dispersione.
Questi modelli stagionali di vita sociale sopravvissero a lungo dopo l’“invenzione dell’agricoltura”, che in teoria avrebbe dovuto cambiare tutto. Nuove prove dimostrano che questo genere di ciclicità potrebbe essere la chiave per comprendere i famosi monumenti neolitici della piana di Salisbury. Stonehenge sarebbe solo l’ultima di una lunghissima sequenza di strutture rituali in legno o in pietra che venivano erette quando la gente arrivava nella pianura dagli angoli più remoti delle isole britanniche in certi periodi dell’anno. Gli scavi hanno dimostrato che molte di queste strutture – ora interpretate plausibilmente come monumenti ai progenitori di potenti dinastie del neolitico – furono smantellate poche generazioni dopo la loro costruzione.
La cosa impressionante è che questa abitudine di erigere e smantellare monumenti grandiosi coincide con un periodo in cui i popoli del Regno Unito, che avevano importato l’economia agricola del neolitico dall’Europa continentale, sembravano aver abbandonato un aspetto essenziale, interrompendo la coltivazione dei cereali e tornando – intorno al 3300 aC – alla raccolta di nocciole come risorsa alimentare di base. I costruttori di Stonehenge continuavano ad allevare bovini e probabilmente non erano né agricoltori né cacciatori-raccoglitori, ma una via di mezzo. E se nella stagione festiva, quando si radunavano in massa, s’instaurava qualcosa di simile a una corte reale, questa non poteva che dissolversi per buona parte dell’anno, quando le stesse persone tornavano a sparpagliarsi in tutta l’isola.
Perché queste variazioni stagionali sono importanti? Perché rivelano che fin dall’inizio gli esseri umani hanno consapevolmente sperimentato diverse possibilità sociali. Secondo gli antropologi le società di questo tipo erano caratterizzate da una “doppia morfologia”. All’inizio del novecento Marcel Mauss osservò che gli inuit dell’Artico “e analogamente molte altre società hanno due strutture sociali, una d’estate e l’altra d’inverno, e due sistemi di legge e di religione paralleli”. Nei mesi estivi gli inuit si disperdevano in piccole bande patriarcali, ciascuna sotto l’autorità di un unico maschio anziano, alla ricerca di pesci d’acqua dolce, caribù e renne. La proprietà privata era chiaramente contrassegnata e i patriarchi esercitavano un potere coercitivo, a volte addirittura tirannico, sui loro familiari. Ma nei lunghi mesi invernali, quando foche e trichechi affollavano il litorale artico, subentrava un’altra struttura sociale e gli inuit si riunivano per costruire grandi case comuni di legno, ossa di balena e pietra. In queste case regnavano i princìpi dell’uguaglianza, dell’altruismo e della vita collettiva; la ricchezza veniva condivisa; mariti e mogli si scambiavano i partner sotto l’egida della dea Sedna.
Ancora più sorprendenti, in termini di capovolgimenti politici, erano le pratiche stagionali delle confederazioni tribali dell’ottocento nelle grandi pianure americane: agricoltori occasionali o ex agricoltori che avevano adottato una vita nomade dedita alla caccia. Alla fine dell’estate, piccole bande di cheyenne e lakota si riunivano in grandi insediamenti per prepararsi alla caccia al bisonte. In questo importantissimo periodo dell’anno creavano una forza di polizia che aveva poteri coercitivi assoluti, compreso il diritto di imprigionare, frustare o multare qualunque trasgressore ostacolasse i preparativi. Eppure, come ha osservato l’antropologo Robert Lowie, questo “indubbio autoritarismo” era temporaneo, e cedeva il posto a forme di organizzazione più “anarchiche” una volta conclusa la stagione della caccia e i rituali collettivi che la seguivano.
Avanti e indietro
I reperti archeologici suggeriscono che negli ambienti molto stagionali dell’ultima era glaciale i nostri progenitori si comportavano in modi assai simili: alternando ordinamenti sociali molto diversi, consentendo la comparsa di strutture autoritarie in certi periodi dell’anno a condizione che non potessero durare, e con l’intesa che nessun particolare ordine sociale era mai fisso o immutabile. All’interno della stessa popolazione si poteva vivere in quella che a volte sembra una banda, altre volte una tribù e altre volte ancora una società con molte delle caratteristiche che oggi attribuiamo agli stati.
Questa flessibilità istituzionale offre la possibilità di uscire dai confini di una certa struttura sociale e riflettere, di fare e disfare i mondi politici in cui si vive. Se non altro, questo spiega i “principi” e le “principesse” dell’ultima era glaciale, che sembrano i personaggi di una fiaba o di un dramma in costume. Forse lo erano, quasi letteralmente. Se mai hanno regnato, forse è stato – come per i re e le regine di Stonehenge – per una sola stagione.
Gli autori moderni tendono a usare la preistoria per riflettere su problemi filosofici: gli esseri umani sono sostanzialmente buoni o cattivi, collaborativi o competitivi, ugualitari o gerarchici? Quindi tendono a scrivere come se per il 95 per cento della storia della nostra specie le società siano state in larga misura sempre uguali. Ma quarantamila anni sono un periodo lungo, lunghissimo. Sembra altamente probabile, e le prove lo confermano, che quegli stessi pionieri umani che colonizzarono gran parte del pianeta abbiano anche sperimentato un’enorme varietà di ordinamenti sociali.
Come spesso ha sottolineato Claude Lévi-Strauss, i primi Homo sapiens non erano uguali agli umani moderni solo fisicamente, ma anche a livello intellettuale. Molto probabilmente erano più consapevoli del potenziale della società di quanto generalmente lo siamo oggi, visto che ogni anno passavano da una forma di organizzazione all’altra. Invece di oziare in un’innocenza primordiale finché il genio della disuguaglianza è riuscito in qualche modo a liberarsi, i nostri antenati preistorici sembrano essere riusciti ad aprire e chiudere regolarmente la bottiglia, confinando la disuguaglianza nei drammi in costume rituali, costruendo divinità e regni come costruivano i loro monumenti per poi smantellarli allegramente.
Se è così allora non dovremmo chiederci quali sono le origini delle disuguaglianze sociali, ma perché – dato che abbiamo passato una parte così grande della nostra storia facendo avanti e indietro fra sistemi politici diversi – a un certo punto siamo rimasti bloccati. Tutto questo è molto distante dalla nozione che le società preistoriche siano scivolate ciecamente verso le catene istituzionali che le hanno legate. E anche dalle cupe profezie di Fukuyama, Diamond e altri, secondo cui ogni forma di organizzazione sociale complessa comporta necessariamente che piccole élite prendano il controllo delle risorse chiave e comincino a calpestare tutti gli altri. La maggior parte delle scienze sociali le considera verità autoevidenti, ma sono infondate. Quindi potremmo chiederci quali altre verità acclarate dovrebbero essere gettate nella pattumiera della storia.
L’idea che l’agricoltura abbia segnato una grande transizione nelle società umane non è più sostenuta da prove concrete. Nelle parti del mondo dove animali e piante furono addomesticati per la prima volta, non c’è stato un passaggio repentino e riconoscibile dal cacciatore-raccoglitore del paleolitico all’agricoltore del neolitico. La “transizione” da un’esistenza basata sulle risorse spontanee a una basata sulla produzione del cibo di regola ha richiesto qualcosa come tremila anni. Anche se l’agricoltura consentiva la possibilità di una più disuguale concentrazione di ricchezza, nella maggioranza dei casi questo cominciò a succedere millenni dopo la sua comparsa.
Nel frattempo, gli umani che vivevano in zone lontanissime come l’Amazzonia e la mezzaluna fertile in Medio Oriente facevano esperimenti con l’agricoltura, “giocavano agli agricoltori”, in un certo senso, cambiando ogni anno i modi di produzione proprio come alternavano le loro strutture sociali. Inoltre, la “diffusione dell’agricoltura” in aree secondarie come l’Europa – spesso descritta in termini trionfalistici come l’inevitabile declino della caccia e della raccolta – in realtà è stata un processo estremamente delicato che a volte è fallito, portando a un crollo demografico tra gli agricoltori ma non tra i cacciatori-raccoglitori.
Chiaramente, non ha più senso usare espressioni come “la rivoluzione dell’agricoltura” quando parliamo di processi di così straordinaria lunghezza e complessità. E poiché non esisteva un eden da cui i primi agricoltori potessero cominciare il percorso verso la disuguaglianza, ha ancora meno senso sostenere che l’agricoltura ha posto le basi della gerarchia o della proprietà privata. Almeno in alcuni casi, come in Medio Oriente, i primi agricoltori sembrano aver consapevolmente sviluppato forme alternative di comunità per adattarsi a uno stile di vita che richiedeva più lavoro. Queste società neolitiche appaiono sorprendentemente ugualitarie rispetto ai loro vicini cacciatori-raccoglitori, con un sensibile aumento dell’importanza economica e sociale delle donne, che si riflette chiaramente nell’arte e nei rituali (basta confrontare le figurine femminili di Gerico o Çatalhöyük con le sculture ipermascoline di Göbekli Tepe).
Piccole ingiustizie
La civiltà non è un pacchetto preconfezionato. Le prime città non apparirono dal nulla insieme a sistemi di governo centralizzato e di controllo burocratico. Oggi sappiamo che in Cina nel 2500 avanti Cristo esistevano già insediamenti di più di trecento ettari lungo il corso inferiore del fiume Giallo, più di mille anni prima della fondazione della prima dinastia reale (Shang). Sull’altra sponda del Pacifico, nella valle del rio Supe, in Perù, sono stati scoperti centri cerimoniali di dimensioni impressionanti che risalgono più o meno allo stesso periodo: rovine enigmatiche di piazze e piattaforme monumentali, che precedono di quattromila anni l’impero degli inca.
Queste recenti scoperte dimostrano quanto poco sappiamo realmente sulla distribuzione e l’origine delle prime città, che potrebbero essere molto più antiche dei sistemi di governo autoritario e di amministrazione basata sulla scrittura che un tempo ritenevamo necessari alla loro fondazione. E in quelli che conosciamo come i maggiori centri della prima urbanizzazione – la Mesopotamia, la valle dell’Indo, il bacino del Messico – sono sempre più numerosi i segni che le prime città erano organizzate secondo princìpi deliberatamente ugualitari, con i consigli municipali che avevano una significativa autonomia dal governo centrale. Nei primi due casi, per oltre cinquecento anni fiorirono città con sofisticate infrastrutture civiche ma senza traccia di sepolture reali e di monumenti, senza eserciti permanenti o altri mezzi di coercizione su larga scala e senza neppure un accenno di controllo burocratico diretto sulla vita dei cittadini.
Ci sono tutti i tasselli per creare una storia del mondo completamente diversa. È solo che siamo troppo accecati dai nostri pregiudizi per vederne le implicazioni. Per esempio, quasi tutti oggi ripetono che la democrazia partecipativa e l’uguaglianza sociale possono funzionare in una piccola comunità o in un gruppo di attivisti, ma non possono essere applicate a una città, a una regione o a uno stato. Ma l’evidenza davanti ai nostri occhi, se ci decidiamo a guardarla, suggerisce il contrario. Le città ugualitarie, e perfino le confederazioni regionali, sono storicamente piuttosto comuni. Le famiglie e le case ugualitarie non lo sono.
Quando sarà pronunciato il verdetto della storia, capiremo che la perdita più dolorosa delle libertà umane è cominciata su piccola scala, a livello di relazioni tra sessi, gruppi di età e servitù domestica: il genere di rapporti che esprimono allo stesso tempo la massima intimità e le forme più profonde di violenza strutturale. Se vogliamo davvero capire come diventò accettabile per la prima volta che alcuni trasformassero la ricchezza in potere mentre altri finivano col sentirsi dire che le loro esigenze e la loro vita non contavano, è qui che dovremmo guardare. Ed è sempre qui che dovrà svolgersi il difficilissimo lavoro di creare una società libera.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
La crisi dello Stato - David
Graeber
[…] Gli
zapatisti non sono affatto un fenomeno eccezionale. Parlano una varietà
di lingue maya (tzeltal, tojalobal, chol, tzotzil, mam), sono originari di
comunità che hanno tradizionalmente conosciuto un certo grado di autogoverno
(in parte perché così potevano funzionare come riserve di lavoro indigeno per
gli allevamenti e le piantagioni situati altrove), e di recente hanno formato
nuove comunità, in gran parte multietniche, in nuovi territori della Selva
Lacandona [Collier, 1999; Ross, 2000; Rus, Hernandez e Mattiace, 2003]. In
altre parole, sono un classico esempio di quegli spazi di improvvisazione
democratica di cui ho parlato, in cui un amalgama indefinito di persone, molte
delle quali con esperienze precedenti di autogoverno municipale, porta alla
costituzione di comunità inedite al di fuori del controllo diretto
dello Stato. E non c’è niente di particolarmente nuovo neppure nel
fatto che sono al centro di un gioco globale di influenze: se da una parte
hanno assorbito idee da molti posti, dall’altra con il loro esempio hanno
avuto un enorme impatto sui movimenti sociali di tutto il pianeta. Il
primo encuentro zapatista del 1996, per esempio, ha portato alla
formazione di una rete internazionale denominata People’s Global Action (pga) e
basata sui principi di autonomia, orizzontalità e democrazia diretta. Sono
entrati a farne parte i gruppi più disparati, come il Movimento dos
Trabalhadores Rurais Sem Terra in Brasile, la Karnataka State Farmer’s
Association (un gruppo indiano di azione diretta che si ispira al socialismo
gandhiano), e un numero infinito di collettivi anarchici in Europa e nelle
Americhe, oltre a numerose organizzazioni indigene di ogni continente. È stato
proprio il pga a chiamare a raccolta contro la riunione del wto a Seattle nel
novembre 1999. I principi dello zapatismo, il rifiuto
dell’avanguardismo, l’enfasi sulla creazione di
alternative percorribili nella propria comunità al fine di sovvertire la logica
del capitale globale: tutto questo ha avuto un’enorme influenza su
coloro che hanno partecipato ai nuovi movimenti sociali, anche se spesso le
persone coinvolte avevano solo una vaga idea di chi fossero gli zapatisti e
quasi sicuramente non avevano mai sentito parlare del pga. Senza dubbio lo
sviluppo di internet e delle comunicazioni globali ha permesso a questo
processo di procedere più velocemente che in passato, aprendo la strada ad
alleanze più formali ed esplicite, ma questo non significa che ci troviamo di
fronte a un fenomeno senza precedenti.
