come Ivan Karamazov, Antonio Moresco si interroga sul dolore e la violenza sui bambini, in un romanzo che sembra un giallo (reale e metafisico).
un poliziotto indaga su un traffico di bambini e per questo si reca nella città di Morti, per capire cosa è successo.
avrà alcune risposte, e torna alla città dei Vivi, dove certe volte nell'aria si sente un misterioso canto di bambini.
il dolore dei bambini è la cosa più inaccettabile del mondo, ma non si può fermare, il mondo lo continua a produrre, senza fermarsi mai, e sembra impossibile fermarlo, al poliziotto.
e tutti siamo dentro questa storia.
un libro da non perdere.
QUI un’intervista ad Antonio Moresco
…Più si va avanti con la
lettura e più si capisce che, in realtà, la Città dei Vivi e la Città dei Morti
non hanno alcuna differenza tra loro ma sono, anch’esse, una delle
tantissime metafore che Moresco usa
per descrivere una realtà
che lui odia, che denuncia, che l’ha spinto a ritirarsi dal
mondo della Letteratura e della Scrittura gridando il suo “Addio” a una società
che lui disprezza.
Nella sua denuncia egli non risparmia nessuno: i Vivi e i Morti sembrano due popoli immersi in una
realtà atrofizzata, dove i rapporti umani sono segnati da ipocrisie, falsità e
dove le emozioni vengono paralizzate dai social e dal web; dove i bambini non hanno la
libertà essere se stessi, di vivere, di inventare, ma vengono
“uccisi” mentalmente e moralmente dalla società e, spesso, anche dai loro
stessi genitori.
I Bambini,
in questo romanzo, sono il punto focale, l’emblema del pensiero filosofico e sociale
di Moresco. Essi, infatti, rappresentano il lato più intimo e innocente di ogni
uomo, strozzati
e fatti morire dalla realtà che li circonda e dal modo in
cui vengono cresciuti.
Il Male qui
viene descritto come parte integrante della vita di tutti giorni, cosa che
pochi eletti come D’Arco cercheranno di ribaltare senza mai riuscirci, perché
il mondo stesso ha scelto di vivere in questo modo.
Con uno stile molto cinico e
diretto, a tratti anche spietato, Antonio Moresco con questo “L’Addio” cerca di
porre fine, forse, alla sua carriera da scrittore emarginato e ci lascia una
sorta di testamento letterario, invitandoci a combattere la sua stessa
battaglia, ma con la consapevolezza che sarà impossibile eliminare “tutta
l’acqua del mare con un cucchiaino”.
…Per la prima volta l’autore è stato ispirato a
scrivere in un genere distrutto per inflazione, una specie di thriller. Ma al
contrario di ciò che succede di solito in quella forma usurata, in cui – non
solo nelle sue versioni più trite – si prova a cercare la verità, qui è molto
più ciò che per pudore si occulta: come fosse oscena l’intera
esistenza. Il protagonista – D’Arco il suo nome – è uno sbirro morto dagli
occhi bianchissimi, il quale appunto sostiene: «Io non voglio più fare il
detective, cercare indizi, accumulare prove di tutto questo male. Io non voglio
più svolgere indagini, non mi interessa cercare la verità se questa è la
verità. Io non voglio farmi complice di questa verità. Io voglio solo
alleggerire un po’ la pressione, diminuire almeno un po’ tutto questo male…»
…Di fronte alla tenerezza dell’uomo per il bambino fa
quasi un passo indietro anche l’amore che è meno presente che negli altri
romanzi di Moresco. La tenerezza per il bambino riempie tutto il romanzo in
modo bello e straziante e la si percepisce dal non detto, dal non descritto,
dal rispetto con cui è trattato il tema da uno scrittore che di solito non ci
risparmia nulla. La critica al male è radicale, c’è il male evidente dell’uomo
di luce che risplende nella sua terribile ovvietà e c’è il male nascosto nelle
pieghe della società, subdolo e carnivoro. C’è una descrizione della materia
che rimanda alla morte, all'abiezione, al degrado come quando vengono descritti
certi personaggi che mangiano, ruttano, guardano film porno come se piacere e
dolore fossero strettamente legati e il male si nascondesse tra le pieghe della
vita, di quella che consideriamo vita. I bambini cuciti, i bambini che cantano
però sono immagini di pace, nonostante tutto. Certo, di fronte al dolore
dell’innocente non c’è risposta solo umana.
Come direbbe Camus, anche se tutti dovessero
morire di peste il medico resta al suo posto a fare il medico fino alla fine e
pure il poliziotto e, perché no, lo scrittore con i suoi occhi bianchi.
Infatti, le parole sono importanti per combattere il male: sono il cannone, la
mitragliatrice, la pistola e la bomba a mano.
