martedì 31 marzo 2020

ricordando Terezin



Coronavirus, Annie Ernaux contro Macron: “Hai tagliato la sanità e adesso parli di guerra”



L'autrice de "Gli anni" e "Il posto", Annie Ernaux, una delle voci letterarie più profonde e amate del nostro presente, scrive una lettera al presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron per rilanciare nel campo presidenziale tutta la retorica, l'uso improprio del linguaggio bellico e persino la fallacia logica delle contraddizioni politiche dei suoi recenti discorsi alla nazione, nonché per le politiche messe in campo durante l'emergenza sanitaria da coronavirus. Cita la censura di cui fu vittima il grande Boris Vian non per farsi schermo ma per scegliere la parte di campo in cui stare, e lo fa a modo suo. Non è un caso che la scrittrice francese sia così amata dai lettori di tutto il mondo.

Innanzitutto, la citazione di Vian: "Ti scrivo una lettera / Che potresti leggere / Se hai tempo. Per te che sei appassionato di letteratura, questa introduzione probabilmente significa qualcosa. È l'inizio della canzone The Deserter di Boris Vian, scritta nel 1954, tra la guerra dell'Indocina e la guerra algerina. Oggi, qualunque cosa tu dica, non siamo in guerra, il nemico qui non è umano, non è il nostro prossimo, non ha né pensato né voglia di fare del male, ignora i confini e le differenze sociali, si riproduce alla cieca saltando da un individuo all'altro. Le armi, poiché tieni a questo lessico bellico, sono i letti degli ospedali, i respiratori, le maschere e i test, ovvero il numero di medici, scienziati, operatori sanitari. Tuttavia, da quando guidi la Francia, sei rimasto sordo alle grida di allarme del mondo della salute".

Un atto di accusa potente contro quelle politica, come nel caso delle politiche messe in campo dai governi voluti dal presidente Emmanuel Macron, che non si ferma ai tagli, ma alla concezione del potere, della visione di società del presidente francese: "Hai preferito ascoltare coloro che sostengono il disimpegno dello Stato, sostenendo l'ottimizzazione delle risorse, la regolazione dei flussi, tutto questo gergo tecnocratico privo di carne".

Perché a sostenere lo stato francese, in questo momento, ci sono "i servizi pubblici che, per la maggior parte, assicurano il funzionamento del Paese: ospedali, istruzione nazionale e le sue migliaia di insegnanti, insegnanti che sono così mal pagati, EDF, l'ufficio postale, la metropolitana e il SNCF. E quelli che, una volta, hai detto che non erano niente, ora sono tutto, quelli che continuano a svuotare la spazzatura, a digitare i prodotti nelle casse, a consegnare le pizze, a garantire questa vita essenziale come la vita intellettuale e materiale."

Una lunga disamina di quelli che sono gli invisibili dei nostri tempi, in epoca da coronavirus: "Sappi, signor Presidente, che non lasceremo più rubare la nostra vita". Ecco il testo integrale, in (francese), della lettera di Ernaux…