Si può
valutare l’importanza di questo punto solo se si prende in considerazione ciò
che può succedere quando non lo si tiene sempre ben presente. Voglio a questo
proposito citare un autore le cui posizioni sono piuttosto vicine alle mie. In
un libro intitolato Cosmopolitanism [2002], Walter Mignolo spiega
in modo efficace quanto siano legati all’idea di conquista e di imperialismo la
tesi di Kant sul cosmopolitismo o la dichiarazione delle Nazioni Unite sui
diritti umani. Inoltre cita l’appello alla democrazia degli zapatisti per
rispondere a Slavoj Žižek quando afferma che gli attivisti di sinistra devono stemperare
la critica all’etnocentrismo, riconoscendo che la democrazia è «l’autentica
eredità europea dall’antica Grecia in avanti» [1998, p. 1009]. Scrive Mignolo:
Gli zapatisti hanno utilizzato la parola «democrazia»
nonostante essi la intendano in modo differente rispetto al senso che le
attribuisce il governo messicano. La democrazia non viene
concettualizzata dagli zapatisti a partire dalla filosofia politica europea, ma
a partire dal modello di organizzazione sociale dei Maya, fondato sulla
reciprocità, sui valori comunitari invece che sui valori individuali, sulla
saggezza piuttosto che sull’epistemologia […]. Gli zapatisti non
hanno avuto scelta. Sono stati costretti a usare la parola imposta dal discorso
politico egemonico, sebbene l’utilizzo della medesima parola non comporti una
sua interpretazione mono-logica. Ma una volta che è stata utilizzata, la parola
«democrazia» diventa un link attraverso il quale le concezioni liberali di
democrazia e i concetti indigeni di reciprocità e organizzazione sociale
comunitaria si incontrano [2002, p. 180].
Si
tratta di una buona idea. Mignolo la definisce border thinking,
«pensiero di confine», e la propone come modello per arrivare a un sano
«cosmopolitismo critico», in opposizione alla variante eurocentrica rappresentata
da Kant o Žižek. A me sembra però che Mignolo in questo processo teorico
finisca per ricadere in una versione più edulcorata dello stesso discorso
essenzialista che sta cercando di evitare. In primo luogo, dire che «gli
zapatisti non hanno avuto scelta» se non usare la parola «democrazia» è
semplicemente falso. Ovviamente hanno fatto una scelta. Altri gruppi
indigenisti hanno fatto scelte diverse. Il movimento aymara in
Bolivia, per fare un esempio, ha deciso di rifiutare in
toto la parola «democrazia» perché, sulla base dell’esperienza storica del loro
popolo, il nome era stato applicato solo a sistemi imposti su di loro con la
violenza. Pertanto, la loro tradizione di processi decisionali
egualitari non aveva nulla a che fare con la democrazia. A me sembra che la
decisione zapatista di accogliere il termine sia stata più che altro una
decisione volta non solo a prendere le distanze da una possibile politica
identitaria, ma anche a cercare alleati, in Messico e altrove, tra quanti sono
interessati a un più ampio dibattito tra le forme di auto-organizzazione (allo
stesso modo in cui hanno cercato di innescare un dibattito con chi era
interessato a riesaminare il significato di parole come «rivoluzione»). In
secondo luogo, Mignolo, come Lévi-Bruhl, si mette a fare paragoni tra mele e
arance, cioè tra la teoria occidentale e la pratica indigena. Di fatto, lo
zapatismo non è una semplice emanazione delle pratiche tradizionali maya: le
sue origini vanno cercate in un prolungato confronto tra queste pratiche e
molteplici soggetti, come gli stessi intellettuali maya (probabilmente
a loro agio anche con le opere di Kant), o i teologi della
liberazione (che si ispirano a testi profetici scritti
nell’antica Palestina), o i meticci rivoluzionari (che si ispirano all’opera
del presidente Mao, vissuto in Cina). La democrazia non
emerge dal discorso di qualcuno. Sembra quasi che anche autori come Mignolo,
quando prendono come punto di partenza la tradizione occidentale, magari per
criticarla, finiscono per rimanervi intrappolati dentro.
In
realtà, «la parola imposta dal discorso egemonico» è in questo caso un
compromesso-grimaldello su una parola greca coniata originariamente per
descrivere una forma di autogoverno municipale e poi applicata a una repubblica
rappresentativa. È proprio questa contraddizione che gli zapatisti hanno
ereditato. In effetti, sembra
impossibile sbarazzarsene. I teorici liberali [per esempio Sartori, 1987, p.
279] di tanto in tanto mostrano il desiderio di mettere da parte la democrazia
ateniese, dichiararla irrilevante e farla finita con questa eredità, ma per
motivi ideologici questa mossa è tuttora inammissibile. Tutto sommato, senza
Atene non si potrebbe più sostenere che la «tradizione occidentale» ha in sé
qualcosa di democratico. Non rimarrebbe che far risalire le nostre idee
politiche alle meditazioni totalitarie di Platone, o altrimenti ammettere che
non esiste qualcosa che nella realtà corrisponda al concetto di «Occidente». In
effetti, anche i teorici liberali si sono chiusi nell’angolo. Ovviamente gli
zapatisti non sono i primi rivoluzionari a essersi impossessati di questa
contraddizione, ma le loro azioni stavolta hanno avuto una risonanza inusuale e
potente, in parte perché ci troviamo in un’epoca in cui lo Stato attraversa una
profonda crisi.
Il matrimonio impossibile
Credo
che questa contraddizione, nella sua essenza, non sia solo linguistica.
Riflette qualcosa di più profondo. Negli ultimi duecento anni, i democratici
hanno cercato di innestare gli ideali di autogoverno popolare sull’apparato
coercitivo dello Stato. Ma per loro natura gli Stati non si
possono realmente democratizzare. Rimangono, tutto sommato, delle
forme di violenza organizzata. I Federalisti americani erano realistici quando
sostenevano che la democrazia è in contraddizione con una società che si basa
sulle diseguaglianze di ricchezza, perché per difendere quella ricchezza serve
un apparato coercitivo che tenga a freno la plebe alla quale la democrazia
conferisce potere. In questo senso Atene era un caso unico nel suo genere
perché era un fenomeno di transizione: c’erano diseguaglianze di potere,
probabilmente anche una classe egemonica, ma non esisteva un apparato
coercitivo formale. Di qui l’assenza di accordo tra gli studiosi sul fatto se
Atene fosse o meno uno Stato.
Analizzando
il monopolio della forza coercitiva dello Stato moderno si vedono le pretese
democratiche dissolversi in un mare di contraddizioni. Per esempio, mentre
le élites moderne hanno in gran parte abbandonato il discorso
ampiamente utilizzato in passato sul popolo come «grande bestia» assassina, la
stessa immagine torna alla ribalta, quasi nelle stesse forme del XVI secolo,
nel momento in cui si propone di democratizzare certi aspetti dell’apparato
coercitivo. […]
Francis
Dupuis-Déri [2002] ha coniato il termine «agorafobia politica» per riferirsi
alla diffidenza verso le deliberazioni e le procedure decisionali pubbliche,
una diffidenza che percorre tutta la tradizione occidentale, dalle opere di Costant, Sieyés e Madison fino a Platone
e Aristotele. Aggiungerei che anche le conquiste più sorprendenti dello Stato
liberale, i suoi elementi più genuinamente democratici come le garanzie sulla
libertà di parola e di riunione, rimandano alla stessa agorafobia. Solo quando
diventa assolutamente chiaro che il discorso pubblico e l’assemblea non sono il
fulcro della decisione politica, ma nel migliore dei casi il tentativo di
criticare, influenzare o stimolare chi prende le decisioni, solo allora quelle
garanzie diventano sacrosante. Malauguratamente, questa agorafobia non viene
condivisa solo dai politici e dai giornalisti ma anche, in larga misura, dal
pubblico. Le ragioni non vanno cercate troppo lontano. Le
democrazie liberali non hanno niente di simile all’agorà ateniese,
ma non scarseggiano di circhi romani. Il fenomeno degli «specchi deformanti»,
con cui le élites al potere incoraggiano le forme di partecipazione
popolare che ricordano continuamente alle persone comuni quanto siano inadatte
a governare, sembra aver raggiunto la perfezione in molti Stati moderni. Si
consideri per esempio la diversa visione di natura umana che si potrebbe
ottenere se si partisse da un’esperienza di guida automobilistica in autostrada
o da un’esperienza di trasporto pubblico. Ma questa passione degli americani (o
dei tedeschi) per le automobili non è casuale bensì il risultato di decisioni
politiche consapevoli prese dai politici e dalle élites industriali
agli inizi degli anni Trenta. E si potrebbe scrivere una storia simile anche
per la televisione, o per il consumismo, o – come ha osservato Polanyi tanto
tempo fa – per il «mercato».
Che la
natura coercitiva dello Stato si fondi su una contraddizione fondamentale i
giuristi lo sanno da tempo. Walter Benjamin [1978]
ha ben colto la questione sostenendo che qualsiasi ordine legale che reclama il
monopolio dell’uso della violenza fonda le sue pretese su un potere altro da
sé, ovvero su atti che erano considerati illegali nel sistema giuridico
precedentemente in vigore. Pertanto, la legittimità di un sistema giuridico poggia
necessariamente su atti violenti di natura criminale: i rivoluzionari francesi
o americani erano in fondo colpevoli di alto tradimento dal punto di vista del
sistema giuridico in cui erano cresciuti. I re sacri, dall’Africa al Nepal,
avevano risolto la questione collocandosi, come gli dèi, al di fuori del
sistema. Ma come ci ricordano autori come Agamben e Negri, il «popolo» non può
evidentemente esercitare la sovranità allo stesso modo. […]
Lo
Stato democratico è da sempre un concetto contraddittorio. La globalizzazione – con la sua spinta a creare nuove
strutture decisionali su scala planetaria, che hanno semplicemente reso
grottesco ogni riferimento alla sovranità popolare o addirittura alla
partecipazione – si è limitata a rendere evidente questa contraddizione. Come
di consueto, la soluzione neoliberista è stata di confermare il
mercato come l’unica forma di decisione pubblica di cui abbiamo bisogno,
riducendo lo Stato alle sue funzioni esclusivamente coercitive. Ed è
proprio per questo che la proposta zapatista è assolutamente sensata: bisogna
abbandonare l’idea che la rivoluzione significhi impossessarsi dell’apparato
coercitivo dello Stato e innescare invece un processo di rifondazione della
democrazia basato sull’auto-organizzazione di comunità autonome.
Questa è la ragione per cui una remota insurrezione nel sud del Messico ha
provocato tanto entusiasmo in tutto il mondo, sicuramente nei circoli radicali
ma non solo.
Sembra
quasi che la democrazia stia tornando negli spazi da cui è sorta: negli spazi
intermedi, negli interstizi del potere. Se da lì riuscirà a estendersi
all’intero pianeta dipenderà non tanto dalle nostre teorie quanto dalla nostra
reale convinzione che la gente comune, seduta insieme a deliberare, sia capace
di gestire le proprie faccende meglio delle élites che le
gestiscono a loro nome e che impongono le decisioni prese con la forza delle
armi. Per gran parte della storia
umana, di fronte a queste domande, gli intellettuali di professione hanno
sempre preso le parti delle élites. La mia impressione è che la maggioranza delle persone
sia ancora sedotta dagli «specchi deformanti» e non abbia fiducia nelle
possibilità della democrazia popolare. Ma forse adesso le cose stanno
cambiando.
Per David Graeber: chi ha compagn* non
muore mai - Viola Vertigo
Se fossi parola invocherei il
bello, il giusto, il vero
e direi il mio amore in un
sospiro
(Nazim Hikmet)
Ciascun* ha, con gli autori che per qualche motivo sono
stati importanti, una relazione molto personale. Apprendere della morte di
David Graeber, avvenuta a Venezia, luogo del cuore e città che per me ha
segnato l’inizio dell’amore per l’antropologia, è stato un colpo molto duro.
Mancheranno moltissimo le sue analisi, in grado di tenere insieme un livello
etnografico ineccepibile e non ideologico, all’impegno militante. Un impegno
reale, che non si è mai esaurito, come spesso accade, nel compiacimento
accademico della propria presunta radicalità.
David Graeber era uno di noi, un compagno, un anarchico.
Pur non avendo avuto il piacere di conoscerlo di persona, attraverso le
amicizie in comune e le affinità politiche e di studio l’ho sentito per molto
tempo come una persona vicina. Non un “mostro sacro” dell’antropologia, ma uno
studioso saggio e affine, di cui leggere le analisi e ridere, divertendomi,
pensando al suo acuto spirito di osservazione e allo humor che lo
contraddistingueva e animava il suo pensiero.