L’addio è una cometa disincagliata dalla
costellazione degli Increati (Mondadori,
2015). È un pianto creaturale, una mostra delle atrocità. È una scrittura
eventuale, probabilistica, condotta per quanti di energia. Sull’orizzonte degli
eventi le forze piegano il diagramma cartesiano del mondo, gli opposti trovano
una cucitura, fra arte popolare e arte sacra, fra Grand Guignol e le
efferatezze di Francis Bacon, fra noir e arte marziale, surrealismo fauve e manga. Il dagherrotipo che emerge ha il
bianco e nero dei sogni e dei capolavori del cinema muto, come La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer (1928),
nel quale recitava Antonin Artaud, il padre del “teatro della crudeltà”. Oggi
nelle stesse fosforescenze brillano i nervi di Antonio Moresco.
In questo suo ultimissimo romanzo
esistono due città: quella dei vivi e quella dei
morti. La polizia dei vivi ha una linea speciale con quella dei morti e
quest’ultima aiuta la prima nel risolvere i casi, interrogando direttamente le
vittime precipitate nell’altro mondo. D’Arco è uno “sbirro morto”, la cui
missione è ritornare nella “città dei vivi” per indagare su una terribile
mattanza. Ad aiutarlo un bimbo muto, con una cicatrice intorno al collo, a
forma di collana di spine.
Il nome D’Arco richiama certo la
pulzella d’Orléans, la guerriera in ascolto privilegiato del Divino (l’acustica
è centrale nella vicenda: i bimbi della città dei morti, infatti, intonano un
canto ultrasonico, udibile solo all’iniziato D’Arco), ma anche, per assonanza
fonetica, l’aggettivo dark, quell’oscuro
scrutare che domina la messinscena moreschiana…
…Non basta, dunque, rendersi conto che le parole dei singoli
carnefici, se lette come un corpus unico, compongono la narrazione di un male
sotterraneo che potrebbe erompere, prima di quanto si possa immaginare, nel
nostro mondo: in quello spicchio di realtà che ogni mattina vediamo fuori dalla
finestra. Si tratta di un male che si alimenta con l’idea che «i comportamenti
delle donne e gli uomini di questa specie non sono diversi da quelli dell’ultima
colonia di scimpanzé. […] Tutto il resto, quelle cose che hanno chiamato
sentimenti, ideali, amore, sono solo chiacchiere di copertura e inganni su cui
hanno costruito quella grande menzogna che hanno chiamato civiltà». Non basta
rendersi conto che la città di Moresco è sì una megalopoli del futuro, ma non
così dissimile dalle immense conurbazioni che già conosciamo. Non basta, se la
gran parte della lettura è spesa rincorrendo raffiche di domande troppo uguali
e corpi che cedono alla morte abbattuti da proiettili di un qualche calibro, o
sviscerati da una qualche lama.
Sopito il caos della battaglia, spente le luci
accecanti del videogioco, sopravvive la messa in guardia, l’allerta, il grido
d’aiuto che l’autore lancia ai membri, ai custodi quali tutti siamo della
nostra specie. È questo l’addio di Moresco, quello diretto al lettore a mo’ di
prologo, e non è dato sapere se si trasformerà in un arrivederci, ma se così
non fosse sarebbe allora un addio a una società che davvero non ha ragion
d’essere: «Non riesco più a sopportare i rapporti umani così come sono
configurati in questa epoca, dove ogni cosa viene immiserita e rimpicciolita,
anche l’elezione, l’amicizia e l’amore, dove ogni anelito si trasforma in
delusione, ferita e perdita irreparabile. Non riesco più a sopportare il
cinismo dominante, il piccolo cabotaggio esistenziale, la ristrettezza di
orizzonte, la mancanza di grandezza, di sentimento, di libertà, di invenzione».
…Leggere l’Addio è una cupa discesa negli inferi, in
un mondo dove non esiste speranza e dove tutto è caotico, dove le domande
esistenziali afferrano D’Arco senza lasciargli pace, ammorbandolo e devastandolo
dall’interno, fino alla rivelazione finale in stile Fight Club: “tu sei
diventato grande perché io sono stato ucciso da bambino, e io sono un bambino
solo perché tu sei stato ucciso da grande. Perché io sono morto per far vivere
te e tu sei morto per fare vivere me.”
Nulla è chiaro, nulla è delineato,
anche la triade di dogmi nascere-vivere-morire è messa in dubbio con forza, in
un pessimismo cosmico che fa impallidire il poeta di Recanati.
Quelle vocine che cantano
dall’alba dei tempi, e non smetteranno nemmeno alla fine, sembrano sussurrare
il monito di uno dei tanti assassini che infestano le pagine maledette di
Moresco: “perché i bambini vengono lasciati diventare grandi e uccidono poi
altri bambini?”
Quel vecchio sembra tanto
ricordare Emil Cioran.
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