Vi voglio
raccontare una storia, alla fine capirete il perché. Se non avete voglia di
leggerla andate direttamente alla fine, dove troverete la richiesta di una
firma poi, forse, tornerete indietro.
C’era una
volta a Roma, costruito a 120 metri s.l.m. sotto il Gianicolo e sopra
Trastevere, in una zona allora piena di verde, un magnifico ospedale. Era bello
anche architettonicamente, ricco di sale con magnifici pavimenti e ampie
vetrate, oltre che di stanze per i malati con veranda esposta al sole e poi
giardini e giardinetti con alberi ad alto fusto che miglioravano la qualità
dell’aria, già considerata buona all’epoca della sua costruzione. Era destinato
alla cura delle malattie polmonari. Era l’ospedale Forlanini. Un’eccellenza
sacrificata agli F35 e non solo.
Chi scrive
ha esperienze dirette di quell’ospedale. Dirette e ottime, al contrario di
altre strutture sanitarie come, ad esempio, un altro ospedale romano in cui fu
praticamente ucciso, o se volete “lasciato morire” in modo assolutamente
disumano il proprio padre, come raccontò anche un importante quotidiano (La
Repubblica) come caso “ordinario” di malasanità.
Ma parliamo
del Forlanini. Ai tempi in cui si affermava “Medicina democratica”, tempi
antropologicamente lontani più di quanto non lo siano gli anni effettivamente
trascorsi da allora ad oggi, mi trovai a frequentare quell’ospedale perché un
familiare fu ricoverato lì per cancro ai polmoni. Ero molto giovane allora,
avevo una ventina d’anni e seguivo all’Università dei seminari sulle strutture
chiuse, quindi quando scoprii che un nucleo di medici e psicologi aveva dato
vita insieme ai pazienti a laboratori teatrali interni
all’ospedale, a circoli di lettura ed altre simili iniziative che restituivano
ai pazienti quella dignità umana che spesso si perde diventando solo il
paziente numero x, pensai che finalmente Psichiatria democratica, Medicina
democratica e tutto quel che di democratico nel significato pieno e nobile del
termine si affermava allora avrebbe avuto la capacità di cambiare davvero in
meglio l’Italia. Erano gli “70, quelli che vengono ricordati sempre come anni
di piombo e mai, purtroppo, come anni di vera crescita culturale e sociale.
Molte cose
nate in quegli anni col tempo sono rimaste parole ripetute a vuoto, ma allora
non era così. Per esempio il primario del reparto in cui era stato ricoverato
il mio congiunto era uno che gratuitamente si recava a far
visita ai malati terminali, dimessi su richiesta dei famigliari affinché
morissero in casa. La sua visita aiutava la famiglia in quelle ore di
angoscia in attesa della morte imminente e forniva indicazioni capaci di
alleviare il dolore fisico del malato e contestualmente di sostenere
psicologicamente lui e chi gli era vicino.
Circa dieci
anni dopo ebbi un’altra esperienza in quell’ospedale. Vi sembrerà incredibile,
ma fu un’esperienza divertente, addirittura bella, tanto da farmi pensare ad
alcune scene del film “Una breve vacanza” con una superba Florinda Bolkan come
protagonista. Stavolta la paziente era mia madre. Mia madre
era una donna di ferro, aveva una capacità anormale di resistere a tutto e
questo ne faceva una sorta di colonna alla quale tutti potevano appoggiarsi e
trovare sostegno. Ma questo significava anche dar poco spazio a se stessa e
quando un giorno, a causa di una tosse micidiale che la tormentava da anni e di
cui non si conosceva l’origine, fu ricoverata per ricerche al Forlanini, si
trovò affidata a una dottoressa che si prese cura di lei dicendole esattamente
queste parole: “Signora, lei da qui non uscirà finché non le avremo tolto
questo tormento. Mi prenderò cura direttamente io di studiare il suo caso e
sarò a sua completa disposizione”. Poi fu mandata in una stanza con
altre 4 donne.
Mia madre
era molto scettica ed era convinta che avrebbe passato qualche giorno
deprimente in quello che una volta era il “sanatorio di Roma”. La confortava
solo il fatto che i tanti giardini con panchine in cui sedersi per
chiacchierare o leggere le avrebbero dato un minimo di piacere. Perché una cosa
su cui pochi riflettono, ma che per fortuna da qualcuno, per esempio Gino
Strada, è molto ben considerata è la bellezza come aspetto collaterale
della cura. Ma non immaginava, mia madre, che quel suo mese di ricovero in
ospedale per ricerche sul suo ormai pluriennale tossire senza causa
sarebbe stata una vera vacanza insieme a una decina di altre donne, alcune
giovanissime, alcune adulte e altre anziane, tra le quali c’erano anche malate
terminali che per una strana alchimia sociale erano diventate amiche e
passavano la maggior parte delle ore di sole in giardino, ordinando pizze e
bibite attraverso le inferriate anche nelle ore di chiusura al pubblico e
divertendosi come fossero ragazzine scapestrate raccontandosi le loro storie di
vita.