Il mio “incontro” con David Graeber precede la lettura
dei suoi testi. È avvenuto quando ho deciso di cambiare corso di laurea, dopo
la triennale in lettere moderne, per approdare a una magistrale in
antropologia. Di quell’estate di transizione ricordo soprattutto la lettura di
grossi manuali e delle monografie più classiche: Bronislaw Malinowski, Franz
Boas, Evans Pritchard, Margaret Mead, Ruth Benedict.
Io, che ero una militante, non mi aspettavo di trovare
alleat* o compagn* durante questo percorso, ma una prospettiva, una visione
sbilanciata, diciamo, dal testo alla persona che lo aveva partorito.
Non cercavo, insomma, nell’antropologia, una modalità del
mio fare politico. Piuttosto, la corrispondenza con lo slittamento dei miei
interessi di approfondimento accademico.
Invece ricordo l’impressione potentissima e pervasiva che
l’antropologia fosse una disciplina “pericolosa” e radicale, perché dava forza
di carne, corpi e azioni alle parole e al pensiero che agitavamo. Non è tanto,
o soltanto una messa in discussione dello status quo, dei sistemi di
organizzazione del tempo, dello spazio e delle relazioni dominanti, ma un modo
di fare tutto ciò: uno sguardo che si interroga, che costruisce relazioni tra
paradigmi differenti, che tesse legami e, al contempo, fa tremare gli assunti
dati per scontato.
Quando ho cominciato a intuire la connessione profonda
tra il pensiero libertario e l’antropologia, ho incontrato subito Pierre
Clastre e David Graeber. Del primo ricordo una ricerca disperata dei testi, un
tempo editi dalla casa editrice Feltrinelli e poi trovati nella biblioteca di
Ca’ Foscari. Ricordo la triste e lapidaria considerazione di una commessa della
libreria Feltrinelli di Trieste: «Purtroppo, come ti sarai accorta, Giangiacomo
è morto».
Frammenti di un’antropologia anarchica di Graber, invece, era fruibile. Ma aveva un titolo
sin troppo didascalico rispetto a ciò che cercavo. Ricordo di aver aspettato a
leggerlo.
Non volevo tornare al mondo che conoscevo, ma piuttosto
che fossero i capisaldi dell’etnografia a permettermi di costruire
autonomamente quei legami tra teoria e pratica che stavo cercando. Ho letto il
libro solo nell’estate successiva al primo anno di magistrale. L’ho letto al
mare, sottolineandolo con un lapis blu.
Non posso dire di essere rimasta particolarmente colpita
dal testo. Pensai anzi che non dicesse nulla di realmente nuovo. Eppure forse è
proprio questo che mi ha fatto sentire David Graeber vicino e ha fatto sì che
mi fidassi negli anni a venire del suo punto di vista, del suo taglio
analitico: la sensazione di una fortissima consuetudine con il suo orizzonte di
senso, come se noi libertar* e antropolog* non potessimo non pensarla così. Non
potessimo non esserci posti il problema di trovare la nostra teoria della
pratica.
Per me Frammenti è stato il testo che raccontava
la mia necessità politica di fare antropologia, di scrivere etnografie. Lo è
stato in molti modi: da un punto di vista militante, perché mi ha spiegato il
tipo di persona che volevo essere, e da quello dell’antropologia, perché mi ha
insegnato che essere anarchic* è una pratica e non un’identità. Una pratica sia
intellettuale che materiale. Una pratica che passa attraverso i campi che
scegliamo, certamente, ma anche attraverso il modo in cui lo facciamo, le
relazioni che instauriamo e le modalità con cui ci facciamo toccare dalle cose
che viviamo.
Negli anni successivi, mentre mi occupavo della crisi
greca, David Graeber è stato un invisibile compagno e una spalla solida di
tutte le accese discussioni sul debito.
Con il suo testo Debito. I primi 5000 anni riusciva
a dimostrare, con una perizia etnografica ineccepibile e un piglio velatamente
polemico e ironico, che il debito non si definisce solo in relazione
all’economia, ma al potere e a un certo regime morale stabilito da chi lo
detiene. Soprattutto che è un ordine di senso che precede la sua forma
economica.
Ancora, in strenua opposizione all’ideologia keynesiana,
i suoi interessi etnografici e politici più recenti, in linea con quello slogan
inventato proprio da lui ai tempi del movimento Occupy del quale è stato
militante («We are the 99%!»), l’hanno portato a guardare alle piaghe della
precarietà giovanile americana (ma ahinoi non solo!). Si è occupato così della
nocività di quelli che a ragione ha definito “Bullshit jobs” (lavori di merda),
colpevoli di costruire un “feudalismo manageriale” in cui lo status di potere e
di competitività è di gran lunga più importante del lavoro stesso.
David Graeber era una bella persona, oltre che un ottimo
antropologo, si batteva per ciò che è giusto e riponeva nel concetto di verità
(cioè di realtà delle relazioni umane e delle condizioni materiali delle
persone attorno a lui) il valore costitutivo delle sue analisi. È stata questa
sua capacità di tenere insieme acume antropologico e sentimento politico che lo
ha reso un importante riferimento per tutt* noi antropolog* libertar*.
Ciò traspare meglio che in qualunque altra occasione nel
suo ruolo in una diatriba accademica che sembra ormai lontana e pacificata, ma
che dovrebbe essere tutt’altro che dimenticata: quella sulla cosiddetta svolta
ontologica (ontological turn).
Nel suo ricco ed interessante carteggio/diatriba con
Eduardo Viveiros De Castro, infatti, ha dimostrato nella pratica cosa voglia
dire situarsi dentro e contro l’accademia, privilegiando un punto di vista
pragmatico e materialista sulle relazioni che si instaurano sul campo,
intessendo scambi reali e concreti, contro ogni genere di essenzializzazione
dell’altro e dei suoi regimi di senso.
L’ha fatto col garbo e il rispetto di chi è in grado di
posizionarsi e costruire legami piuttosto che romperne, ma dimostrando la
risolutezza e la precisione di una pratica etnografica radicale, che è politica
senza sforzarsi di esserlo.
Un sapere che non teme di essere militante, si dichiara
libertario e cerca riscontro nel mondo intorno a sé, indirizzato alla
costruzione di una società più equa, che non si neghi il piacere dell’incontro,
della conoscenza e della complicità nell’ineluttabilità del conflitto che è in
atto tutto attorno a noi. Dentro e fuori l’accademia.
A David Graeber devo l’insegnamento fondamentale e
concreto che università e saperi sono un campo di battaglia dove nulla è ancora
scritto. Ci mancherà perché è con persone come lui – amico, compagno,
antropologo – che la sovversione dell’esistente è possibile. Come recitava il
muro del politecnico di Atene durante le rivolte del dicembre 2008: «Ce ne peut
être que la fin du monde, en avançant».
I più poveri pagano il conto - David Graeber
La vita pubblica britannica è sempre stata piena di tabù, e
questo è vero soprattutto in economia. Nel Regno Unito, ormai, si può discutere
liberamente di sesso, ma non appena si parla di politica di bilancio ci sono
molte cose che tutti sanno, e che sono scritte perfino sui libri, ma di cui
nessuno osa parlare in pubblico. È un problema reale. Per colpa di questi tabù,
infatti, è impossibile analizzare i veri motivi del crollo del 2008, e quindi è
praticamente certo che la crisi si ripeterà.
Vorrei affrontare il più grande di questi tabù. Chiamiamolo
il “principio di Tizio-Caio”: meno il governo è indebitato, più sono indebitati
tutti gli altri. L’ho chiamato così perché si basa su un calcolo aritmetico
molto semplice. Diciamo che su un tavolo da poker ci sono 40 fiches. Tizio ne prende una metà e Caio l’altra. Se
Tizio ne prende dieci di più, Caio ne ha dieci di meno…
Non c’è bisogno di tutto questo
sadomasochismo economico – David Graeber
La giustificazione intellettuale per l'austerità è in rovina. Si
scopre che gli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Ken Rogoff, che per
primi formularono la tesi che un “rapporto debito-PIL" troppo alto porterà
sempre, necessariamente, alla contrazione economica - e che l’avevano
aggressivamente promossa durante il mandato di Rogoff come capo economista per
il Fondo Monetario Internazionale - avevano basato tutta la loro tesi su un
errore da foglio di calcolo (qui n.d.t.).
La premessa dietro i tagli risulta essere difettosa. Ormai non c'è
prova definitiva che alti livelli di debito portino necessariamente alla
recessione.
Vedremo, quindi, un'inversione di politica?! Un mare di mea culpa
da parte dei politici che hanno trascorso gli ultimi anni raccontando a
pensionati disabili che dovevano rinunciare al passaggio del loro autobus e
agli studenti poveri di rinunciare all'Università, il tutto sulla base di un
errore?! Sembra improbabile. Dopo tutto, come il sottoscritto e molti altri
hanno a lungo sostenuto, l'austerità non è mai veramente stata una politica
economica: in definitiva, era sempre una questione morale. Stiamo parlando di
una politica di delitto e castigo, di peccato ed espiazione. Vero, non è mai
stato particolarmente chiaro esattamente quale fosse il peccato originale: una
combinazione, forse, di evasione fiscale, pigrizia, frodi allo stato sociale ed
elezione di leader irresponsabili. Ma in un senso più ampio, il messaggio era
che fossimo colpevoli di aver sognato la sicurezza sociale, condizioni di
lavoro umane, le pensioni, la democrazia sociale ed economica.
La morale del debito si è dimostrata spettacolarmente una buona
politica. E sembra funzionare altrettanto bene qualsiasi forma assuma: sadismo
fiscale (gli elettori olandesi e tedeschi credono, effettivamente, che i
cittadini greci, spagnoli e irlandesi siano tutti, collettivamente, come si
diceva, "peccatori del debito", e danno sostegno con il voto ai
politici che vogliono punirli) o masochismo fiscale (i britannici della classe
media voteranno doverosamente per i candidati che gli dicono che il governo ha
fatto “baldoria”, che dovranno tirare la cinghia, che sarà difficile, ma è
qualcosa che tutti noi possiamo fare per il bene dei nostri nipoti). I politici
individuano le teorie economiche che forniscono equazioni appariscenti per
giustificare la politica, ed i loro autori, come Rogoff, vengono celebrati come
oracoli; nessuno si preoccupa di controllare se i numeri in realtà tornino.
Se fosse mai stata richiesta la prova che la teoria è stata
selezionata per adattarsi alla politica, basti considerare la reazione che
hanno i politici nei confronti degli economisti che osano suggerire l'inutilità
di questo contesto moralistico, o che ci potrebbero essere soluzioni che non
comportano estese sofferenze.
Anche prima sapevamo che lo studio di Reinhart e Rogoff era
semplicemente sbagliato, molti avevano sottolineato che la loro indagine
storica non faceva alcuna distinzione tra gli effetti del debito su paesi come
gli USA o il Giappone - che emettono la propria moneta e che quindi hanno il
loro debito denominato in tale valuta - e su paesi come l'Irlanda, la Grecia,
che non la emettono. Ma la vera soluzione per la crisi degli eurobond [la crisi
del debito n.d.t.], alcuni hanno sostenuto, si trova proprio in questa
distinzione.
Perché il Giappone non è nella stessa situazione della Spagna o
dell'Italia?! Ha uno dei più alti rapporti debito/PIL del mondo (il doppio di
quello dell’Irlanda), ed è regolarmente citato in riviste come l'Economist come
esempio prima facie di caso disperato in economia, o per lo meno, di come non
gestire una moderna economia industriale. Eppure, non hanno alcun problema
nella raccolta di fondi. Infatti il tasso sui loro titoli a 10 anni è inferiore
all'1%. Perché? Perché non c'è nessun pericolo di default. Tutti sanno che in
caso di emergenza, il governo giapponese potrebbe semplicemente stampare il
denaro. E i soldi giapponese, a loro volta, andranno sempre bene perché c'è una
costante domanda di questi da parte di chiunque debba pagare tasse giapponesi.
Questo è precisamente quello che l'Irlanda o la Spagna, o uno
qualsiasi degli altri paesi della zona euro del sud in difficoltà, non possono
fare. Dal momento che solo la Banca Centrale Europea, dominata dai tedeschi,
può stampare euro, gli investitori in obbligazioni irlandesi temono il default,
ed i tassi di interesse sono rilanciati di conseguenza. Da qui il circolo
vizioso di austerità. Così una percentuale maggiore della spesa pubblica deve
essere reindirizzata per pagare l'aumento dei tassi di interesse, i bilanci
sono tagliati, i lavoratori licenziati, l’economia si contrae, e così fa la
base imponibile, riducendo ulteriormente le entrate statali e aumentando
ulteriormente il rischio di default. Infine, i rappresentanti politici dei
creditori sono costretti ad offrire "pacchetti di salvataggio",
annunciando che, se il paese incriminato è disposto a castigare
sufficientemente i sua malati e gli anziani, e ad infrangere i sogni e le
aspirazioni di una percentuale sufficiente dei suoi giovani, prenderanno misure
per garantire che le obbligazioni non faranno default.