lunedì 30 marzo 2020

Coronavirus - Raoul Vaneigem


Mettere in dubbio la pericolosità del Coronavirus, è sicuramente assurdo. D'altra parte, non è altrettanto assurdo che un'interruzione in quello che è il normale decorso delle malattie venga fatta oggetto di un simile sfruttamento emotivo, e che risvegli quell'arrogante incompetenza che anni fa era riuscita a spazzare via dalla Francia perfino la nube di Chernobyl? Ovviamente, sappiamo con quanta facilità lo spettro dell'apocalisse esca dalla sua scatola per impadronirsi del primo cataclisma che gli si offre, per giocare così con le rappresentazioni del diluvio universale, e spostare quella che è la griglia della colpa sul terreno sterile di Sodoma e Gomorra. La maledizione divina è sempre stata un utile complemento al potere. Almeno fino al terremo di Lisbona del 1755, quando il marchese di Pombal, amico di Voltaire, approfittò del sisma per massacrare i gesuiti, ricostruire la città secondo le sue idee e liquidare allegramente i suoi rivali politici attraverso degli esperimenti «proto-stalinisti». Eviteremo di insultare Pombal, per quanto odioso sia stato, paragonando il suo colpo di stato dittatoriale alle misere misure che il totalitarismo democratico sta applicando in tutto il mondo all'epidemia di Coronavirus.
Quant'è cinico dare la colpa del propagarsi del flagello alla deplorevole inadeguatezza delle risorse mediche impiegate! Per decenni il bene pubblico è stato minato e smantellato, vittima di una politica che favorisce gli interessi finanziari a spese della salute dei cittadini. Ci sono sempre più soldi per le banche e sempre meno letti e infermieri per gli ospedali. Quali buffonate useranno per nascondere ancora il fatto che questa gestione catastrofica del catastrofismo è inerente al capitalismo finanziario, globalmente dominante, e che è proprio lui che oggi lotta globalmente a nome della vita, del pianeta e delle specie da salvare. Senza cadere in questa recrudescenza del castigo divino per cui l'idea sarebbe quella che la Natura si sta sbarazzando dell'uomo come se fosse un parassita gradito e dannoso, non è però inutile ricordare che per millenni lo sfruttamento della natura umana e della natura terrestre ha imposto il dogma dell'anti-fisica, dell'anti-natura. Il libro di Éric Postaire, "Le epidemie del XXI secolo", pubblicato nel 1997, conferma quali sono stati gli effetti disastrosi della persistente denaturalizzazione, che vado denunciando da decenni. Facendo riferimento al dramma della «mucca pazza» (che era stato predetto da Rudolph Steiner già nel 1920), l'autore ci ricorda che, oltre ad essere indifesi contro alcune malattie, bisogna rendersi conto che a poterle causare è lo stesso progresso scientifico. Nel richiedere un approccio responsabile alle epidemie ed al loro trattamento, mette sotto accusa quella che Claude Gudin chiama la «filosofia del cassiere». Egli ci pone la seguente domanda: «Se subordiniamo la salute della popolazione alle leggi del profitto, fino al punto di trasformare in carnivori gli animali erbivori, non corriamo così forse il rischio di provocare delle catastrofi che saranno fatali per la Natura e per l'Umanità? I governi, com'è noto, hanno già risposto unanimemente SÌ. Ma che importa, visto che il NO degli interessi finanziari continua cinicamente a trionfare?»
E ci voleva il Coronavirus per dimostrare ai più miopi che la denaturalizzazione per ragioni di redditività può avere delle conseguenze disastrose per la salute universale (salute che viene gestita senza disinnescare un'Organizzazione Mondiale le cui preziose statistiche servono a giustificare la cancellazione degli ospedali pubblici)? Esiste una chiara correlazione tra il Coronavirus ed il collasso del capitalismo globale. Allo stesso tempo, non è meno ovvio che ciò che ci sta travolgendo e sopraffacendo, insieme all'epidemia del Coronavirus, è una peste emozionale, una paura isterica, un panico che nasconde quella che è la mancanza di terapie, e perpetua il male spaventando il paziente. Durante le grandi epidemie di peste del passato, la gente faceva penitenza e proclamava la propria colpa auto-flagellandosi. E non è forse interesse degli amministratori della disumanizzazione globale persuadere le persone che non c'è modo di uscire dal miserabile destino che viene loro inflitto? E che l'unico modo è quello della flagellazione della servitù volontaria? La formidabile macchina mediatica non fa altro che ripetere la vecchia menzogna dell'impenetrabile ed ineluttabile decreto celeste, in cui il folle denaro ha soppiantato gli dei sanguinari e capricciosi del passato.
Lo scatenarsi della barbarie poliziesca contro pacifici manifestanti ha ampiamente dimostrato che la legge militare è l'unica cosa che funzioni efficacemente. Adesso confina donne, uomini e bambini nella quarantena. Là fuori, c'è la bara, dentro c'è la televisione: la finestra aperta su un mondo chiuso! Si tratta di un condizionamento capace di aggravare il malessere esistenziale appoggiandosi alle emozioni logorate dell'angoscia, ed esacerbate dalla cecità di una rabbia impotente. Perfino le bugie cedono il passo al collasso generale. Il cretinismo statale e populista ha raggiunto i propri limiti. Non si può negare che ci sia in corso un esperimento. La disobbedienza civile si sta diffondendo e sta sognando società che sono radicalmente nuove perché sono radicalmente umane. La solidarietà libera dalla loro scorza individualista gli individui che non hanno paura di pensare con la propria testa.