In questo
modo hanno accompagnato con dolcezza e perfino allegria una di loro di soli
trent’anni che stava chiudendo la sua vita, piangendo poi a dirotto per il
dolore di averla perduta. Le pazienti dimesse tornavano a trovare le altre
portando dolci sia per il personale sanitario che per le amiche ancora
ricoverate e insieme tornavano in giardino a chiacchierare, ridere, qualche
volta piangere quando si scopriva che un’altra di loro non ce l’avrebbe
fatta.
Quando mia
madre uscì dal Forlanini fu una parziale sconfitta per la dottoressa che
l’aveva presa in cura perché la causa della sua tosse non riuscì a trovarla
e riuscì solo a ridurne l’intensità. Ma per mia madre quel periodo in
ospedale restò sempre come il ricordo di una vacanza. Quello era
l’ospedale Forlanini, un’eccellenza la cui chiusura nel 2015 fu considerata dal
prof. Massimo Martelli, primario in quell’ospedale, “un peccato mortale”.
Si disse che
chiudere il Forlanini avrebbe comportato il risparmio di 13 milioni
l’anno. Questo non voglio neanche metterlo in dubbio, ma anche evitare di
mangiare porterebbe il risparmio di una bella cifra mensile per chi facesse
questa scelta. Il problema è solo nel chiedersi a quali conseguenze portano
scelte simili, ovviamente prendendo il considerazione le ricadute
sulla collettività.
Se il
problema fosse solo quello di risparmiare, si potrebbe fare il confronto col
costo di un solo F35 e scoprire che equivale più o meno a dieci anni di vita del
Forlanini. Ma mentre
l’F35, se non utilizzato è solo una scelta politica (che grava comunque sulla
società) e se utilizzato porta la morte, il Forlanini se non utilizzato si
degraderà fino ad essere acquistato da qualche privato che ne farà magari una
SPA, mentre se utilizzato porterebbe ad innalzare la speranza di vita di
migliaia di persone avendo ben 3.000 posti letto, che in questo
periodo, sotto l’incubo della Covid19, arriverebbero come manna dal cielo.
Possibile
che in nome del “senso di responsabilità”, nuova formula chiave per far
accettare ogni limitazione della libertà personale, anche se giusta sul
piano sanitario, escludendo al momento altre letture sul piano sociale, non si
riesca a fare i conti con l’importanza delle strutture sanitarie pubbliche che
vanno potenziate e non demolite? Gli ospedali di Milano denunciano la
scarsità degli strumenti nelle sale di rianimazione e questo costringe i medici
a un doloroso triage sulle persone da intubare e alle quali
applicare la ventilazione artificiale.
Possibile
che non si faccia il conto di quanti strumenti di ventilazione
sanitaria (che è un salvavita) potrebbero essere acquistati al costo di un solo
F35? E mi limito a questo.
Possibile
che solo cercando col lanternino si riescano a scovare articoli che ricordano
che in dieci anni, in nome del virus mondiale del neo-liberismo, sono
stati tagliati 37 miliardi alla sanità pubblica con perdita
di 70mila posti letto e chiusura di 359 reparti in vari ospedali, tra cui
il Forlanini?
Tutto questo
bene o male si sa e allora viene spontaneo chiedersi perché mai non si proceda
immediatamente all’acquisto di strumenti salvavita, che al momento sono
importanti almeno quanto il tentativo di fermare il contagio e non hanno costi
proibitivi?
Non è questo
il momento di attaccare il governo per le sue scelte, anche se non condivise –
questo lo lasciamo fare agli sciacalli di mestiere – ma possiamo lanciare
una petizione affinché si distolgano immediatamente fondi dal settore
militare per destinarli all’emergenza sanitaria e salvare davvero
quelle centinaia di vite che seppur cariche di anni potrebbero concludersi in
altro modo e non per mancanza di strumenti per contrastare l’effetto del virus.
Intanto
invitiamo a dare un segnale firmando la petizione per riaprire l’ospedale Carlo
Forlanini, il “sanatorio di Roma” che porta il nome del medico al quale
si deve – tra le altre – la scoperta del “pneumotorace artificiale” che
guarì migliaia e migliaia di tubercolotici quasi cinquant’anni prima
che Fleming scoprisse la penicillina. Di petizioni ne sono state lanciate
diverse, alcune anche da chi, per scelta di partito, tende a privatizzare tutto
il privatizzabile, ma noi vi proponiamo di firmare questa http://chng.it/PPyFnwCVwG con la
speranza che tra i tanti danni che sta producendo, diretti o indotti, il nuovo
coronavirus possa anche portare consapevolezza circa un’inversione di rotta a
favore del bene comune.
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