Warren Mosler e Philip Pilkington sono
due economisti che osano pensare al di là delle catene di un'economia di
austerità stile-Rogoff. Appartengono alla scuola della Modern Money Theory , che inizia col guardare a come funziona realmente il denaro,
piuttosto che a come dovrebbe funzionare. Su questa base, hanno posto una
potente argomentazione al fatto che se ritornassimo ad occuparci del problema
di fondo della creazione della moneta, potremmo ben scoprire che niente di
tutto questo è mai necessario, tanto per cominciare. In collaborazione con il
Levy Institute of Bard College, propongono un’ingegnosa, ma elegante soluzione
alla crisi degli eurobond. Perché non aggiungere semplicemente un po' di
linguaggio giuridico a, diciamo, i bond irlandesi, dichiarando che, in caso di
inadempienza, questi bond possano essere utilizzati per pagare le tasse
irlandesi? Gli investitori avrebbero la garanzia che i bond rimarrebbero "
soldi sicuri" anche nella peggiore delle crisi - in quanto anche se non
stessero investendo produttivamente in Irlanda, e non dovessero quindi pagare
le tasse irlandesi, gli sarebbe abbastanza facile vendere i bond, con un
piccolo sconto, a chi invece deve pagarle
Una volta compresa la nuova disposizione dai potenziali
investitori, i tassi di interesse ricadrebbero dal 4-5% ad un gestibile 1-2%, e
il ciclo di austerità sarebbe interrotto.
Perché non è stato adottato questo piano? Quando è stato proposto
nel parlamento irlandese nel maggio 2012, il ministro delle Finanze Michael Noonan ha respinto il piano per motivi del tutto arbitrari
(sostenendo che significherebbe trattare alcuni obbligazionisti in modo diverso
rispetto ad altri,ed ignorando coloro che rapidamente avevano sottolineato come
alle obbligazioni esistenti potesse essere facilmente dato lo stesso status
giuridico, o altrimenti, come potessero essere scambiate con tax-backed bond).
Nessuno è abbastanza sicuro di quale fosse la vera ragione, eccetto forse un'
istintiva paura burocratica dell'ignoto.
Non è nemmeno chiaro come si possa essere colpiti da un tale
piano. Gli investitori sarebbero felici. I cittadini vedrebbero un rapido
sollievo dai tagli. Non ci sarebbe alcuna necessità di ulteriori salvataggi.
Potrebbe non funzionare altrettanto bene in paesi come la Grecia, dove la
riscossione è, diciamo, meno affidabile, e potrebbe non eliminare del tutto la
crisi. Ma avrebbe quasi certamente importanti effetti salutari. Se i politici
si rifiutano di considerarlo - come finora hanno fatto - è difficile vedere una
qualsiasi ragione diversa dalla pura incredulità al pensiero che il grande
dramma morale dei tempi moderni potrebbe in effetti non essere altro che il
prodotto di una cattiva teoria e di una serie di dati difettosi.
(Fonte inglese (testo e foto): http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2013/apr/21/no-need-for-economic-sadomasochism
Fonte italiana: http://caffedifrontiera.blogspot.it/2013/04/non-ce-bisogno-di-tutto-questo.html?spref=fb
Traduzione di Luca Pezzotta)
L’utopia delle regole - David Graeber
La burocrazia non piace a nessuno, eppure sembra che in un
modo o nell’altro ce ne sia sempre di più. Ne vediamo gli effetti in ogni
aspetto della nostra vita. La burocrazia è diventata l’acqua in cui nuotiamo:
ci riempie le giornate con le sue scartoffie e con i suoi moduli sempre più
lunghi e complicati. Semplici bollette, multe e moduli d’iscrizione sono ormai
regolarmente accompagnati da pagine e pagine di documentazione in legalese.
Almeno fino all’ottocento, l’idea che l’economia di mercato
fosse indipendente e contrapposta al governo è stata usata per giustificare
misure economiche improntate al laissez faire, con
l’obiettivo di limitare il ruolo dello stato. Questo effetto, però, non c’è mai
stato. Tanto per cominciare, il liberismo inglese non ha portato a una
riduzione della burocrazia statale. Anzi, è stata la proliferazione di
consulenti legali, cancellieri, ispettori, notai e funzionari di polizia a
rendere possibile il sogno liberale di un mondo di liberi contratti tra
individui autonomi. E non ci sono ormai molti dubbi sul fatto che per mandare
avanti un’economia di mercato servono mille volte più scartoffie che nella
monarchia assoluta di Luigi XIV. Viviamo in un’epoca di “burocratizzazione
totale”. Non sarà che molte condanne senza appello della burocrazia sono in
realtà in malafede? E se l’esperienza di vivere e lavorare all’interno di un
sistema di norme e regole formalizzate, all’ombra di gerarchie di anonimi
funzionari, avesse un suo fascino nascosto?
C’è una scuola di pensiero secondo cui la burocrazia tende
a espandersi seguendo una logica interna, perversa ma inesorabile.
L’argomentazione è la seguente: se per risolvere un problema si crea una
struttura burocratica, questa struttura invariabilmente finirà per creare altri
problemi che, a loro volta, sembreranno risolvibili solo per via burocratica.
Nel mondo accademico questo fenomeno è descritto in termini informali come il
problema di “creare commissioni per risolvere il problema delle troppe
commissioni”.
Le prime burocrazie che conosciamo risalgono all’Egitto e
alla Mesopotamia
Una variante di questa teoria dice che una burocrazia, una
volta creata, farà in modo di rendersi indispensabile, cercando di esercitare
un potere a prescindere da quello che vuole farne. Il modo migliore per raggiungere
questo obiettivo è monopolizzare l’accesso a un certo tipo di informazioni
chiave. Come scrive Max Weber, uno dei maggiori intellettuali tedeschi vissuti
tra l’ottocento e il novecento, “ogni burocrazia si adopera per rafforzare la
superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue
intenzioni. Nella misura in cui ne è capace nasconde le sue informazioni e le
sue azioni allo scrutinio critico”.
Come osserva lo stesso Weber, un effetto collaterale è che
quando si crea una burocrazia è quasi impossibile sbarazzarsene. Le primissime
burocrazie di cui siamo a conoscenza risalgono alle civiltà della Mesopotamia e
dell’antico Egitto, e rimasero praticamente intatte per secoli resistendo al
succedersi delle dinastie o delle élite dominanti. In modo simile, ripetute
ondate di invasioni non bastarono a sradicare l’amministrazione cinese che, con
le sue strutture burocratiche, le sue relazioni e i suoi sistemi di
valutazione, rimase saldamente al suo posto a prescindere da chi, volta per
volta, rivendicava il mandato del cielo. L’unico modo per sbarazzarsi di una
burocrazia consolidata, secondo Weber, è semplicemente eliminarne tutti i
componenti, come fecero Alarico e i goti nella Roma imperiale o Genghis Khan in
alcune zone del Medio Oriente. Se un numero significativo di funzionari resta
in vita, nel giro di pochi anni finirà inevitabilmente per controllare il
regno.
Un’altra possibile spiegazione è che la burocrazia non solo
si rende indispensabile per chi governa, ma esercita la sua attrazione anche su
quelli che la amministrano. Il fascino delle procedure burocratiche sta nella
loro impersonalità. I rapporti burocratici, freddi e impersonali, sono molto
simili alle transazioni finanziarie: da un lato sono privi di anima e dall’altro
sono semplici, prevedibili e trattano tutti più o meno allo stesso modo.
E comunque, chi vuole davvero vivere in un mondo dove tutto
è anima? La burocrazia ci permette di interagire con altre persone senza
doverci impegnare in complesse ed estenuanti forme di relazione. Quando
entriamo in un negozio, tiriamo fuori il portafoglio senza preoccuparci di
quello che pensa il cassiere del nostro abbigliamento. Allo stesso modo, quando
andiamo in biblioteca, tiriamo fuori la tessera senza dover spiegare perché ci
interessano i temi omoerotici della poesia inglese del settecento. Questa
sicuramente è una parte del fascino della burocrazia. Naturalmente c’è anche la
possibilità che le motivazioni siano molto più profonde. Le relazioni
impersonali favorite dalle burocrazie non sono solo comode e convenienti. In
qualche misura, almeno, la nostra stessa idea di razionalità, giustizia e
libertà si fonda su relazioni di questo tipo. C’è stato un momento nella storia
dell’umanità in cui una nuova forma di burocrazia ha ispirato non solo passiva
acquiescenza, ma anche un sincero entusiasmo, quasi un’infatuazione. Ma cosa
l’ha fatta sembrare così esaltante?
Se Weber ha potuto descrivere la burocrazia come
l’incarnazione stessa dell’efficienza razionale è perché nella Germania dei
suoi tempi le istituzioni burocratiche funzionavano davvero. L’istituzione
simbolo, l’orgoglio dell’amministrazione tedesca, era l’ufficio postale. Alla
fine dell’ottocento il servizio postale tedesco era considerato una delle
grandi meraviglie del mondo moderno. La sua efficienza era leggendaria e gettò
una specie di ombra spaventosa su tutto il novecento. Molte delle grandi
conquiste di quello che oggi chiamiamo “tardo modernismo” sono state ispirate
dall’ufficio postale tedesco. E si potrebbe sostenere che molti dei grandi mali
del secolo scorso siano ugualmente da imputare all’ufficio postale tedesco.
Un progetto rivoluzionario
Per capire tutto questo dobbiamo risalire alle vere origini dello stato sociale
moderno, che oggi consideriamo fondamentalmente una creazione di élite
democratiche illuminate. Niente è più lontano dalla verità. In Europa molte
delle istituzioni centrali di quello che sarebbe poi diventato lo stato sociale
(dalla previdenza sociale alle pensioni, dalle biblioteche pubbliche agli
ospedali pubblici) non sono state create dai governi, ma dai sindacati, dalle
organizzazioni di quartiere, dalle cooperative, dalle associazioni e dai
partiti operai. Molte di queste organizzazioni erano consapevolmente impegnate
in un progetto rivoluzionario per creare, in modo graduale e dal basso,
istituzioni di tipo socialista.
In Germania il vero modello di questa nuova struttura
amministrativa erano, curiosamente, le poste. Questo, in realtà, ha una certa
logica se si ripercorre la storia del servizio postale. L’ufficio postale fu
sostanzialmente uno dei primi tentativi di applicare una forma di
organizzazione gerarchica e militare al bene pubblico. Storicamente i servizi
postali emergono dall’organizzazione degli eserciti e degli imperi. In origine
erano un modo per trasmettere rapporti operativi e ordini a lunga distanza.
Successivamente, per estensione, diventarono uno strumento per tenere uniti gli
imperi. Di qui la famosa citazione di Erodoto sui messaggeri imperiali
persiani, con le loro postazioni distribuite in modo uniforme in tutto il
territorio dotate di cavalli riposati che permettevano spostamenti rapidissimi:
“Né la neve né la pioggia, il caldo o il buio della notte impediscono loro di
portare a termine un compito con la massima velocità”, si legge ancora oggi
all’ingresso dell’edificio del Central post office di New York. L’impero romano
aveva un sistema simile, e più o meno tutti gli eserciti adottavano sistemi di
corrieri postali finché nel 1805 Napoleone non passò all’alfabeto semaforico.
Una delle grandi innovazioni di governance del settecento e specialmente
dell’ottocento fu l’espansione e l’adattamento del vecchio sistema dei corrieri
militari a una nuova funzione pubblica che aveva innanzitutto lo scopo di
assicurare dei servizi per i cittadini. Il primo a servirsene fu il commercio,
poi le classi mercantili cominciarono a usare la posta anche per la
corrispondenza personale o politica. Di lì a poco, in molti degli stati
emergenti in Europa e nelle Americhe metà del bilancio dello stato (e più della
metà dei dipendenti pubblici) sarebbe stato assorbito dal servizio postale.
Si potrebbe quasi sostenere che in Germania fu la posta a
creare lo stato-nazione. Durante il Sacro Romano Impero il diritto di
amministrare un sistema postale all’interno dei territori imperiali fu
attribuito, alla maniera feudale, a una famiglia aristocratica originaria di
Milano, i baroni von Thurn und Taxis (dice la leggenda che un discendente della
famiglia fu l’inventore del tassametro, da cui il taxi prenderebbe il nome).
Nel 1867 l’impero prussiano rilevò il monopolio dei Thurn und Taxis e lo usò
per gettare le basi di un nuovo servizio postale nazionale tedesco. Nei
vent’anni successivi il chiaro segnale che un nuovo staterello o principato era
stato assorbito nel nascente stato-nazione tedesco era l’incorporazione nel
sistema postale. La sfavillante efficienza del sistema diventò motivo di
orgoglio nazionale. Ed effettivamente, alla fine dell’ottocento, il servizio
postale tedesco era a dir poco impressionante, con 5-9 consegne al giorno nelle
principali città, e chilometri e chilometri di tubi pneumatici che
attraversavano il sottosuolo di Berlino per consegnare quasi all’istante
lettere e piccoli pacchi grazie a un sistema ad aria compressa. Mark Twain, che
visse brevemente a Berlino tra il 1891 e il 1892, ne restò così colpito che
scrisse uno dei suoi pochi saggi non satirici, Postal
service, per celebrare la prodigiosa efficienza del servizio.
Non fu l’unico straniero a restare impressionato. A pochi
mesi dallo scoppio della rivoluzione russa, Vladimir Ilič Lenin scriveva:
“Verso il 1870 un arguto socialdemocratico tedesco considerava la posta come un
modello di impresa socialista. Giustissimo. La posta è attualmente un’azienda
organizzata sul modello del monopolio capitalistico di stato. A poco a poco
l’imperialismo trasforma tutti i trust in
organizzazioni di questo tipo. Tutta l’economia nazionale organizzata come la
posta: i tecnici, i sorveglianti, i contabili, come tutti i funzionari dello
stato, retribuiti con uno stipendio non superiore al ‘salario da operaio’,
sotto il controllo e la direzione del proletariato armato. Ecco il nostro
obiettivo immediato”. Ebbene sì: l’organizzazione dell’Unione Sovietica fu
modellata direttamente sul servizio postale tedesco.