Il coronavirus si è trasformato nel marchio rilevatore del fallimento dello Stato. Almeno questo, per le vittime della reclusione forzata, è qualcosa cui pensare. Quando ho pubblicato le mie «Modeste proposte per gli scioperanti», ci sono stati alcuni amici che mi hanno parlato di quanto fosse difficile ricorrere al rifiuto collettivo, da me suggerito, di pagare tasse e imposte. Oggi, però, l'evidente bancarotta dello Stato corrotto è la prova di una declino economico e sociale che sta facendo sì che le piccole e medie imprese, il commercio locale, i bassi redditi, le aziende agricole familiari e perfino le cosiddette libere professioni siano assolutamente insostenibili. Il collasso del Leviatano è riuscito a convincerci in maniera più rapida di quanto avevano fatto i nostri sforzi per abbatterlo.
Il Coronavirus ha fatto di meglio ancora. La cessazione delle attività produttive nocive ha ridotto l'inquinamento del mondo, salvando da una morte programmata milioni di persone: la natura respira, i delfini tornano nuotare e a giocare in Sardegna, i canali di Venezia liberatisi del turismo di massa riscoprono l'acqua chiara, il mercato azionario crolla. La Spagna decide di nazionalizzare le cliniche private, come se avesse riscoperto la sicurezza sociale, come se lo Stato si ricordasse dello stato sociale che ha distrutto.
Niente viene dato per scontato, tutto comincia. L'utopia continua a gattonare a quattro zampe. Abbandoniamo alla loro celestiale inanità i miliardi di banconote e di idee vuote che circolano sulle nostre teste. Quel che importa è «farci gli affari nostri» lasciando che la bolla degli affari crolli e imploda. Stiamo attenti alla mancanza di audacia e fiducia in sé stessi!
Il nostro presente non consiste nel confinamento che ci viene imposto dalla sopravvivenza, ma è l'apertura ad ogni possibilità. Quelle misure che lo Stato oligarchico è costretto ad adottare, e che fino a ieri aveva ritenuto impossibili, sono solo effetto del panico. Dobbiamo rispondere a quello che è il richiamo della vita e della terra da riconquistare. La quarantena favorisce la riflessione. Il confinamento non sopprime la presenza sulla strada, ma la reinventa. Permettetemi di pensare, cum grano salis, che l'insurrezione della vita quotidiana continua ad avere insospettabili virtù terapeutiche.
da qui

La coalizione dei ripugnanti


Moltissimi lutti addusse agli umani il Covid-19 (e non ha finito).
E però diventa un’occasione per ripensare tante cose.
Primo: che idea hanno di Europa quelli che prima di lanciarti il salvagente vogliono il numero della carta di credito? - Primum vivere, deinde philosophari (qui), diciamo noi.
secondo: alla fine la coalizione dei ripugnanti farà la classifica dei buoni e dei cattivi, la faranno gli olandesi che fanno dumping fiscale, e i loro amici, "Alla Commissione – ha aggiunto Von der Leyen – è stato affidato dal Consiglio il compito di elaborare il piano di ricostruzione, e questi sono i binari su cui stiamo lavorando" (qui)
Traduzione: aspettiamo che l'epidemia faccia il lavoro di distruzione del vostro paese (come anche in Spagna e in Portogallo, la Grecia è stata una prova ben riuscita) e poi ci prenderemo tutto a prezzi di saldo (ecco il piano di ricostruzione).




già l’otto marzo una lettera dell’Associazione nazionale di Amicizia Italia-Cuba segnalava al ministro della Sanità Speranza la disponibilità a offrire medicine e personale medico per aiutare a combattere il virus (qui)

il 18 marzo arrivano i primi aiuti dalla Cina (qui)

il 22 marzo arrivano 53 medici e infermieri cubani (qui)

il 23 marzo Il governo italiano ha lanciato un appello diretto al segretario alla Difesa americano, Mark Esper, per aiuti militari nella lotta contro il coronavirus…A parte qualche tweet di solidarietà, gli Usa piuttosto hanno fatto incetta in Italia di kit per gli esami di laboratorio. La notizia aveva fatto scalpore nei giorni scorsi: mezzo milione di tamponi sono stati comprati presso un’azienda produttrice al Nord e caricati su un grande aereo militare che è poi partito da Aviano. (qui)

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il 28 marzo alle parole di Ursula Von der Leyen (Presidente della Commissione Europea) contro i coronabond: “Quella parola è solo uno slogan” replica  il presidente del consiglio Conte: "Qui c’è un appuntamento con la storia. L’Europa deve dimostrare se è all’altezza” (qui)


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il 28 marzo arriva dall’Albania un team di 30 medici e infermieri albanesi è partito per l’Italia per aiutare il nostro Paese ad affrontare l’emergenza Coronavirus.

qui

 

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il 29 marzo Boris Johnson dice: "E' importante che  io sia chiaro con voi: sappiamo che le cose peggioreranno prima che inizino a migliorare” (qui).

probabilmente la sera prima aveva guardato Oltre il giardino), prendendo spunto da Chance il giardiniere (qui)

e sempre Peter Sellers aiuta a capire la logica della coalizione dei ripugnanti (qui), quella logica schifosa per cui prima devi avere l’assicurazione medica, o una carta di credito ben piena e allora ti curiamo, se non hai quelle due caratteristiche al massimo un paio di aspirine e poi crepa a casa tua, se ce l’hai , o in strada.

