A quasi un mese dallo storico incontro di settembre tra Talebani e governo di Kabul l’unico passo avanti lo fa la guerra.
Mentre il presidente afgano Ashraf Ghani reiterava il 21 settembre dal
podio virtuale delle Nazioni Unite la sua richiesta di un cessate il fuoco nel
paese, le statistiche del Ministero dell’Interno di Kabul stimavano a un
centinaio le sole vittime civili in 24 province nelle ultime due settimane
seguite allo storico incontro del 12 settembre a Doha. In quella data,
formalmente per la prima volta, il governo di Kabul e i Talebani si sono
incontrati dando vita al tanto sospirato dialogo intra-afgano. Ma da allora le
bocce sono rimaste ferme, segnate da combattimenti e incidenti il cui bilancio
è di decine di morti anche tra le forze di sicurezza afgane e la guerriglia. Le
due delegazioni, rappresentate da altrettanti “gruppi di contatto”, hanno da
allora cercato faticosamente di stabilire l’agenda di discussione che dovrebbe
impegnare l’Alto Consiglio di pace – che ha da Kabul il mandato a trattare – e
gli inviati della shura di Quetta, che
dovrebbero rappresentare la variegata e disomogenea galassia talebana. Ma
all’inizio di ottobre le tante riunioni preliminari hanno prodotto scarsi
risultati mentre il calendario continua invece a segnalare raid aerei,
incursioni nei villaggi, uccisioni mirate, accuse reciproche un po’ ovunque nel
paese. Se il primo obiettivo doveva essere una tregua o almeno una diminuzione
delle ostilità, il risultato è ancora uguale a zero.
All’interno: una pace scomoda
I punti in discussione dell’agenda negoziale dovrebbero essere una ventina
ma il primo scoglio (a parte il sospirato cessate il fuoco) sembra sia il
dovuto riconoscimento dell’accordo tra Talebani e americani, siglato sempre a
Doha in febbraio. Per i Talebani è la premessa, per Kabul invece un riferimento
da evitare poiché assegna al governo afgano un ruolo da comprimario e non certo
da protagonista. Un protagonismo che i Talebani vogliono tenere per sé.
Vogliono e debbono, poiché al loro interno l’ala radicale (non si sa per ora
quanto forte) incalza il gruppo dirigente che rischia, con la pace, di lasciare
disoccupati decine di capibastone e di militanti cui premono più le singole
rendite di posizione che non il futuro equilibrio pacifico del paese. Cosa
altrettanto vera tra i sostenitori del governo che si stanno comunque armando,
semmai le cose dovessero precipitare.
Dall’estero: denaro e forze militari
C’è dunque una dinamica interna (intra-afgana appunto) che si interseca con
una dinamica esterna che riguarda attori primari e secondari del conflitto le
cui sedi si trovano fuori dal paese. In primis gli Stati Uniti con le
incombenti elezioni presidenziali. Poi tutti gli altri, alleati di questo (il
governo) o di quella (la guerriglia) e a volte di entrambi. Cominciamo da
Ashraf Ghani e dal suo litigioso esecutivo: molto dipenderà, a novembre,
oltreché dall’esito delle elezioni americane, dall’esito della Conferenza dei
donatori di Ginevra dalla quale si capirà quante risorse Europa e Stati Uniti
intendono ancora impegnare nel paese. Il flusso di cassa, sia per l’economia
nazionale sia per le forze di sicurezza (circa 300.000 uomini tra esercito e
polizia), diventa essenziale per Ghani poiché può garantire al governo di Kabul
un elemento di forza da opporre alla temerarietà dei Talebani che pure si
trovano nelle stesse difficili acque. Anche la guerriglia corre infatti il
rischio di una “donor fatigue” dei suoi sostenitori abituali, dal Pakistan
all’Arabia saudita al Golfo, senza contare le donazioni private o il sostegno
di Iran, Russia e Cina che possono aprire o chiudere i rubinetti a seconda
delle convenienze. Con pochi denari anche la guerriglia potrebbe trasformarsi
in una presenza militare più debole nelle campagne afgane, caposaldo militare
degli studenti coranici. Nonché in un indebolimento della leadership del loro
capo “ufficiale”, quel Mawlawi Hibatullah Akhundzada, criticato da quanti si
sentono traditi dal negoziato o che vedono nella pace una diminuzione dei
propri poteri di controllo territoriale su diverse aree del paese. È su queste
basi (i soldi e la forza militare) che si giocherà probabilmente la vera
partita tra Talebani e Kabul: più ancora che sulla futura forma di governo, sui
diritti civili e di genere, sull’istruzione, sul voto, sul ruolo dell’islam.
Temi gravati dall’incognita Covid-19 che ufficialmente – ma le riserve sul dato
sono molte – conta pochi casi (39.422 al 6 ottobre) e poche vittime (1466) ma
che resta una variabile con cui tocca fare i conti.
Il ritiro delle truppe condizionato
Su tutto ciò regna incontrastata la guerra anche se, questa volta, ai
combattimenti partecipano solo afgani e il conflitto sembra essere tornato
nell’alveo di una guerra civile, senza più l’aiuto di forze esterne – almeno
ufficialmente – anche se le forze esterne (Usa, Nato) restano nel paese se non
altro per “osservare”. Senza utilizzare le armi ma anche senza smettere di
addestrare l’esercito afgano e continuando a pagare gli stipendi, un elemento
fondamentale per tenerlo insieme. Al momento dunque nessuno abbandona gli
afgani al loro destino e se, sulla base dell’accordo Usa-Talebani firmato il 29
febbraio 2019 a Doha, gli Stati Uniti hanno deciso di lasciare l’Afghanistan
entro 18 mesi e hanno iniziato a far tornare a casa parte della truppa, il
segretario di stato Mike Pompeo ha messo le mani avanti. Ha sottolineato che
Washington cercherà di ritirare i soldati entro la primavera del 2021 ma anche
che il ritiro è condizionato dalla completa cessazione delle ostilità dei
gruppi terroristici come al-Qaeda e Stato Islamico nel Khorasan (Isis), per ora
ancora attivi in Afghanistan. Una carta di riserva, insomma.
La Nato rimane sul terreno
Quanto alla Nato, per ora si resta con quasi 16.000 uomini (8000
statunitensi, 1300 dalla Germania, 950 dalla Gran Bretagna, 895 dall’Italia,
860 dalla Georgia, 600 dalla Turchia e così a scalare tra i 38 membri Nato
della missione Resolute Support. Missione no-combat anche se in questi anni l’Alleanza ha
operato anche militarmente, pur senza fanfare, al fianco dell’esercito afgano.
Ora dovrebbe limitarsi ai consigli in attesa che gli americani decidano quel
che succede o deve succedere. Le incognite restano tante in attesa che si
sblocchi (ovvero inizi) il negoziato tra le due delegazioni. Mentre il paese
continua a pagare il suo tributo al conflitto più lungo della Storia recente a
cavallo di due secoli.
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