Questa visione di un potenziale paradiso che nasceva
dall’interno dell’ufficio postale non era confinata all’Europa. Dopo la guerra
civile, con l’affermazione del capitalismo societario, anche gli Stati Uniti si
avvicinarono al modello tedesco di capitalismo burocratico. Ancora una volta le
forme di una società nuova, più libera e razionale, sembravano emergere
all’interno delle strutture stesse dell’oppressione. Negli Stati Uniti, per
dire “nazionalizzazione” si usava il calco “postalizzazione”, poi completamente
scomparso dal linguaggio. E mentre Weber e Lenin invocavano la posta come un
modello per il futuro, negli Stati Uniti la sinistra sosteneva che perfino le
imprese private sarebbero state più efficienti se gestite come la posta, e
imponeva la “postalizzazione” di servizi importanti come la metropolitana e il
trasporto ferroviario locale e interstatale, da allora rimasti in mano
pubblica. Tutte queste fantasie sull’utopia postale suonano quantomeno datate.
Oggi il servizio postale è associato all’arrivo di cose che non vorremmo
affatto: bollette, avvisi di conto in rosso, accertamenti fiscali, offerte di
carte di credito usa e getta, appelli alla beneficenza e così via.
Nell’immaginario collettivo statunitense la figura dell’impiegato postale è
diventata sempre più triste. Ma proprio mentre si combatteva questa guerra
simbolica contro il servizio postale, è nata una nuova infatuazione, simile a
quella per la posta a cavallo del settecento e dell’ottocento. Possiamo
riassumerla in questo modo:
1. Una
nuova tecnologia di comunicazione nasce in ambito militare.
2. La
tecnologia si diffonde rapidamente, trasformando in modo radicale la vita
quotidiana.
3. Quindi
conquista una fama di sfolgorante efficienza.
4. Dato
che si basa su princìpi diversi dal libero mercato, è subito adottata dai
movimenti radicali, che la considerano un modello per un futuro sistema
economico non capitalista in grado di svilupparsi all’interno del capitalismo
stesso.
5. Allo
stesso tempo diventa uno strumento di controllo per il governo e favorisce la
proliferazione di nuove infinite forme di pubblicità e scartoffie indesiderate.
Questi cinque punti rispecchiano esattamente la storia di
internet. Cos’è l’email se non un gigantesco ufficio postale elettronico
superefficiente? Non ha forse creato a sua volta l’illusione di una nuova forma
di economia cooperativa che nasce dalle spoglie del capitalismo, per poi
inondarci di truffe, pubblicità e offerte commerciali indesiderate, dando la
possibilità allo stato di spiarci in modi sempre nuovi e più creativi? È
significativo che, pur nascendo in ambito militare, il servizio postale e
internet siano considerati entrambi strumenti che impiegano tecnologie militari
per scopi squisitamente antimilitaristi. In tutti e due i casi una forma di
comunicazione minimalista e ridotta all’osso, tipica dei sistemi militari, si
trasforma in una piattaforma invisibile per costruire tutto quello che non è:
sogni, progetti, dichiarazioni d’amore e passione, effusioni artistiche,
manifesti sovversivi e qualsiasi altra cosa. Ma questo vuol dire anche che la
burocrazia ci attrae e ci sembra più liberatoria proprio nel momento in cui
scompare: quando, cioè, diventa talmente razionale e affidabile che ci
illudiamo di poterci addormentare su un letto di numeri e di ritrovarli al
risveglio tutti al loro posto.
Lavoratori industriali
I computer hanno avuto un ruolo cruciale in tutto questo. Nel settecento e
nell’ottocento l’invenzione di nuove forme di automazione industriale ebbe
l’effetto paradossale di trasformare una percentuale sempre maggiore della
popolazione mondiale in lavoratori industriali a tempo pieno. Allo stesso modo,
tutti i software progettati negli ultimi decenni per sollevarci dalle
responsabilità amministrative ci hanno trasformato in amministrativi part time
o a tempo pieno.
Mentre i professori universitari sono costretti a passare
sempre più tempo a gestire le borse di studio, i genitori si rassegnano a
dedicare diverse settimane ogni anno a compilare moduli online di quaranta
pagine per iscrivere i figli a una scuola dignitosa. Allo stesso modo, i
commessi sanno che dovranno passare una parte sempre più consistente della loro
vita a digitare password sul telefono per accedere ai loro vari conti bancari.
Ognuno di noi sa che dovrà imparare a fare il lavoro che un tempo facevano gli
agenti di viaggio, i mediatori finanziari e i commercialisti.
Qualcuno una volta ha calcolato che lo statunitense medio
passa sei mesi della propria vita ad aspettare che scatti il semaforo. Non so
se ci sono dati simili su quanto tempo passiamo a riempire moduli, ma deve
essere almeno altrettanto. Credo di poter dire che mai nella storia del nostro
pianeta una popolazione ha passato tanto tempo a occuparsi di scartoffie.
Il guaio è che tutto questo è successo dopo la caduta
dell’orribile e antiquato socialismo burocratico e il trionfo della libertà e
del mercato. Certamente è uno dei grandi paradossi della vita contemporanea, ma
a quanto pare siamo diventati sempre più restii ad affrontare la questione.
Chiaramente questi problemi sono collegati, direi anzi che
sotto molti aspetti si tratta dello stesso problema. Non si può semplicemente
dire che l’approccio burocratico (o più specificamente manageriale) ha
soffocato tutte le forme di immaginazione tecnica e di creatività. In fondo,
come ci ricordano sempre, internet ha liberato ogni sorta di visione creativa e
spirito collaborativo. Ma ciò che la rete ha portato davvero è una curiosa
inversione di fini e mezzi, dove la creatività è al servizio
dell’amministrazione, e non il contrario. La metterei così: in questa ultima,
interminabile fase del capitalismo ci stiamo spostando dalle tecnologie
poetiche alle tecnologie burocratiche.
Quando parlo di tecnologie poetiche mi riferisco all’uso di mezzi razionali, tecnici e burocratici per dar vita a fantasie incontrollate e impossibili. In questo senso, le tecnologie poetiche sono antiche quanto la civiltà. Potremmo dire che precedono le macchine complesse. Lewis Mumford sosteneva che le prime macchine complesse erano fatte di persone. I faraoni egiziani furono in grado di costruire le piramidi solo grazie a una profonda conoscenza delle procedure amministrative, che a sua volta permise di sviluppare tecniche di produzione, di suddividere le attività complesse in decine di operazioni semplici e di assegnare ogni operaio a una squadra. Tutto questo senza conoscere tecnologie meccaniche più complesse della leva e del piano inclinato. Il controllo burocratico trasformò eserciti di braccianti in ingranaggi di una grande macchina. Molti anni dopo, quando furono inventati gli ingranaggi veri e propri, la progettazione di macchinari complessi diventò sempre, in qualche misura, un’elaborazione di princìpi che originariamente erano stati sviluppati per organizzare le persone. Eppure, ogni volta queste macchine (non importa se le loro parti sono braccia e tronchi oppure pistoni, ruote e molle) sono messe all’opera per realizzare fantasie che altrimenti sarebbero impossibili: cattedrali, viaggi sulla luna, ferrovie transcontinentali e così via. Certamente, le tecnologie poetiche hanno quasi sempre qualcosa di terribile: la poesia è in grado di evocare sia “oscuri mulini satanici” sia grazia e liberazione. Ma le tecniche razionali e burocratiche sono sempre al servizio di un grande fine.
Da questo punto di vista, i folli piani sovietici – anche
se mai realizzati – hanno segnato il livello di piena delle tecnologie
poetiche. Ora abbiamo il problema contrario. Questo non vuol dire che visione,
creatività e fantasie irrazionali non sono più incoraggiate. Il punto è che le
nostre fantasie restano sospese in aria: non facciamo più neanche finta che
possano prendere forma o solidità. Allo stesso tempo, nei pochi campi in cui la
creatività libera e originale è effettivamente favorita (come lo sviluppo dei
software open source per internet), è impiegata per creare altre piattaforme,
ancora più efficaci, per la compilazione di moduli. È questo che intendo con
tecnologie burocratiche: gli obblighi amministrativi sono diventati non il
mezzo, ma il fine dello sviluppo tecnologico. Intanto, la nazione più grande e
potente che sia mai esistita sulla Terra ha passato gli ultimi decenni a spiegare
ai suoi cittadini che non è più tempo di sognare grandi imprese, anche se, come
indica l’attuale crisi ambientale, il destino del pianeta dipende da questa
capacità.
La burocrazia incanta quando diventa una sorta di
tecnologia poetica. Per gran parte della storia questo potere è stato in mano
agli imperatori o ai comandanti degli eserciti vittoriosi, perciò potremmo
addirittura parlare di una democratizzazione del despotismo. Un tempo il
privilegio di alzare la mano e far sì che un esercito invisibile di ruote e
ingranaggi si organizzasse da solo per soddisfare i propri capricci era
riservato a pochi eletti. Nel mondo contemporaneo può essere suddiviso in
milioni di pezzi piccolissimi e messo a disposizione di chiunque sappia
scrivere una lettera o schiacciare un interruttore.
(Traduzione di Fabrizio Saulini)
David Graeber, antropologo del futuro - Enzo Rossi
Circa 1800 anni fa la città mesoamericana di Teotihuacan si
trasformò profondamente. Nel giro di non molti anni questo centro urbano
all’epoca tra i più grandi al mondo (circa 120.000 abitanti) abbandonò i
maestosi templi-piramide e i sacrifici umani, e divenne un vasto agglomerato di
comode ville in pietra, tutte più o meno delle stesse dimensioni. Una
transizione dalla gerarchia all’eguaglianza tutt’altro che effimera: le nuove
strutture – di pietra e di potere – durarono per circa quattro secoli.
E non si tratta di un caso isolato. Ben più tardi, quando i
conquistadores spagnoli avevano già iniziato a seviziare il continente
americano, città come Tlaxcala erano governate da una giunta elettiva i cui
membri venivano regolarmente e ritualmente frustati dai cittadini, giusto per
ricordargli chi comandasse veramente.
Queste vignette storiche sono tratte da un recente articolo di David
Graeber (scritto con l’archeologo inglese David Wengrow), l’antropologo, intellettuale pubblico e attivista anarchico morto a Venezia il due settembre scorso all’età di 59
anni. Chiunque conosca la narrativa convenzionale sulle origini delle civiltà
le troverà sorprendenti, perché in base a questa narrativa la storia della
nostra specie è la storia di un’evoluzione più o meno lineare, e una volta
arrivati alle città ineguaglianze radicali e rigide gerarchie dovrebbero essere
ormai inevitabili.
A grandi linee, la narrativa standard è questa: gli umani
anatomicamente moderni appaiono circa duecentomila anni fa, e fino alla fine
dell’ultima era glaciale (diecimila anni fa) vivono in piccole bande nomadi di
cacciatori e raccoglitori, senza strutture di autorità né ineguaglianze
significative. Poi arriva l’agricoltura, e con essa le prime divisioni fra
classi, le prime città, i primi stati. La complessità rende la gerarchia
inevitabile. L’idea sembra essere questa: l’eguaglianza appartiene a un passato
remoto ormai perso per sempre, a meno che non si voglia tornare a vivere in
piccole bande nomadi, e ridurre la popolazione mondiale a una piccolissima
frazione di quella attuale.
C’è chi prende proprio questa strada e propone
posizioni anarco-primitiviste. L’approccio di David Graeber
è ben diverso, e parte da un rigoroso smantellamento della narrativa standard,
a colpi di evidenza empirica. Grazie a una sintesi tanto meticolosa quanto di
largo respiro, Graeber mostra come i risultati archeologici e antropologici più
recenti possono trasformare la nostra comprensione del passato remoto, e con
essa le possibilità per il futuro.
Per Graeber (e Wengrow) non esiste questo lungo passato
idilliaco e privo di mutamenti politici e sociali – una sorta di infanzia dell’umanità.
Non esiste l’egalitarismo primordiale, e non esistono le fasi rigide
dell’evoluzione sociale – bande, tribù, chiefdoms, stati, in un
ordine progressivo che associa crescente complessità a crescente gerarchia. Da
un lato, gerarchie e ineguaglianze profonde esistono già nelle società meno
complesse, da quelle di genere a varie forme di asservimento e perfino schiavitù. Dall’altro,
non c’è una progressione lineare verso l’ineguaglianza e la gerarchia. Ad
esempio, molte società di cacciatori e raccoglitori mutavano drasticamente le
loro forme di organizzazione sociale in base alle stagioni: i Lakota e Cheyenne
dei Great Plains nordamericani avevano un’organizzazione gerarchica con tanto
di forza di polizia, ma soltanto per il periodo dell’anno legato alla caccia
del bisonte, mentre per il resto dell’anno prevalevano strutture molto più
egalitarie. Allo stesso modo, ma in maniera rovesciata, gli Inuit avevano un
sistema patriarcale gerarchico per buona parte dell’anno, ma durante la
stagione della caccia a foche e leoni marini creavano nuove strutture sociali e
fisiche – grandi case comuni dove prevalevano valori mutualistici ed
egalitari.
Ciò che conta qui è che le società usavano sperimentare
continuamente con nuove forme sociali, senza dare per scontato che un certo
ordine fosse necessario a mantenere la loro forma di vita. Quindi, come osservano Graeber
e Wengrow, «la vera domanda non è ‘quali sono le origini dell’ineguaglianza
sociale?’, ma, dato che abbiamo vissuto per gran parte della nostra storia
facendo avanti e indietro tra sistemi politici diversi, ‘come mai ora siamo
così bloccati?’».