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Il Dipartimento di Stato USA ha criticato Cuba mercoledì scorso per aver inviato medici in diversi paesi in crisi a causa del coronavirus. Inoltre, l'ambasciata americana a L'Avana, ha esortato i paesi che ricevono la cooperazione medica cubana a rifiutare questo aiuto, nonostante la pandemia di COVID-19.
Il ministero degli Esteri cubano, tuttavia, ha respinto questa posizione di Washington, definendola "offensiva per Cuba e il resto del mondo", mentre il mondo intero è minacciato dalla pandemia di COVID-19.
Allo stesso modo, ha sollecitato la "cessazione e sospensione di ingiusti blocchi e misure unilaterali coercitive", nonché "meschinità e ostilità", come sostenuto dalle Nazioni Unite, ha ricordato.
Inoltre, Palacios ha sottolineato la necessità di impegnarsi per "promuovere la solidarietà e aiutare coloro che ne hanno bisogno" in questi momenti critici.
Il portavoce ministeriale cubano, ha assicurato che il paese caraibico continuerà a “inviare i dottori necessari negli angoli più bui del mondo. Medici e non bombe”, ha precisato.

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"Questo discorso è ripugnante nel quadro dell'Unione europea. Questa è la parola giusta: ripugnante, perché noi non siamo pronti per ascoltare ancora una volta ministri dell'Economia olandesi". Così il premier portoghese Antonio Costa attacca il ministro olandese Wopke Hoekstra, ricordando le parole che il suo predecessore Jeroen Dijsselbloem aveva durante la crisi economica. Lo scontro è ancora una volta di natura economica: il Portogallo è schierato con i Paesi Ue che sostengono la necessità degli eurobond, su tutti Italia e Spagna. Un'ipotesi che non piace, tra gli altri, all'Olanda e che avrebbe spinto Hoekstra a chiedere alla Commissione Ue di avviare un'indagine sui bilanci dei Paesi che vorrebbero gli eurobond per far fronte all'emergenza coronavirus.


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Il governo del Portogallo ha deciso di concedere il permesso di soggiorno a tutti gli immigrati che ne hanno già fatto richiesta, almeno fino al primo luglio, per garantirgli di affrontare al meglio l'emergenza coronavirus. Il governo di Antonio Costa ha approvato la sanatoria per i richiedenti asilo e per tutti gli stranieri senza permesso di soggiorno che abbiano chiesto di accedere ai servizi sanitari.

Come l’austerità ha distrutto la sanità - coniarerivolta


    
Nel pieno dell’esplosione dell’epidemia legata al Coronavirus, tutti sembrano concordare sull’esistenza di un serio pericolo di insufficienza di strutture e macchinari, quali respiratori e posti letto in terapia intensiva, che prima o poi metterà gli operatori del sistema sanitario nella posizione di dover scegliere a chi somministrare i trattamenti o meno, innalzando in questo modo la mortalità della malattia per ragioni che nulla avrebbero a che vedere con l’aggressività specifica del Covid-19. È datata 14 marzo la dichiarazione dell’assessore al welfare della Lombardia, Giulio Gallera, su un numero ormai limitatissimo di posti di terapia intensiva nella regione, del tutto insufficienti a fronte dei nuovi malati registrati ogni giorno.
A tal riguardo si sta accendendo una polemica politica sui motivi di tale incapacità del sistema ospedaliero di assorbire il numero crescente di pazienti gravi. Su una cosa sembrano essere tutti d’accordo: il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è evidentemente inadeguato per affrontare questa situazione. Tuttavia, due posizioni distinte emergono dal dibattito circa tale inadeguatezza.
Da più parti si è sottolineato che la causa principale di tali difficoltà siano i tagli alla sanità pubblica effettuati nel corso degli ultimi anni. Sul fronte opposto, invece, le cause sarebbero da ricercare nella cattiva gestione dei finanziamenti pubblici (la cui erogazione sarebbe addirittura cresciuta negli ultimi anni), attribuibile all’inadeguatezza dei dirigenti del settore sanitario e al malaffare. Proviamo a districarci in questo dibattito.
Partiamo, innanzitutto, da un dato incontestato: il SSN si sta rivelando, ad oggi, gravemente inadeguato ad affrontare questa situazione emergenziale. Il dato italiano sul numero dei posti letto è allarmante: nel 2017 (ultimo dato disponibile) c’erano 3.2 posti letto ogni mille abitanti (in discesa dai 3.9 del 2010). Si tratta di un dato impietoso se rapportato alla media OCSE (4.7), e soprattutto a Francia (6) e Germania (8). Dal 2010 al 2017 è crollato il numero delle strutture ospedaliere, passate da 1.165 a 1.000 (-14.2%), e il numero complessivo dei posti letto, passati da 244.310 a 210.907 (-13.7%, che diventa -30% se partissimo dal 2000).
Dal nostro punto di vista, questo declino è figlio di un disegno politico ed economico ben preciso, comunemente definito come austerità: si tratta di un processo di privatizzazioni e riduzione della spesa pubblica portato avanti dai governi di tutti i colori degli ultimi trent’anni, sotto la spinta del processo di integrazione europea, e la cui realizzazione ha subito una violenta accelerazione a partire dalla crisi scoppiata nel 2008.
Il sistema sanitario è inadeguato perché decenni di tagli hanno ridotto il personale medico e infermieristico, i posti letto, i macchinari e i servizi, all’interno di un più ampio progetto politico che sta disintegrando lo stato sociale per favorire l’accumulazione di profitti di pochi. Non ci stupisce che, in questi giorni, coloro che hanno favorito, messo in pratica e promosso l’austerità siano in evidente imbarazzo e provino a nascondere le loro responsabilità storiche e politiche.
In particolare, il responsabile economico di Italia Viva, Luigi Marattin, ha dichiarato che la storia dei tagli alla sanità sarebbe una bufala e che, al contrario, i finanziamenti pubblici al SSN sono quasi raddoppiati negli ultimi 20 anni. Luigi Marattin, così come il ministro delle politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova, basa le sue dichiarazioni sui dati della spesa sanitaria corrente (ossia, la spesa in costi per il personale e consumo di beni non durevoli) in termini nominali. Così computata, in effetti, la spesa per il SSN mostra una certa crescita che sembrerebbe protrarsi, sebbene a ritmi modesti, anche negli anni della più dura austerità, dopo il 2011. Su questi dati, Marattin conclude che la colpa dello stato emergenziale del SSN andrebbe quindi attribuita alla cattiva gestione delle risorse.
Il grafico a cui fanno riferimento Marattin e il ministro Bellanova si basa su dati forniti dal Ministero della Salute. I dati OCSE qui riportati in Figura 1 confermano il trend evidenziato da Marattin: in termini nominali la spesa corrente in sanità è aumentata piuttosto sensibilmente fino al 2008, e successivamente, sebbene a ritmi meno elevati, è continuata a crescere.

FIGURA 1. Fonte: Elaborazioni su dati OCSE, banca dati Cofog (spesa governativa per funzione). Miliardi di euro a prezzi correnti. Dalla spesa complessiva (total government expenditure) sono stati sottratti gli investimenti.

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Tuttavia, calcolare il finanziamento al sistema sanitario facendo riferimento a dati in termini nominali significa non tenere in considerazione l’andamento dei prezzi dei beni e servizi acquistati dalla pubblica amministrazione nel comparto sanitario. Nel corso degli anni presi a riferimento si è verificata infatti una crescita del livello dei prezzi nell’economia che ha svalutato l’entità di quegli stanziamenti. Per giunta il tasso di inflazione annuo specifico del settore sanitario è risultato costantemente maggiore rispetto a quello medio dell’economia (dal 2000 al 2015 i prezzi medi nell’economia italiana sono aumentati di circa il 25%, mentre la crescita dei beni e servizi del comparto sanitario è stata del 37%), contribuendo così a svalutare ancor di più i valori nominali del finanziamento.
Per queste ragioni, al fine di valutare l’andamento della spesa pubblica in sanità è opportuno considerare il finanziamento al sistema sanitario in termini reali. Perché è questo il dato che conta? Qualsiasi grandezza economica deve essere valutata in termini reali nella sua evoluzione temporale, dal momento che 1 miliardo di euro nel 2000 non equivale a 1 miliardo nel 2020, poiché l’aumento dei prezzi fa sì che nel 2020 la stessa cifra in termini nominali non permetta di acquistare le stesse quantità di beni, servizi e forza lavoro. Per quanto riguarda il settore sanitario, la crescita molto marcata dei prezzi di farmaci e strumentazione medica insieme alla dinamica più lenta della spesa sanitaria nominale hanno provocato una continua riduzione della quantità di farmaci, attrezzature e servizi medici a disposizione del SSN.
Considerando il valore deflazionato, ovvero in termini reali, della spesa pubblica sanitaria, ottenuto utilizzando l’indice dei prezzi di un paniere di beni e servizi sanitari, la dinamica di tale grandezza cambia drasticamente (Figura 2).

FIGURA 2. Fonte: Elaborazioni su dati OCSE, banca dati Cofog (spesa governativa per funzione). Miliardi di euro a prezzi costanti (base 2015). La spesa in termini nominali presentata in Figura 1 è stata deflazionata utilizzando il deflatore dei prezzi della sanità disponibile a questo link.

                                       
Ecco come i valori in termini reali mostrano chiaramente che, dopo una fase di crescita nel primo decennio del nuovo secolo, a partire dal 2011 vi sia una fase di contrazione costante della spesa sanitaria, causata dall’applicazione delle severe politiche di austerità di matrice europea avviate dal governo Monti e poi proseguite. Si tratta di un taglio di circa 26 miliardi, pari al 12%, dal livello di spesa del 2009 a quello del 2018, che si traduce in termini pro-capite in un taglio di quasi 400 euro pro-capite.
Inoltre, il dato finora preso in esame non tiene conto degli investimenti pubblici in sanità, ossia dell’acquisto da parte dello Stato di beni durevoli, quali strutture e macchinari, capaci ad esempio di incrementare i posti letto o di mantenere elevati standard di attrezzature (che, ad esempio, se non rinnovate possono soffrire di obsolescenza). Anche in questo caso, dall’analisi condotta in termini reali registriamo un costante decremento degli investimenti annui (Figura 3), che passano dai 6.1 miliardi del 2009 ai 3.4 del 2018 (-44%). Il dato è ancora più eclatante se facciamo riferimento ai soli investimenti nel comparto ospedaliero, quello più sotto pressione in questi giorni, diminuiti da 3 a 1.3 miliardi (-56%).

FIGURA 3. Fonte: Elaborazioni su dati OECD, Cofog (spesa governativa per funzione). Miliardi di euro a prezzi costanti (base 2015). La spesa per investimenti (gross capital formation) è stata deflazionata utilizzando il deflatore degli investimenti complessivi.
                                            
                                                   