In questo modo, e non con fantasie politiche che cercano di
emulare l’egalitarismo «primitivo», Graeber utilizza l’evidenza antropologica e
archeologica per mettere in discussione il fatalismo in stile «There is no
alternative». E il suo contributo va ben oltre l’indicare le possibilità di
cambiamento. Nel libro Debt: The First
5,000 Years, uscito nel 2011 e già un classico moderno,
Graeber mostra come tre forme di relazioni sociali alternative – gerarchia,
comunismo, e mercato – addirittura coesistano in tutte le società conosciute,
seppure in proporzioni relative ed equilibri molto variabili. Le relazioni
gerarchiche sono quelle imperniate su valori quali l’onore e l’anzianità. Il
«comunismo quotidiano», come lo chiama Graeber, è un tipo di relazione sociale
basata sulla sola soddisfazione reciproca dei bisogni, e si trova ovunque, dai
rapporti personali finanche ad alcuni aspetti del lavoro cooperativo
all’interno di organizzazioni capitaliste. Infine abbiamo le relazioni di
mercato, che forse non hanno bisogno di presentazioni al giorno d’oggi. Eppure
il punto di Graeber è proprio questo: gli scambi di mercato sono un universale
culturale, ma la loro preponderanza sugli altri tipi di relazione sociale è uno
sviluppo recente (e quindi reversibile), legato al successo del capitalismo.
L’altra faccia di questa medaglia è che, come il
capitalismo ha avuto successo nello sbilanciare le relazioni sociali a favore
degli scambi di mercato, allo stesso modo si possono creare opportunità per
movimenti sociali alternativi. Quindi, ad esempio, l’ethos antiautoritario e
anticapitalista dei campi di Occupy – un movimento nel quale Graeber ha giocato
un ruolo di primo piano, fino a coniarne lo slogan «we are the 99%» – non è
soltanto una breccia temporanea nell’egemonia capitalista, ma anche l’espressione
del comunismo quotidiano, ossia di un universale culturale. Sta ai movimenti
sociali aprire queste brecce, e cercare di trasformarle in qualcosa di più
ampio e duraturo. È proprio questo che hanno fatto i mercanti e i colonialisti
del sedicesimo secolo, così come i proprietari terrieri e i primi industriali
nei tre secoli successivi: il lento successo del capitalismo – ciò che Gramsci
avrebbe chiamato una rivoluzione passiva – è, in un certo senso, il successo di
un movimento sociale.
Forse il contributo più dirompente e duraturo del lavoro
intellettuale di Graeber è proprio questo: una originale sintesi tra un
approccio storico di lunga durata (Debt e The Dawn of
Everything, un volume appena completato con David Wengrow e non ancora
pubblicato) e lo studio etnografico dei movimenti sociali, dalle controculture
antiautoritarie dei discendenti di schiavi in Madagascar (Lost People,
2007) al movimento per la giustizia globale (Direct Action, 2008),
fino ad Occupy stesso (The Democracy
Project, 2013). Questa sintesi
mostra come ciò che chiamiamo culture o cultura sia il prodotto di antichi
movimenti sociali di grande successo – un successo a volte così completo
da diventare quasi invisibile, come appunto nel caso del capitalismo. Ma uno
scavo genealogico e archeologico – metaforico e reale – può rivelare come ciò
che un tempo sembrava bizzarro, blasfemo o utopico possa trasformarsi nel nuovo
normale. Questa conoscenza storica e antropologica, in altre parole, ci ricorda
ciò che aveva già osservato Marx: «tutto ciò che è solido si scioglie
nell’aria», proprio come le grandi case comuni stagionali degli Inuit.
Negli ultimi anni Graeber dirige questa attitudine critica
verso i mondi del lavoro e della burocrazia. I libri The Utopia of
Rules (2015) e Bullshit Jobs (2018) dipingono un
quadro caustico: la necessità del lavoro e la rigidità delle regole
burocratiche che lo accompagnano sono tentativi piuttosto disperati di
puntellare un capitalismo all’ultima spiaggia: «è come se qualcuno là fuori si fosse inventato lavori senza
senso solo per fare in modo che tutti continuino a lavorare», si legge su un poster con una citazione da quest’ultimo
libro irreverentemente affisso nella metropolitana di Londra, l’ultima città in
cui Graeber ha vissuto, e dove aveva una cattedra di antropologia alla London
School of Economics and Political Science.
Eppure Graeber ci ricorda anche che il collasso imminente
del capitalismo, o almeno del capitalismo che conosciamo, non è necessariamente
uno sviluppo da accogliere a braccia aperte: «Tra cinquant’anni avremo
senz’altro un sistema che non sarà capitalista», dice in un’intervista del
2018, e «potrebbe trattarsi di qualcosa di ancora peggiore. Quindi è imperativo
rompere il tabù che circonda ogni tentativo di creare qualcosa di
migliore».
Sarà più difficile seguire questa esortazione senza la
guida di David Graeber. Al mondo non mancano gli intellettuali attivisti e gli
attivisti intellettuali, accademici o meno. Graeber era molto di più di
entrambe queste permutazioni. Non era soltanto un professore che scrive di
attivismo, né un attivista con una cattedra universitaria. Era una figura ben
più rara: uno studioso che è riuscito a mettere lo studio rigoroso di questioni
tra le più difficili e fondamentali del suo campo al servizio di un impegno
sincero e reale per le cause della sinistra antiautoritaria, senza cadere nei
dissidi settari che affliggono questa parte politica. David non è più con noi,
ma noi abbiamo ancora molto da imparare da lui.
DAVID GRAEBER E LE POSSIBILITÀ UMANE - Veronica
Barassi
“Le
possibilità umane sono sempre – in ogni modo – più grandi di quello che molto
spesso crediamo.” (Graeber, Possibilities: Essays on Hierarchy,
Rebellion and Desire, p. 1).
È
una frase che mi segue da sempre. Ho finito con quella frase il mio primo
libro, e anche la mia tesi PhD. La sera della mia festa di dottorato, David era
lì. Lavoravo come sua assistente da un anno, ed era diventato il mio supervisor
proprio verso la fine del dottorato. Quell’anno io ho finito la mia tesi, e lui
ha scritto Debt: I primi 5000 anni. È stato un vero regalo che
venisse quella sera, lui con i suoi maglioni bucati dalle tarme di Londra e i
suoi lunghi monologhi che non finivano mai; come non finiva la nostra voglia di
stare ad ascoltarlo. Non ho mai conosciuto una mente come la sua, e fin da
subito mi sono resa conto di come stare ad ascoltarlo – tra un pub, una birra,
e una lezione di antropologia – fosse un privilegio immenso, un’esperienza unica
nella vita. Avevo ragione.
David
è morto a Venezia ai primi di settembre e io non mi sono affatto stupita di
vedere i giornali internazionali parlare di lui come di uno dei più grandi
intellettuali dei nostri tempi, colui che aveva ispirato la famosa frase “We
are the 99%” per Occupy Wall Street. A leggere quegli articoli, pensavo che
fosse un paradosso. David ha sempre cercato di spiegare che “We are the 99%”
era il prodotto di un lavoro collettivo, ma nella nostra società individualista
e consumista non crediamo nel potere della collettività e finiamo sempre per
cercare idoli da seguire, come testimoniano quegli articoli di giornale sulla
morte “dell’antropologo anarchico”. Leggerli è stata la conferma di quello che
ho imparato da David: culturalmente siamo stati talmente influenzati dal
pensiero individualista e liberale che non riusciamo nemmeno ad immaginare una
società diversa.
Questa
è la grande differenza tra David ed il resto del mondo, almeno ai miei occhi.
David era eccentrico, geniale, era un grandissimo antropologo. Per me, aveva
una cosa che lo differenziava da tutte le persone che ho incontrato nella mia
vita: aveva una fede immensa nelle possibilità umane. David era davvero
convinto che potessimo costruire una società diversa. Non gli piaceva essere
definito un antropologo anarchico, ma vedeva l’anarchia come una scelta etica,
come un modo di vivere. Lui credeva davvero che si potesse costruire una
società più giusta. Se mai avesse avuto un dubbio, non l’ha mai lasciato
vedere, almeno non a me. Era proprio quell’assenza di dubbio che mi stupiva
ogni volta.
David
non aveva avuto una vita facile. Era cresciuto a New York da una famiglia ebrea
di intellettuali di sinistra della working class. L’ingiustizia sociale del
sistema americano l’aveva respirata fin da bambino. Questo gli aveva insegnato
che i discorsi liberali statunitensi di uguaglianza e democrazia erano in fondo
solo quello, discorsi. Avevano poco a vedere con l’uguaglianza e la democrazia
come le vedeva lui. Nonostante questo, David credeva profondamente nelle
possibilità umane. Credeva anche che la nostra poca fede nella collettività,
nell’autogestione, nel rispetto reciproco – mancanza di fede spesso tradotta in
un bisogno di regole, di autorità, di sistemi repressivi – fosse il frutto di
una costruzione culturale e politica. Pensava che ci fossimo fatti influenzare
da Hobbes, da Adam Smith e da una bizzarra ossessione per gli antichi greci.
Era convinto che culturalmente ci fossimo trovati a credere in una visione
dell’umanità e degli istinti umani profondamente sbagliata.
Questa
interpretazione della storia la deve al suo mentore Marshall Sahlins. Nel suo
libro The Western Illusion of Human Nature (2008), Shalins
spiega come la civiltà occidentale sia stata ossessionata dallo spettro di una
natura umana egoista, avida e litigiosa che deve essere tenuta a bada da regole
e autorità. Shalins spiega anche come questa idea di umanità avida e
guerrafondaia sia stata rafforzata da coloro che avevano in mano il potere
sociale. Fa anche vedere che questa “illusione” sulla natura umana non ha
niente a che vedere con gli istinti umani. Insieme a David, Shalins ha scritto
un altro libro, On Kings (2017), dove analizzano il ruolo
storico e antropologico dei Re. Insieme dimostrano come lo studio dei Re ci
offre una prospettiva unica non solo sulla natura del potere, ma su come
interpretiamo la natura e la condizione umana. Viviamo con l’idea che gli
istinti primitivi umani siano l’avarizia e l’egoismo, e ci dimentichiamo di
quanto siamo continuamente esposti a forme di altruismo, empatia, e solidarietà
collettiva.
Il
libro di Shalins ce l’ho sul mio tavolo in ufficio. David me l’aveva prestato e
io mi sono sempre dimenticata di ridarglielo. Proprio alla fine di agosto l’ho
ritrovato dopo anni di traslochi e mi ero riproposta di spedirglielo. Non
eravamo più in contatto da molto tempo, ma ho pensato che fosse importante
mandarglielo. Pochi giorni dopo ho ricevuto la notizia della sua morte e ho
letto molti articoli di tributo a David, pieni di elogi soprattutto per il suo
lavoro su Debt (2011) o Bullshit Jobs (2018).
Apprezzo molto il suo lavoro di antropologia economica, la sua capacità di far
apparire Adam Smith, Keynes e i fondatori del capitalismo moderno come semplici
uomini, influenzati – come tutti noi – da preconcetti culturali ed ideologici.
Capisco il successo di Debt o di Bullshit Jobs,
David è davvero uno dei più grandi antropologi economici dei nostri tempi.
Questo è chiaro dal suo primo libro, Toward an
Anthropological Theory of Value (2001), una rivoluzione per
l’antropologia economica, e dal fatto che gli sia stato offerta la Malinowski
Memorial Lecture nel 2006, organizzata dalla London School of Economics,
un’occasione offerta solo ai grandissimi del pensiero antropologico.
Pur
riconoscendo la grandezza intellettuale di David in questa materia, le teorie
che veramente hanno cambiato la mia prospettiva sulle cose e di cui sentirò
maggiormente la mancanza sono le sue teorie sull’immaginazione, la narrativa e
sulla violenza burocratica. Ho lavorato come assistente di David per più di due
anni, tra il 2009 e il 2011. Insegnavamo un corso che si chiamava
“Antropologia, Rappresentazione e Media Contemporanei”. Il corso doveva
analizzare i media, la comunicazione, il simbolismo – ’area del mio dottorato e
specializzazione – ma fin da subito mi sono resa conto che il corso era ben
diverso da quello che io mi ero immaginata. Era diventato una meravigliosa
piattaforma dove David poteva esplorare i suoi interessi, dalle teorie del
valore umano all’importanza e peso politico delle storie.
Nella
tristezza della sua morte, nell’assenza di altri modi per elaborare il mio
lutto, sento il bisogno di descrivere quello che più mi ha colpito delle sue
lezioni e pensiero, anche se so che questa è solo una versione ridotta e
semplificata di quello che mi ha insegnato David. David leggeva Marx in maniera
molto diversa da altri. Per lui Marx era stato accusato ingiustamente di
‘materialismo storico’ quando, in realtà, le sue teorie parlavano spesso di
immaginazione, creatività e concetti spirituali (per esempio il feticismo). Nel
suo libro Possibilities: Essays on Hierarchy, Rebellion and Desire (2007),
David parla di come Marx credesse che la creatività e le facoltà critiche umane
originassero dalla stessa fonte: l’immaginazione. L’immaginazione è per Marx
ciò che differenzia l’uomo dall’animale: l’architetto – a differenza di un’ape
– è capace di erigere nell’immaginazione il suo edificio (p. 114-115). Leggendo
Marx, David aveva capito che è nell’immaginazione che risiede lo spirito
rivoluzionario, la possibilità di concepire una società diversa. Si era anche
reso conto, però, di come l’atteggiamento di Marx verso l’immaginazione fosse
in fondo un po’ ambiguo. Se da una parte, per Marx, le facoltà critiche hanno
origine nell’immaginazione, dall’altra i rivoluzionari non possono cercare di
fare il lavoro degli architetti, non possono cercare di creare un’immagine
specifica di una società diversa – sarebbe utopico.