Nel complesso, l’entità dello sforzo pubblico (spesa corrente più investimenti) nel comparto sanitario è caduta dal 2008 del 13%, da 136 miliardi a 118 miliardi annui.
Il taglio di risorse risulta ancora più vistoso se si considera che nel corso dell’ultimo ventennio si è verificato, in Italia come in molti altri paesi del mondo occidentale, un significativo invecchiamento della popolazione: una parte cospicua della spesa sanitaria è infatti rivolta alla popolazione anziana, e ciò significa che per garantire un pari livello di servizi, ceteris paribus, la spesa sarebbe dovuta aumentare in termini reali, anche solo per assecondare tali mutamenti demografici.
Inoltre, l’evoluzione tecnologica – particolarmente marcata nel settore sanitario – comporta anch’essa un aumento dei finanziamenti nel tempo, indispensabile per l’adozione delle nuove apparecchiature, che permettono ad un sistema di cura di evolversi al passo con i tempi, e l’affinamento di tutte le competenze specifiche necessarie.
Come se non bastasse, le risorse destinate ad acquistare farmaci e materiali sempre più costosi sono state in parte individuate attraverso la riduzione del monte salari di medici e infermieri. Ecco perché negli ospedali si registra una carenza sempre più preoccupante di infermieri e personale infermieristico (meno 36.000) e medico (meno 8.000). Regioni e aziende sanitarie per raggiungere l’equilibrio di bilancio hanno tagliato gli organici. Non stupisce affatto che il settore sanitario risulti, insieme a quello assistenziale, il peggiore in termini di gap occupazionale rispetto alla media europea: all’Italia, nel 2017, mancavano 1 milione e 435 mila addetti per raggiungere il medesimo tasso di occupazione settoriale dell’aggregato UE15.
Infine, vediamo che altri grandi paesi europei hanno aumentato la spesa nominale in modo molto più marcato di noi nel periodo di riferimento. L’andamento più recente ha ulteriormente allontanato la spesa sanitaria pubblica italiana rispetto a quella di altri paesi europei, dove non sono stati effettuati simili tagli in termini reali, in un contesto di applicazione meno ferrea delle politiche di austerità finanziaria. Nel 2018, la spesa pubblica nel settore sanitario corrisponde in Italia al 6.8% del PIL (il 7.4% nel 2009), contro l’8.1% della Francia (8%), il 7.2% di Germania (7.1%) e l’UE15 (7.5%).
Abbiamo visto come i vari Marattin stiano provando, in ogni modo, a negare l’evidenza, a negare cioè che la responsabilità dell’inadeguatezza del nostro SSN sia da imputare alle politiche di austerità. È l’austerità che ha decimato gli ospedali, riducendo i posti letto ed il personale medico, una scelta tutta politica che ora rischiamo di pagare cara.
Chi oggi prova a sviare l’attenzione, dall’austerità a qualche altra presunta causa del declino del sistema sanitario nazionale (una vaga mala gestione per Marattin, addirittura quota 100 per Boeri!), lo fa per vergogna, perché davanti all’emergenza sanitaria non ha il coraggio di sostenere apertamente un progetto politico che impone il sacrificio di molti per il profitto di pochi. Ma basta fare qualche passo indietro, uscire dall’emergenza di queste settimane, per imbattersi in dichiarazioni inequivocabili che vanno nella direzione opposta.
Emblematico, da questo punto di vista, il libro pubblicato da Carlo Cottarelli nel 2015 dal titolo “La lista della spesa: la verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare”. Nel capitolo 12, dedicato alla spesa sanitaria, Cottarelli rivendica apertamente che l’Italia avrebbe fatto “meglio della Germania”: siamo stati “più virtuosi dei tedeschi” perché “la spesa sanitaria è cresciuta negli ultimi decenni (…) meno di quanto sia avvenuto nella maggior parte degli altri paesi avanzati”. E ancora: “Che è successo negli ultimi anni? Siamo stati anche più virtuosi: dal 2008, la spesa è rimasta praticamente costante rispetto al Pil, nonostante il Pil (in termini reali) scendesse”.
Cottarelli concludeva: “Il fatto che la spesa sanitaria sia aumentata meno che negli altri paesi avanzati dimostra che il Servizio sanitario nazionale ha funzionato bene”, aggiungendo una chiosa significativa: “almeno in termini di contenimento dei costi”. Ecco il punto. Oggi, intimiditi, ci raccontano che la spesa pubblica per la sanità non si è mai ridotta, ma prima di questa epidemia, tronfi, rivendicavano con toni altisonanti il contenimento della spesa sanitaria. L’epidemia è un fatto naturale, la difficoltà che il sistema sanitario ha nel contenerla è invece una loro responsabilità politica. Lasciamo che i medici combattano il Covid-19, ma spetta a noi combattere contro il virus dell’austerità.

domenica 29 marzo 2020

lo sguardo e le parole di Alberto Negri


Senza tregua, il falso cessate il fuoco - Alberto Negri

Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, il 23 marzo si era rivolto ai paesi in guerra chiedendo un cessate il fuoco per impedire che in zone già devastate e indebolite dai conflitti il coronavirus potesse mietere ancora più vittime. Nessuna grande o media potenza se lo è filato, tranne qualche gruppo di guerriglia come gli insorti comunisti delle Filippine.
Siamo senza tregua ma sui media ci raccontiamo la favoletta della “pace da coronavirus”.
Il Pentagono ha ordinato ai comandanti militari di prepararsi a un aumento dei combattimenti in Iraq emanando una direttiva per preparare una campagna contro le milizie sciite: alcuni generali esitano ma Trump e Pompeo spingono per approfittare dell’indebolimento dell’Iran prostrato dall’epidemia.
Il quadrante iracheno è ribollente. Gli Usa si sono defilati da alcune basi per evitare attacchi dei miliziani mentre la Francia ha ritirato qualche centinaio di soldati: questo è il prezzo che Macron ha pagato per la liberazione di quattro ostaggi francesi dell‘organizzazione umanitaria Cristiani d’Oriente prigionieri per oltre un mese non si sa se di qualche milizia o degli stessi servizi iracheni. Appare sempre più chiaro che a Baghdad si sta aprendo un nuovo capitolo della “guerra di Soleimani” tra le forze che vorrebbero un ritiro degli americani e gli Usa che qui vogliono fare la guerra a Teheran e alla Mezzaluna sciita.
Altro che tregua. Non finiscono neppure le guerre economiche. Anzi gli Stati Uniti continuano a strangolare Teheran con le sanzioni e hanno imposto persino una taglia sul presidente venezuelano Maduro. Da ogni parte si chiede la sospensione delle sanzioni all’Iran: quelle finanziarie e bancarie, lo scrive anche il New York Times, impediscono a Teheran qualunque operazione di pagamento internazionale, compreso l’import di medicinali. Non solo: Washington, dopo avere offerto agli ayatollah la carità pelosa di aiuti umanitari, si prepara a bloccare la richiesta di Teheran di un presto da 5 miliardi di dollari al Fondo monetario.
Ognuno strangola chi può. Non pensiamo che noi europei siamo tanto meglio: il Nord dell’Unione europea non ci vuole regalare soldi perché spera di raccogliere quel che resterà di buono tra le macerie delle economie meridionali come la nostra. La Germania non ha bisogno di eserciti: fa lavorare l’epidemia e l’economia. Dopo avere evocato terminologie belliche per settimane adesso che è in guerra la nostra classe dirigente stenta ad accorgersene e se ne meraviglia.
L’America di Trump non rinuncia al suo obiettivo, cambiare i regimi che non gli piacciono perseguendo politiche contrarie alla carta delle Nazioni Unite. Del resto non ci si poteva aspettare altro visto che hanno cominciato l’anno il 3 gennaio assassinando il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad.
Si combatte eccome, dalla Siria allo Yemen, dall’Afghanistan all’Iraq. Quel che si vede sono soltanto pause o un rallentamento delle operazioni. Nella provincia di Idlib siriani e turchi continuano a spararsi in mezzo ad azioni di guerriglia e attentati. In Libia sono in corso violenti scontri a sud-est di Misurata e le forze di Khalifa Haftar si stanno scontrando con quelle del governo di Tripoli. Haftar sta tentando a Ovest di impadronirsi di Zuara sulla direttrice di terminali di gas dell’Eni a Mellitah. Il governo di Tobruk garantisce che non intende interrompere il flusso del metano nella pipeline verso l’Italia ma quello che sta accadendo in Libia non è un buon viatico per la nuova missione europea Irene destinata a far rispettare l’embargo sulle armi.
Dove non si guerreggia è soltanto perché si teme la diffusione del coronavirus non tra le popolazioni, completamente abbandonate al loro destino, ma tra eserciti e miliziani: quando la pandemia sarà passata serviranno truppe efficienti per regolare i conti.
Certo c’è spazio anche per la diplomazia. Ma sui generis, per fare altre guerre. Il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed bin Zayed e il presidente della Siria Assad si sono messi d’accordo: i Paesi del Golfo stanno riaprendo a Damasco che è entrata nell’asse con la Russia e l’Egitto in appoggio al generale Haftar in Libia. I siriani insieme a Mosca stanno reclutando schiere di miliziani da mandare a combattere per il generale libico e controbilanciare la presenza della Turchia a favore di Tripoli e di Sarraj.
I più dimenticati di tutti sono i profughi: per loro non c’è fine alla sofferenza. E ora sono vulnerabili anche all’epidemia. In Medio Oriente, dalla Siria, allo Yemen, dall’Afghanistan alla Libia, oltre 20-30 milioni di persone ammassate nei campi profughi, all’addiaccio, o in cammino tra deserti e montagne, vivono senza neppure la speranza di raggiungere l’Europa. Loro restano in una perenne “zona rossa”, sospesi tra la vita e la morte. Senza tregua.

la pacchia di essere bambino profugo

 

Frank Zappa a Barcelona, nel 1988

sabato 28 marzo 2020

Scongiurare la catastrofe finale. Che fare, qui ed ora - Carlo Ruta



Dobbiamo prenderne atto: non esistono modelli, perché è mancata la capacità di pensarli in tempo, un attimo prima. Occorre quindi inventarseli, adesso. La storia stessa non offre punti di riferimento chiari. Sarebbe inutile ricercare precedenti nel periodo lungo per trarne lezioni decisive, perché la lotta contro le pestilenze, contro i morbi, fino a qualche secolo fa avveniva con mezzi inadeguati, i numeri degli infettati e dei morti erano immensi, i tempi per il ritorno alla normalità erano lunghissimi, perlopiù di anni, e la conoscenza in campo medico solo tra l’Ottocento e il Novecento ha fatto balzi in avanti decisivi.
Stiamo vivendo in realtà un disastro in progress, e ce ne ricorderemo per sempre. Ma occorre riflettere su quel che ancora è possibile fare per evitare, che in Italia, nel Nord soprattutto, oggi nelle «barricate», si sprofondi ancora. Il nostro Paese, lo si è detto già, non è la Cina, per tanti motivi. E tuttavia il governo italiano, nel vuoto quasi assoluto di punti di riferimento, storici e del presente, ha dovuto ispirarsi, per necessità, a quella esperienza. Dall’Oriente asiatico è arrivato un modello che appariva risolutivo e lo si è adottato. Ma proprio perché l’Italia non è la Cina, questo paradigma operativo si sta rivelando poco applicabile e, soprattutto, non risolutivo. Vi prego allora amici di seguire il mio ragionamento, perché credo che qui stia la chiave di tutto, e soprattutto dell’attuale situazione italiana.
La Cina, che conta circa un miliardo e 300 milioni di abitanti, non ha chiuso l’intero paese, dall’Oceano Pacifico alle frontiere con la Mongolia, a quelle occidentali con India, Pakistan e Kazakistan. Non avrebbe potuto adottare una soluzione del genere perché ne sarebbe derivato il più grande disastro umano della storia. Ha chiuso, ermeticamente, solo una provincia, quella di Hubei, che ha un numero di abitanti pari a quello italiano, e ha fatto tutto ciò nella maniera più determinata e totalizzante, con l’arresto di tutti i settori produttivi, inclusi gran parte di quelli strategici, lasciando attivi solo gli avamposti medici, potenziandoli anche, e pochissimo altro. Ma ciò è potuto avvenire perché nei tre mesi che sono stati necessari alla eradicazione del morbo da quella provincia, l’altra Cina, con i suoi territori immensi, con il suo gigantismo economico e con il suo «restante» miliardo e 250 milioni di abitanti attivi, ha continuato produrre tutto l’occorrente per sé, e, in maniera piena e di fatto solidale, per la provincia immobilizzata. E sta qui la differenza con il nostro Paese.
L’Italia, come qualsiasi altra nazione al mondo, non può chiudere tutto perché collasserebbe dopo due giorni. Ha fatto comunque delle scelte, a gradi. Prima ha creato, con acume e ponderatezza, le zone rosse. Ma quando il timore di un contagio generalizzato ha preso il sopravvento, il Paese intero, dal Brennero alla Sicilia, è diventato di fatto, con decreti di emergenza, zona rossa. Quel che è avvenuto in queste due settimane è tuttavia ben noto: il virus continua ad alimentarsi ed è sempre più virulento. Si comprende allora, ad un esame disilluso dei fatti, che il provvedimento del Governo, pur importante, pur utile per tanti aspetti e perciò comprensibile, non può essere decisivo e conclusivo, anche dopo gli inasprimenti degli ultimi giorni. Per quali motivi?
L’Italia, come ogni altro paese, conta su una serie di settori economici e di attività pubbliche di rilevanza strategica che, anche nelle condizioni estreme, come quelle di una guerra devastante, non possono essere bloccati senza che si determini l’implosione materiale dell’intero sistema, economico, sanitario, sociale e civile. L’ho detto ieri ma è il caso di ribadirlo oggi, in maniera un po’ più argomentata. Non si possono fermare l’industria alimentare, la produzione agricola, l’industria farmaceutica, l’industria dell’elettricità, la gestione delle reti fognarie, la manutenzione degli autoveicoli, il trasporto merci e di passeggeri, il trasporto aereo, il trasporto marittimo, i servizi postali, i servizi di vigilanza, i servizi di pulizia urbana. Non possono essere fermati inoltre: il sistema sanitario, gli organi amministrativi dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, le attività di assistenza pubbliche e private, i corpi armati e i servizi di polizia, il sistema carcerario, i servizi funerari. E si sta parlando, si badi, solo degli ambiti più significativi.
Come si può ben capire, anche in tempo di coronavirus, si tratta di masse enormi di persone, nell’ordine di milioni, che giorno dopo giorno sono chiamati ad espletare le loro funzioni, vitali appunto, che implicano contatti materiali, relazioni, sinergie, scambi. E non può essere evitato, a ben vedere, che da questi milioni di cittadini attivi e cooperanti il morbo continui a penetrare nel vivo dell’Italia, quella che, per decreto, resta barricata in casa. È inutile illuderci: i numeri sono troppo grandi, trattandosi di milioni appunto, perché ciò non accada. Lo si è visto in questi giorni. Nella stragrande maggioranza, questi italiani attivi hanno familiari con cui vivono, madri, mogli, mariti, figli, nonni, nipoti, e in determinate ore del giorno e della notte è naturale che si ritrovino in un focolare domestico. Si evince allora, da tutto ciò, che la chiusura in casa di gran parte della popolazione non basta. Occorre a questo punto altro. Il tempo è sempre più esiguo, e si è già quasi al marasma, come nel racconto dantesco del conte Ugolino, per metterla in metafora, con i padri che rosicchiano i figli.
Dopo quasi un mese di gestione di questa crisi, senza precedenti appunto, manca ancora l’essenziale, dai tamponi alle banali mascherine protettive, a ogni altro presidio sanitario, mentre numerose categorie di malati, per sopperire alla carenza di strutture ospedaliere e di operatori medici e paramedici nelle aree più congestionate dal contagio, vengono lasciati di fatto a sé stessi, spesso senza cura. Quando ci vuole per porre fine a questo caos italiano a cielo aperto? John Rawls diceva che il governo di un paese bene ordinato, cioè civile, è legittimato a concepire la disuguaglianza solo in un caso: quando si tratta di assicurare pienezza di diritti ai più svantaggiati. In Italia, i più svantaggiati in questo momento sono diventati invece gli agnelli sacrificali. E peseranno come macigni nella coscienza di chi aveva e ha il dovere di prevenire e di fare il possibile per scongiurare il peggio.
Che fare, allora, per fuoriuscire da questa situazione apocalittica? Ritengo che possano essere compiuti ancora atti importanti, con la consapevolezza comunque che siamo arrivati davvero all’ultima spiaggia. Anzitutto, credo che sia utile tornare alla differenziazione delle aree, e alla decretazione, per quelle più colpite, nel Nord, dell’arresto di ogni attività. Si lascino operare, in tali province, solo gli avamposti sanitari. Si faccia presto a potenziarli, a moltiplicarli, a porli in sicurezza, e si congelino anche parti dei settori strategici. E, dal momento che è mancata l’azione solidale di altri paesi, che sia l’altra Italia a farsi carico di tutto quel che occorre, attivando in pochissimi giorni un’industria dell’emergenza, nell'Italia centrale e nel Sud in particolare, in cui il contagio non manifesta ancora un andamento parossistico.
Si riattivi in sostanza la vita delle aree del Paese in cui la situazione appare ancora gestibile, perché il blocco rischia di risultare, nel presente e in prospettiva, estremamente dannoso. Qui non si tratta di chiudere, come si sta facendo, ma di riconvertire con urgenza, attivare appunto un’industria straordinaria, di guerra all'infezione, mettendo in campo tutte le energie possibili. E in questo caso sì che la storia offre degli esempi: come quello, davvero luminoso, delle donne di Cartagine, che nel 146 a.C., quando la città nordafricana era allo stremo, all’unisono sacrificarono tutto, perfino i loro capelli, per ricavarne cordame, necessario per la difesa, ormai disperata, delle mura. Non servì a nulla contro gli assedianti di Scipione Emiliano, ma quelle donne ci provarono.
Pensiamo ancora alla resistenza. Pensiamo alla rivolta del Ghetto ebreo di Varsavia. Ricordiamoci dell’Italia del «fischia il vento». Siamo o non siamo i figli e i nipoti di quella generazione? Dimostriamo di esserne degni e ci si muova, subito.
Vanno emergendo prodotti antivirali già in uso che, impiegati nelle terapie contro l’infezione, stanno dando frutti. Sulla base di ciò si istituisca allora, con urgenza, in due-tre giorni, e non di più, un protocollo di cure. Si levi la voce dell’Italia che «sventola sul ponte bandiera bianca», come la Venezia del 1848 di Arnaldo Fusinato, perché si crei, subito, un organismo tecnico internazionale, di scienziati e medici, per l’approntamento di un vaccino in tempi rapidi, possibilmente entro l’estate. Si provveda a dotare l’intero paese di presidi sanitari, subito. Si provveda a sanificare gli ambienti, le scuole, gli uffici pubblici, i luoghi di socializzazione, subito.
Si chiedeva Kennedy se ci fosse un giudice a Berlino. È ora di chiedersi perché in questo momento non si levano a sufficienza voci alte e influenti, come, un tempo, quelle di Bertrand Russell, Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Albert Einstein, Benedetto Croce. Possibile che l’Occidente, che ha creato tutto, che ha inventato tutto, che si è sentito fino ad oggi padrone di tutto, debba votarsi alla catastrofe, morale oltre che materiale? Possibile che l’Italia resti, a fronte di tutto questo, attonita e spaesata?