David
non è certo stato il primo a notare la connessione tra Marx e l’immaginazione.
Castoriadis, noto teorico Marxista, ha scritto per esempio un intero libro
sull’importanza dell’immaginazione. Ma quello che distingue David da
Castoriadis, e da altri, è l’idea secondo cui è proprio nel processo
antropologico dell’immaginazione che si nasconde la chiave delle disuguaglianze
sociali.
In Possibilities,
ma anche in Revolution in Reverse: Essays on Politics, Violence, Art
and Imagination (2011), David racconta di come le
persone che sono in posizione di disuguaglianza sociale si trovino a fare un
complesso lavoro d’immaginazione. Questo è chiaro, secondo David, se
pensiamo alle donne. Quante mogli, amanti, collaboratrici domestiche si sono
così spesso trovate ad ‘immaginare’ i bisogni dell’uomo di casa. Io non sono
cresciuta con un padre, ma ricordo bene quanto lavoro d’immaginazione
richiedesse a mia nonna e mia madre (e per riflesso a me e a mia sorella) fare
felice mio nonno. È proprio questo lavoro, secondo David, che distingue le
donne dagli uomini e in generale tutte le classi, le etnie e i gruppi sociali
che loro malgrado si trovano in una posizione di subordinazione da quelli che
invece si trovano in una situazione di potere.
Mia
nonna passava le sue giornate ad immaginare cosa desiderasse mio nonno, dalle
cotolette cucinate in un determinato modo alla camicia stirata. Dubito
fortemente (e ancora spero di essere contraddetta) che mio nonno facesse lo
stesso lavoro di immaginazione. David ne era consapevole. In Revolution
in Reverse, per esempio, racconta di come:
“generazioni
di scrittrici – mi viene subito in mente Virginia Woolf – hanno documentato…il
lavoro costante che le donne svolgono nel gestire, mantenere e adattarsi
all’ego di uomini apparentemente ignari di cosa comporta un lavoro infinito di
identificazione immaginativa – e questo l’ho chiamato lavoro interpretativo.
Questo si ripercuote ad ogni livello. Le donne immaginano sempre come sono le
cose dal punto di vista di un maschio. Gli uomini non fanno quasi mai lo stesso
con le donne.” (p. 50).
Nella
mia vita mi sono trovata a fare il lavoro interpretativo per molti: per mio
nonno, per i mei capi (e anche per David), e per tutte le persone di potere che
ho incontrato. Mi sono anche trovata in situazioni dove altri facevano il
lavoro interpretativo per me: le mie bambine, le mie assistenti e tutte le
persone che hanno lavorato per me. Ma in queste situazioni le teorie di David
mi hanno sempre aiutata e hanno sempre contribuito a definire le mie scelte
etiche. Magari sono un’illusa, ma grazie a David ho sempre pensato che fosse un
lavoro importante provare ad immaginare il mondo attraverso gli occhi delle mie
bambine, le mie assistenti e le persone che svolgono lavori per me. Non credo
di avere trovato la ricetta etica per eccellenza, ma sicuramente, grazie a
David, riesco a vivere un po’ meglio con me stessa.
David
ha avuto un’influenza enorme sulla mia vita. Quando ero la sua assistente,
stavo lavorando al mio dottorato in Antropologia dei Media e una mattina mi
sono trovata ad assistere ad un corso di David sulla narrativa. Quella mattina
sono entrata nella classe con un bagaglio accademico su come leggere le storie
e le narrative imparato duranti i corsi di Scienze della Comunicazione, un
bagaglio concettuale che spaziava da Propp a Stuart Hall. Eppure, quella
mattina, David mi ha aperto un mondo completamente nuovo. Non ha dovuto fare
uno sforzo enorme, ma mi ha fatto capire che tutte le storie che raccontiamo, i
film, i programmi televisivi, gli articoli di giornali e le milioni di storie
che compongono la nostra vita quotidiana vengono spesso rappresentate e messe
in atto in quello che viviamo.
Per
esempio, i miei studi di Scienze della Comunicazione mi hanno convinto che se
leggiamo il significato nascosto di molte pubblicità o film o algoritmi,
finiamo per trovare un’impronta spesso sessista e razzista del mondo. Ma quella
mattina David mi ha fatto vedere che queste interpretazioni della realtà non le
troviamo solo nei film, pubblicità e algoritmi, ma nella maniera stessa in cui
viviamo. Quella mattina mi sono accorta che le storie che raccontiamo sono
anche le storie che accettiamo di vivere, e nell’accettare di vivere queste
storie finiamo per perpetuare le disuguaglianze della nostra società.
Lo
ricordo ancora. Era un inverno tipicamente londinese; l’aula piena con quelle facce
convinte degli studenti di Goldsmiths, David aveva un’aria addormentata, ma
allo stesso tempo vivace e allegra. Mentre parlava delle storie che costruiamo
e viviamo ogni giorno, si è concentrato su esempi molto specifici. Ha parlato
del raccolto agricolo, del lavoro fatto dai contadini, i mezzadri o servi della
gleba; coloro che spendevano giorni, settimane, mesi a lavorare nei campi. Poi
ha parlato dei loro padroni, coloro che arrivavano ad una determinata data
dell’anno a celebrare il raccolto, con i loro rituali, con le loro cerimonie;
si prendevano l’onore del lavoro eseguito e cancellavano l’onore degli altri.
Quella mattina David ha fatto anche l’esempio delle donne, ha parlato delle
donne durante il Thanksgiving. Ha parlato di come le donne passassero
giorni a preparare il tacchino e il pranzo, e di come ‘l’atto d’onore’ di
tagliare il tacchino spettasse all’uomo di casa. Questi ‘atti d’onore’ hanno
scandito la nostra storia. Non ricordiamo gli schiavi che hanno costruito i
monumenti, le donne che hanno cucito i tessuti: ricordiamo solo gli uomini che
si sono impossessati dei momenti di gloria. Mio nonno amava questi ‘atti
d’onore’, io li ricordo bene, e quella mattina David è riuscito a toccarmi a
fondo. È riuscito a toccare i miei ricordi di bambina e farmi sentire parte
della storia.
Vorrei
continuare a scrivere di tutte le cose che ho imparato da David, di come la sua
cieca fiducia che la burocrazia fosse una forma di violenza e di nichilismo
umano continui ad influenzare il mio lavoro. Uso molte delle sue teorie per
definire il mio nuovo progetto di ricerca sull’intelligenza artificiale e
l’errore umano. Ogni giorno mi chiedo come David vedrebbe le cose a cui sono
interessata ed il suo esempio mi fa confrontare con scomode domande politiche ed
etiche.
Lo sguardo sul mondo di David Graeber - Simone Cerulli
La morte di David Graeber è arrivata improvvisa, seppur
non del tutto inaspettata. Solo poco tempo prima aveva scritto di avere avuto
qualche problema di salute ma di stare oramai meglio, rassicurando chi lo
seguiva di aver terminato la stesura del suo ultimo libro. Inizialmente la
notizia ha circolato lentamente e in forma privata, antropologi che scrivevano
ad altri antropologi increduli quanto loro a chiedere conferma, sperando forse
di essere smentiti. Poco o nulla ancora si trovava in rete a riguardo.
Nei giorni successivi, però, un fiorire di articoli sulle
principali testate europee e d’oltreoceano a commemorare la scomparsa
dell’antropologo attivista, tra i promotori del movimento Occupy Wall Street e
coniatore del motto “We are the 99%”, l’autore del Debito e
di Bullshit Jobs, l’anarchico bandito dalle università americane
approdato infine alla London School of Economics.
Difficile davvero immaginare un’attenzione simile nei
confronti di un qualsivoglia altro antropologo contemporaneo al di fuori
dell’accademia. Questo perché è difficile immaginare un altro antropologo tanto
noto al grande pubblico e altrettanto presente nel dibattito politico,
soprattutto al di fuori del mondo anglo-americano, dove l’antropologia non gode
di grande attenzione mediatica.
Ma Graeber, al di là della cassa di risonanza data dal
movimento del 2011, è stato di sicuro uno di quelli che maggiormente ha saputo
rompere la barriera tra dimensione professionale e vita pubblica, mostrando ai
più la potenziale utilità pratica e applicativa della sua disciplina.
Questo perché pochi come lui hanno saputo parlare un
linguaggio che fosse semplice e divulgativo, che rendesse fruibili analisi
sofisticate senza mai ridurre l’estrema complessità che il suo metodo rigoroso,
fatto di lunghe ricostruzioni etnografiche e lavoro d’archivio, portava
necessariamente con sé.
Convinto che l’attenzione al dettaglio, apparentemente
piccolo e localizzato, potesse essere rilevante sul piano generale e
universale, con una spiccata sensibilità, semplicità e acume, Graeber è stato
pioniere di quel tipo di antropologia che non vuole limitarsi a studiare
contesti lontani nel tempo e nello spazio e produrre riflessioni chiuse in loro
stesse, tutt’al più generando qualche lontana astrazione teorica di carattere
macrostrutturale.
Nel suo scambio con Viveiros De Castro, ragionando sulla
questione della Svolta Ontologica, Graeber si era battuto non tanto a favore
della valenza o meno di un duro reale che è immutabile al di là delle svariate
interazioni che si hanno col mondo, quanto dell’esistenza di un terreno comune
su cui poggiare i principi di un’umanità condivisa. Postulare l’esistenza di
ontologie separate, l’aggregarsi di reti di segni e significati localizzati e
storicizzati che generano sfere di incomunicabilità, quasi tanti mondi quante
prospettive, equivale a invalidare proprio ciò in cui Graeber credeva
fortemente: che il potere della disciplina risiedesse nel considerare l’uomo
come svincolato, oltre che da vincoli biologici, da un qualsiasi tipo di
determinismo storico o materiale, che la sua caratteristica fondamentale fosse
quella della possibilità, ovvero delle infinite forme che poteva assumere,
delle innumerevoli strategie che diversi gruppi umani potevano adottare di
fronte a una stessa problematica.
E ancora in Frammenti di antropologia anarchica,
di fronte a chi sollevava la questione dell’applicabilità del modello anarchico
su larga scala, Graeber sosteneva che fosse un paradosso cercare di incastrare
una struttura dentro un’altra, applicando quel modello al nostro senza essere
inclini a cambiarlo radicalmente. Anarchia diviene dunque in primo luogo
anarchismo nel momento in cui rappresenta principalmente una postura, un’etica,
una lente con cui guardare alla società e alle società col fine di pensare a
quali possano essere gli strumenti più adatti per costruirne una diversa, più
giusta e inclusiva.
Comprendere che cambiare è possibile, se solo si è
disposti a rifiutare l’idea che le cose siano andate nel modo in cui era
inevitabile che andassero, ha il potere di metterci di fronte al fatto che il
mondo in cui viviamo non è l’unico possibile, senza tirare in ballo utopie né
lasciarsi ingabbiare da principi dogmatici e cristallizzati su materialismo e
rapporti di potere, come molti di quelli che condividevano la sua
insoddisfazione per il modello di cui ci siamo dotati tendono a fare.
L’antropologia è in tal senso proprio quello strumento
che, più di altri, aiuta a sviluppare un nuovo modello di sintesi che possa
rivelarsi funzionale.
Così nel Debito, oltre a smontare i
consumati fondamenti dell’economia classica sul mito del baratto e sulle
origini del denaro, Graeber ha dimostrato quanto quella che noi concepiamo come
una logica ineluttabile e stringente, una banale normalità come restituire un
debito, non sia altro che un concetto morale fondato sull’idea che le relazioni
umane siano basate su null’altro che la razionalità economica, su calcolo e
scambio come fondamento dell’agire sociale. Che le modalità di scambio
determinino dunque le modalità di interazione e di struttura.
I numerosissimi esempi etnografici e di archeologia
storica presenti nel libro servono allora a dimostrare che è vero il contrario
e che tale morale è istituita con la forza da chi, in un tipo di società
centralizzata e burocratizzata, aveva il potere sufficiente per imporre una
simile ideologia morale. E che già in Mesopotamia, cinquemila anni fa,
dichiarare bancarotta e cancellare i debiti fosse un tipico meccanismo portato
avanti dai sovrani per evitare un collasso sociale.
Volontà di invertire i paradigmi che è ancora il fulcro
del suo ultimo lavoro, scritto a quattro mani col suo maestro Marshall
Sahlins, Il Potere dei Re. Le società originarie, con economie di
sussistenza e contenute nel numero, sono società acefale e orizzontali. Il
potere di imporre regole era prerogativa di entità immateriali, quelli che noi
definiremmo spiriti, o meglio divinità.
La cosmologia, quella che impropriamente chiameremmo religione,
è dunque all’origine del potere di un uomo su molti ed è l’ordine gerarchico
terreno a ricalcare il modello di quello celeste. Tirare in ballo il carattere
simbolico del potere, come già aveva fatto descrivendo l’essenza dei bullshit
jobs, ma soprattutto la sua natura cosmologica, può creare forse qualche
prurito a quell’approccio teorico tutto intento a scrostare quella che avverte
come una patina che nasconde la vera natura dei rapporti di forza, fatti di
determinazione della base economica e intrisi di materialismo. Eppure, capire
in che modo si erano resi invisi al loro popolo i sovrani del Madagascar in una
certa fase storica, quali strumenti questo abbia impiegato per contrastare il
loro potere assoluto, non toglie nulla alla lotta contro il potere autoritario,
ma contribuisce a comprendere la totalità delle dinamiche in campo, anche se
tira in ballo argomenti come spiritismo, possessioni e antenati che tornano in
vita.
David Graeber è stato davvero uno degli intellettuali più
influenti del suo tempo, in grado di portare avanti un concetto tutt’altro che
scontato: che un intenso lavoro di archivio e di studio comparato e uno sforzo
divulgativo e di applicazione sul reale contemporaneo siano l’arma principale
per uscire dall’inattività e far sì che l’ottimismo non sia solo della prassi,
ma anche e soprattutto della ragione.
E che, se finora abbiamo pensato nel modo in cui abbiamo
pensato, è solo perché non abbiamo guardato un po’ più in là, perché quel che
riuscivamo a vedere era l’acqua in cui eravamo immersi.
Non resta che attendere l’uscita dell’annunciato The Dawn of
Everything per capire cos’altro potremo riconsiderare e leggere sotto
una nuova luce. Nel frattempo, il suo sguardo sul mondo mancherà a molti di
noi.
David Graeber, in memoria di un ebreo-non-ebreo - Benjamin Balthaser
La morte di David Graeber mi ha distrutto inaspettatamente
mentre mi preparavo per una riunione online all’inizio di questa settimana. Ero
in ritardo e non riuscivo a concentrarmi. Non conoscevo Graeber di persona, ma
qualcosa sulla sua morte, prematura, arrivata troppo presto, abbattutasi su di
lui prima che avesse concluso il suo lavoro, mi ha colpito duramente e mi ci è
voluto un po’ per capire perché per me era diventato una figura così
importante.
Come molti autori e docenti di sinistra, sono da tempo
consapevole del suo lavoro e del suo ruolo in Occupy Wall Street. Avevo
intenzione di scrivere da tempo una difesa del suo libro più recente, Bullshit Jobs, bollato come «produttivista» da alcuni e considerato come privo
di rigore economico da altri. Dal momento che «graeberismo» era diventato un
epiteto tra alcuni marxisti con i quali di solito sono d’accordo, ho capito che
i dibattiti con Graeber su altre questioni avevano impedito di prendere sul
serio la premessa del libro: il capitalismo finanziarizzato (o «tardo») ha cambiato il
significato del lavoro nel mondo ricco, e il lavoro di merda è uno dei suoi
indicatori.
Poiché il primo mondo è inondato di surplus di capitale che
la borghesia non vuole spendere per il benessere e lo sviluppo, un «lavoro di
merda» – che non serve letteralmente a nulla – serve a comprare una quota delle
masse salariate: una specie di keynesismo di destra dei colletti bianchi. Penso
che i socialisti farebbero bene a cimentarsi con argomentazioni di questo tipo,
con conseguenze di vasta portata sia per l’organizzazione che per la
formazione.
Ma non sono le sue opere lunghe e strutturate di
antropologia che mi hanno colpito di più. Piuttosto, lo ha fatto un breve testo che
scrisse sull’antisemitismo al culmine della campagna del Partito laburista per
diffamare il proprio leader Jeremy Corbyn come antisemita.
Piuttosto che confutare semplicemente le assurde affermazioni, come la maggior
parte dei sostenitori di Corbyn aveva fino a questo punto, Graeber ha
sottolineato che tali false affermazioni sono esse stesse una forma di
antisemitismo. Tali affermazioni non solo riducono «la mia sicurezza a un pezzo
degli scacchi della politica» e «gridano al lupo al lupo mentre ci sono i veri
lupi alla porta», oscurando la questione dell’antisemitismo durante un’ondata
di violenza di estrema destra. Attivano anche idee antisemite di vecchia data
secondo cui gli ebrei sono élite oscure, nemiche della democrazia.
Questo punto richiede un’ulteriore elaborazione. Se si
ritiene che la comunità ebraica risponda a un’impennata elettorale populista di
sinistra con false affermazioni secondo le quali un movimento è «contro gli
ebrei», allora si potrebbe ragionevolmente considerare che gli ebrei sono
contrari non solo alla ridistribuzione della ricchezza ma alla democrazia
stessa. Dato che gli ebrei sono già percepiti dagli antisemiti ideologici e dai
loro cugini più occasionali come avidi e ricchi, non ci vuole molto per capire
che un’affermazione del genere si fonda sull’associazione tra ebrei e potere.
Lo stesso modello è emerso negli Stati uniti, quando
deputati di sinistra immensamente popolari, come i rappresentanti Rashida
Tlaib, Ilhan Omar e Alexandria Ocasio-Cortez, sono stati accusati di
antisemitismo. Se gli ebrei sono spesso inquadrati come un’élite tribale
segreta che vuole prendere il potere da una classe operaia multietnica, c’è un
modo migliore per diffondere questa forma di razzismo che usare gli ebrei per
danneggiare candidati democratici e popolari? Condotto da politici non ebrei,
porta alla stessa conclusione: gli ebrei difendono i ricchi e i potenti.
Ma ciò che mi ha commosso dell’articolo di Graeber più
della sua analisi penetrante è stato il fatto che intendesse discutere la
questione dell’antisemitismo. Leggendo l’opera di Graeber e parlando con
persone che lo conoscevano, mi ha colpito che non si sentisse di discutere le
minacce di antisemitismo, per non parlare del suo essere ebreo, come parte
della sua personalità politica. Non ha scritto di questioni ebraiche. Non ha
parlato dell’ebraismo nelle interviste che ho letto e quando l’ho sentito
parlare della sua famiglia, li ha descritti principalmente come di sinistra e
socialisti. Non era «pubblicamente ebreo» nel suo ruolo di intellettuale
popolare, almeno non nel modo in cui sono o erano personaggi come Norman Finkelstein,
Arthur Waskow o Adrienne Rich. Potrebbe sembrare una strana distinzione da
fare, non è che Graeber avesse nascosto la sua identità ebraica. Ma è una
decisione che molti ebrei devono affrontare, su come presentarsi e su quanto
vogliono rendere pubblico il tema della loro identità.
Molti ebrei non parlano molto del loro ebraismo, specialmente gli ebrei della
classe media. Per molto tempo non l’ho fatto neanche io. In parte, come bianco
di sinistra, uno teme di occupare spazio, offuscando solidarietà già solide,
erodendo la forza politica della linea del colore sempre oscurata dal fatto che
la maggioranza degli ebrei (anche se certamente non tutti) cadono sul lato
bianco.
Inoltre, se devo essere onesto, evitare dichiarazioni
pubbliche sulla propria identità etno-culturale impedisce molte conversazioni e
supposizioni imbarazzanti, per non parlare dell’antisemitismo vero. Non
nascondo i miei antenati ebraici. Appartengo a uno shul e ho scritto di essere
ebreo. Ma non dico ai miei studenti che sono ebreo, non mi organizzo
apertamente nella maggior parte degli spazi di sinistra come ebreo e non
rivendico le festività ebraiche come regola generale quando il nostro
calendario molto cristiano non le riconosce. Insegnare e organizzare sono già
abbastanza difficili e la mia disponibilità ad affrontare il razzismo in classe
o per strada non si basa sul fatto che studenti o compagni sappiano
necessariamente se ho ragioni personali per affrontare l’una o l’altra delle
sue versioni.
La mia impressione di Graeber era che si sentisse – come diceva il marxista
ebreo Isaac Deutscher – un «ebreo non ebreo». Nella formulazione di Deutscher,
la tradizione rivoluzionaria ebraica che si può riconoscere da Baruch Spinoza,
a Karl Marx, a Leon Trotsky, a Rosa Luxemburg, a Emma Goldman, e più
recentemente ad Abbie Hoffman, Albert Memmi e Bernie Sanders è incarnata da
ebrei che si sono allontanati dalla stretta osservanza della tradizione
religiosa e spesso dalle loro comunità ebraiche, e tuttavia hanno mantenuto la
sensazione di essere ebrei nel mondo. Quella ebraicità è meno espressa
dall’adesione all’osservanza religiosa o alla comunità, e più dall’impegno per
i principi globali di giustizia, dall’identificazione con gli oppressi e dalle
intuizioni raccolte dall’essere parte delle società di cui scrivono, ma non del
tutto.
È difficile dire se Deutscher abbia descritto così bene una
tradizione da averla inventata. Essere «ebreo non ebreo» è anche un marchio
riconoscibile nell’esperienza dei figli della sinistra ebraica: Graeber era ancora
segnato dall’esperienza di sua madre nell’organizzazione degli operai tessili a
New York City e dalla lotto contro i fascisti di suo padre in Spagna, eppure
ancora invisibile nella vita segregata e segnata dal colore degli Stati uniti.
Se si sceglie di ricordare quella tradizione, si occupa una sorta di
ambivalenza: non una cosa, ma nemmeno un’altra. Come ha scritto lo stesso
Graeber, «una delle cose che trovo più offensivo è che sono un ebreo che odia
sé stesso se sono fedele a quella tradizione del giudaismo che ha prodotto
figure come Marx, Spinoza, Gesù» – tutte figure che, come scrisse, rispondevano
allo «spirito umanistico al centro del giudaismo», ma nessuna di esse aveva una
relazione facile o trasparente con l’ebraismo visto che erano un convertito
assimilato, un eretico espulso e il punto di origine del cristianesimo.
Penso di essermi identificato con la confortevole presenza
non ebraica di Graeber nei suoi panni ebraici, nel modo in cui forse molti di
noi hanno un pantheon di eroi e avatar che rappresentano una parte inespressa
di noi. Così, quando, un anno fa, Graeber scrisse un pezzo sull’ascesa
dell’antisemitismo nell’estrema destra e sull’uso improprio della paura
dell’antisemitismo da parte dei neoliberisti, ne ho preso atto. Con mia grande
sorpresa, Graeber non solo ha denunciato l’ala destra del Partito laburista, ma
ha parlato in modo commovente di paure per la propria incolumità, dei suoi scontri
con l’antisemitismo, del senso che aveva per lui la tradizione ebraica.
Mi ha colpito. Se Graeber era uscito allo scoperto riguardo alle sue esperienze
e paure circa l’antisemitismo, allora in qualche modo mi sentivo coinvolto: non
potevo più negare le mie paure, le mie percezioni che le coordinate razziali
del mondo ebraico stavano cambiando. L’antisemitismo era allo scoperto, dai
governi di Ungheria, Polonia e Brasile, alla cospirazione antisemita di Q-Anon che ha
coinvolto larghe fasce di destra, alle invocazioni contro George Soros di
Trump, ai sussurri minacciosi secondo cui figure oscure e «segrete» controllano
Joe Biden e gli antifa – per non parlare di Charlottesville, del massacro di
Pittsburgh, di quello di Poway, degli accoltellamenti di Monsey Hanukkah.
Aggiungete questo alle ciniche calunnie antisemite contro Corbyn e Omar, alla
repulsione liberal per Bernie Sanders tra le lamentele sul suo tono, i
gesti delle mani, il presunto ateismo e lo status di «outsider» – è apparso
chiaro all’improvviso che l’antisemitismo era, ancora una volta, parte della
politica e del buonsenso culturale d’America.
Quindi, se Graeber era allarmato – e parlava apertamente della sua ebraicità –
lo consideravo significativo e lo ritenevo un motivo di riflessione. Graeber
era «come me» in un senso sociologico molto generale, solo di più. Questo è un
momento, sembrava segnalare Graeber, in cui «ebreo» non può più essere una
categoria non marcata, almeno se si vuole essere solidali contro le vittime
dell’antisemitismo, non dovrebbe esserlo. L’invisibilità dell’«ebreo non ebreo»
forse è un lusso che ci stiamo concedendo.
Eppure non tutto è disperazione. In effetti, quel senso di speranza è la parte
migliore dell’eredità politica e intellettuale di Graeber. Anche quando ha
scritto nel suo saggio sulla campagna antisemita della destra laburista contro
l’antisemitismo, ha affermato che la campagna di Corbyn ha effettivamente
ridotto il livello di antisemitismo all’interno del Partito laburista: non
nonostante, ma a causa dei suoi impulsi democratici. Cioè, poiché
l’antisemitismo è uscito allo scoperto all’interno di un progetto di sinistra,
quando la gente ha iniziato ad affrontarlo, il Partito ha potuto essere meno
antisemita e meno razzista in generale. I critici di Corbyn hanno fatto il
contrario, e per Graeber questo era il punto: è attraverso un progetto
collettivo che possiamo affermare gli impulsi più umanistici della stessa
tradizione che, in modo silenzioso ma cruciale, ha informato i valori
fondamentali del suo lavoro. Graeber sapeva ovviamente che l’antisemitismo è
diffuso in tutti i settori della società britannica, ma sapeva anche che nessun
altro progetto se non una sinistra democratica poteva fermarlo.
La democrazia radicale è in definitiva la forza trainante
dell’eredità di Graeber: credeva nel 99%, perché si sentiva parte del 99%. È
una tragedia che Graeber abbia dovuto nominare una parte di sé che all’improvviso
lo ha reso pericolosamente visibile. Ma la democrazia è anche questo:
rivendicare le parti di noi che sono più vulnerabili e usarle per promuovere la
causa della giustizia. Credeva, come credo, che il socialismo fosse l’unica via
per andare avanti – e io sono solo molto più triste che non saremo in grado di
arrivarci con lui.
*Benjamin Balthaser è docente associato di
letteratura stunitense multietnica all’Indiana University, South
Bend. Ha scritto Anti-Imperialist
Modernism and Dedication. Questo articolo è uscito
su JacobinMag. La
traduzione è di Giuliano Santoro.
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