I tre vuoti da colmare per continuare a fare scuola nell’emergenza - Christian Raimo



Cosa significa fare scuola nell’emergenza? Cosa significa farla a distanza, durante giorni di paura, di dolore, di crisi sociale? Le questioni che riguardano i modi in cui si può e si deve continuare a farla sono molto complesse, e non si possono ridurre a un mero cambiamento di assetto, a una rimodulazione della didattica.
La scuola riguarda tutti, non solo gli studenti e gli insegnanti, e in questi giorni ne abbiamo la dimostrazione: siamo tutti una comunità educante, le nostre azioni e i nostri comportamenti hanno un effetto sulle persone che ci sono vicino, e gli interrogativi su cosa fare e come vivere queste giornate toccano particolarmente chi è più giovane, chi è in via di formazione, chi ha un’identità più malleabile.
Ormai è evidente: quest’epidemia non è una parentesi, per cui si tratta di capire quando e come rientreremo in classe. Non può nemmeno essere considerata un’opportunità per ripensare la didattica digitale. La scuola, come qualunque altra infrastruttura sociale, non era pronta per affrontare una simile evenienza. Ed è normale che viviamo questo tempo come un tempo di crisi.
La scuola è sempre in crisi. Una delle cose che s’imparano standoci è che è impossibile essere infallibili: che lo si voglia o no, stare così a lungo insieme ad altre persone – bambine, bambini e adolescenti – rivela il nostro carattere e le nostre vulnerabilità. Lo spazio della scuola è anche quello dove si elabora questo confronto, dove semplicemente si cresce insieme.
L’importanza dell’ascolto
La discussione che in questi giorni sta tenendo banco tra ministero, associazioni di insegnanti e sindacati – se quella di questi giorni sia scuola o non sia scuola, se la scuola si ferma o se la scuola non si ferma – è forse un dibattito capzioso: tutto dipende da come usiamo questo tempo per l’educazione, mettendo al centro sempre la relazione educativa, che esiste anche quando è complicata, anche quando deve fare a meno della presenza fisica, perfino quando non c’è. I vuoti di relazione tra docenti e studenti, anche tra compagni, sono le esperienze negative che tutti conosciamo: il nostro compito principale è colmarli.
Quello che mostra questa crisi sistemica è soprattutto quello che alla scuola manca tutti i giorni, quello che manca nella “normalità”. E quindi se è impensabile ragionare su come ovviare ai problemi della scuola nell’emergenza, si può invece riconoscere insieme come affrontare le mancanze, per ora e per dopo.
La prima mancanza è quella di una scuola che si occupi dell’educazione emotiva e sentimentale. Le richieste che vengono dagli studenti in questi giorni sono soprattutto richieste di ascolto. Gli insegnanti e le classi devono essere capaci d’intercettare questa richiesta; e questo non vale solo per l’emergenza di una pandemia, ma per il quotidiano andamento della vita scolastica. Vuol dire ricordare che si fa scuola sempre all’interno di una comunità e di un mondo che cambiano, con le problematiche gigantesche e i piccoli avvenimenti che colpiscono la classe. Bisogna sempre trovare il tempo per parlarne, mantenendo un difficile equilibrio: senza pensare che i programmi da seguire vengono prima di tutto e senza lasciare che tutto sia stravolto. I rischi opposti, anche nel contesto educativo, sono la rimozione e la saturazione.
Questo bisogno diffuso, che riguarda ovviamente anche gli adulti, dimostra quanto sia necessaria una formazione psicologica degli insegnanti, sia al momento della selezione sia durante il percorso professionale. E conferma che per i docenti e per gli studenti è indispensabile avere figure di riferimento per il sostegno psicologico, anche all’interno della scuola. Queste figure esistono, ma sono poche e spesso fantomatiche. Il grande lavoro di cura che chiediamo agli insegnanti – e di cui sono tenuti a farsi carico – dev’essere un lavoro di qualità, che non può contare solo sull’iniziativa o sulle attitudini individuali.

Disuguaglianze
La seconda mancanza evidenziata dalla crisi è quella di un’educazione che tenga conto delle disuguaglianze sostanziali tra le famiglie degli studenti. Chi ha genitori che riescono a seguire i figli nei compiti e chi no, chi ha a disposizione un computer e chi no, chi ha una stanza tutta per sé e chi no, chi ha una connessione decente e chi no, chi ha molti libri a casa e chi no. Le mattine in classe riducono e in parte nascondono queste disparità, che sono invece tangibili e appaiono ancora più evidenti in questi giorni in cui le webcam – di chi ce l’ha – sono puntate sulle camerette.
In Italia il digital divide è drammatico: come ricorda anche Franco Lorenzoni, nel 2019 solo il 76,1 per cento delle famiglie aveva accesso a internet e il 74,7 per cento aveva una connessione a banda larga. Nelle aree metropolitane quest’ultimo dato sale al 78,1 per cento, mentre nei comuni sotto i duemila abitanti scende al 68 per cento. Questa è una carenza che intacca i diritti costituzionali minimi, anche al di fuori dell’emergenza.
I gestori di telefonia e internet hanno investito sempre più sul mobile e sempre meno sul fisso (ogni anno vengono disdetti milioni di contratti di linea a casa). È vero che oggi la maggior parte degli italiani possiede almeno uno smartphone, ma non è uno strumento che può essere usato adeguatamente per la didattica. Lo sintetizzava bene Massimo Mantellini in un recente articolo sul Post:
Serviranno linee fisse veloci (e se possibile simmetriche) nelle case dei cittadini e device di accesso alla rete idonei alla complessità del mondo. (…) La cultura digitale non si fa utilizzando come infrastruttura cognitiva una connessione 4G e uno smartphone da 6 pollici.
Si poteva fare un accordo nazionale con gli operatori per portare la banda larga nelle scuole. Oggi sull’ultimo tratto c’è concorrenza tra Tim e Openfiber, e solo la settimana scorsa si è cominciato a parlare di una possibile joint venture tra le due aziende.

Un’infrastruttura debole
La terza mancanza, molto profonda, riguarda i contenuti digitali, sia pedagogici sia disciplinari. In questi giorni il ministero sta pubblicizzando iniziative sparse e risorse digitali varie, compreso un canale Telegram che ha come hashtag #Lascuolanonsiferma. Il coordinamento è stato affidato soprattutto all’Istituto nazionale per l’innovazione e la ricerca educativa (Indire).
Le molte risorse che stanno emergendo, però, rivelano soprattutto le carenze sistemiche. Le piattaforme digitali sono spesso frutto dell’iniziativa di startup piuttosto che di movimenti pedagogici o di associazioni di insegnanti. L’offerta pubblicizzata dal ministero è esigua e non strutturata.
Anche questo non è un caso, ma il risultato di un’idea di autonomia scolastica che ha di fatto liquidato la programmazione sistemica. Il documento del Miur che raccoglie le prime indicazioni operative sulle attività di didattica a distanza, redatto da Marco Bruschi, capo dipartimento del ministero, è molto chiaro, condivisibile e pieno di buone intenzioni. Allo stesso tempo, però, mostra come il ministero stesso sia un’infrastruttura debole, capace più di orientare, suggerire e proporre che di programmare e offrire soluzioni, per quanto temporanee.
C’è un’ultima questione, che riguarda il ruolo e i metodi degli insegnanti. Oggi siamo nell’emergenza, e cosa vuol dire insegnare nell’emergenza nessuno lo sa. Sicuramente però vuol dire starci, non sottrarsi a un compito difficile ma in questo momento importantissimo. Per svolgerlo bisogna cambiare certe abitudini che sembrano inveterate nella scuola italiana: lezioni frontali, didattica trasmissiva, compiti assegnati senza una reale valutazione, abuso della funzione del voto.
Nelle condizioni difficilissime di questi giorni, chi insegna è un po’ più fortunato: può lavorare da casa, può mantenere relazioni significative con la sua classe anche a distanza, continua a ricevere lo stipendio, anche se è uno stipendio basso. Tuttavia, fare scuola non è solo mantenere la rotta nella tempesta, ma un grande dovere professionale.
Nell’ultimo contratto collettivo si dice che “il profilo professionale dei docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica”. Gli insegnanti devono pensare di essere all’altezza del compito che gli è stato assegnato.
Le rivendicazioni di tipo corporativo dei sindacati non sono utili in quest’emergenza: non serve essere insegnanti missionari, ma inventivi e generosi sì, e questo vale per tutti i giorni di scuola.