Nessuno si
senta escluso. Questa potrebbe essere, a un primo sguardo, la chiave di lettura
della situazione del tutto straordinaria che si sta delineando per il
diffondersi del contagio del virus Covid-19. Quale aspetto della nostra
esistenza non è infatti toccato dalle drastiche misure, proprie di uno stato
d'eccezione, che il governo sta aggiornando quasi di ora in ora?
Tra le
risoluzioni che, da subito, hanno suscitato maggior scalpore e che, ancora,
stanno stimolando la discussione vi è l'interruzione delle normali attività
didattiche nelle scuole “di ogni ordine e grado”.
La
sospensione della didattica è stata immediatamente accompagnata dall'invito a
sostituire le lezioni tradizionali con forme di apprendimento a distanza. Nel
giro di pochi giorni l'invito si è trasformato in obbligo. Non è superfluo
segnalarne il fondamento normativo. Nelle prime disposizioni urgenti si leggeva
l'espressione “i dirigenti scolastici […] possono attivare, sentito il collegio
docenti […] modalità di didattica a distanza”. Il DPCM del 4 marzo 2020 recita
semplicemente: “i dirigenti scolastici attivano modalità di didattica a
distanza”. Dalla possibilità si passa alla perentorietà, eliminando il coinvolgimento
degli organi collegiali che sarebbero gli unici titolari del sovrano potere
deliberativo in termini di scelte didattiche.
La
disposizione ha, indubbiamente, alcuni scopi espliciti: salvaguardare
un'apparenza di normalità nell'eccezionalità (insomma, la scuola non si ferma)
e fare in modo che l'anno scolastico conservi la sua validità. Ciò che si sta
dibattendo sui mezzi di informazione sono però le conseguenze implicite del
provvedimento. Quella a cui stiamo assistendo per la scuola è una misura straordinaria
o è invece lo scorcio che permette di intravedere il futuro dell'istituzione
scolastica?
Un'accelerazione
senza precedenti
L'emergenza
ha raggiunto un obiettivo che tutte le precedenti (e contestate) riforme della
scuola avevano mancato: esautorare il collegio docenti dal ruolo sovrano sulle
scelte didattiche. È bene sottolinearlo, perché, prima o poi, alla normalità si
tornerà. Ed è giusto chiedersi quanto l'eccezionale sia in grado di influenzare
la normalità di domani.
Non si può
certo dire che la discussione sugli orizzonti pedagogici e sulle pratiche
didattiche sia, allo stato attuale, particolarmente articolata, anzi su questo
tema non esiste un vero dibattito a livello nazionale. Eppure è una questione
centrale attorno cui si articola il presupposto della libertà d'insegnamento.
L'emergenza ci sta mostrando che specifiche modalità di far lezione possono
essere decise in forma “decretizia” e poi declinate attraverso le disposizioni
dei dirigenti scolastici. Potrebbe essere questo il prossimo banco di prova per
valutare lo stato di salute della democrazia nella scuola.
Che sia in
corso un'accelerazione senza precedenti è però evidente agli occhi di tutti. La
Regione Piemonte, ad esempio, a quanto si legge, stanzierà 33 milioni di euro
per potenziare i servizi digitali delle scuole. Non sono un'inezia, in un
territorio in cui l'amministrazione voleva, fino a pochi mesi fa, dimezzare le
borse di studio. In tempi di normalità, a fronte di un investimento del genere,
ci sarebbe stata una discussione approfondita, in tempi eccezionali nessuno
batte ciglio.
Sulle
testate giornalistiche si leggono quotidianamente resoconti di esperienze di
apprendimento a distanza. Le critiche e gli entusiasmi si alternano, ma c'è
anche chi non riesce a trattenere sentenze di taglio quasi darwinistico. È il
caso di Sara Roversi sul “Sole24ore”: «Naturalmente non tutti si sono fatti
trovare pronti e chi arranca per mettere in piedi un sistema di “classi
virtuali” come cita il decreto ministeriale di questi ultimi giorni, lascia
indietro il futuro e certifica di non saper cogliere alcuna opportunità, nella
difficoltà.»
I toni più
sfacciati hanno talora il merito di svelare pienamente quale si pensa sia la
posta in gioco: il futuro sarà davvero fatto di classi virtuali e di istituti
scolastici in gara tra loro nell'innovazione come se fossero start-up?
Riscrivere
la normalità
Foucault ci
ha descritto la storia della modernità occidentale come un continuo
esperimento, in cui il rincorrersi degli stati di eccezione ha permesso di
riscrivere continuamente la “grammatica della normalità”. Anche l'accelerazione
imposta dall'emergenza alla questione della didattica a distanza e dell'uso del
digitale nella scuola potrebbe avere conseguenze sulla riscrittura della
normalità.
Vale allora
la pena interrogarsi seriamente, senza cedere al misoneismo, sulle implicazioni
pedagogiche e sulla ricaduta didattica del digitale. Si fatica a ricordare un
ministro – tra i sette che si sono susseguiti negli ultimi otto anni – che
abbia affiancato qualche blanda critica alla continua celebrazione
dell'innovazione tecnologica in ambito educativo. Non stupisce. È sufficiente
un'occhiata ai protocolli degli accordi che il ministero ha siglato negli
ultimi anni per accorgersi quali sono gli interessi lobbistici in campo:
Microsoft, Google, Samsung, Epson, Hp, Fastweb, Tim. E l'elenco potrebbe
continuare.
Se davvero
la crisi fosse un evento rivelatore o addirittura un'opportunità per ripensare
il nostro modo di vivere, come molti autorevolmente affermano, allora potrebbe
essere anche il caso di sollevare il problema dell'invisibile, ma pervasivo,
processo di privatizzazione della scuola pubblica. Qualcuno la definisce una
privatizzazione molecolare: istituto dopo istituto, le grandi imprese private
entrano nella scuola italiana per trarne profitto.
In molti si
affannano a dirci che non esiste alcuna prospettiva di “dematerializzazione”
della scuola così come la conosciamo: il rapporto umano tra docente e allievo
non è, almeno per ora, in discussione. Sussiste però la retorica del “mito
digitale”, secondo la quale qualunque innovazione informatica non può che far
bene all'apprendimento. Eppure gli studi che si occupano della questione da
qualche anno ci stanno mostrando il lato oscuro del digitale, come fanno, con
prospettive e punti di osservazione diversi, il neuropsichiatra M. Spitzer nel
suo Demenza digitale (2013) o lo storico della scuola A.
Scotto Di Luzio in Senza educazione. I rischi della scuola 2.0.
Che poi la
maggior parte dei tools della scuola digitale siano funzionali
a un'idea ben precisa dell'istruzione – quella fondata sul paradigma
intoccabile delle “competenze” e sul desolante concetto di “capitale umano” – è
stato discusso in molte sedi. È facile scorgere in questo ciò che Roberta Calvano
ha individuato come “l'opera di surrettizio svuotamento e torsione del
contenuto dell'istruzione conducendolo in una direzione diversa da quella
immaginata dai costituenti” (R. Calvano, Scuola e Costituzione, tra
autonomie e mercato, Ediesse, 2019 p. 165).
L'introduzione
di “ambienti di apprendimento virtuali” standardizzati potrebbe essere un
limite cogente alla possibilità di adottare approcci pedagogici diversificati
all'interno del corpo docente di una scuola. Ciò che dovrebbe essere garantito
dalla Costituzione e dalle norme che ne derivano diventerebbe impossibile
tecnicamente, perché si scontrerebbe con le rigidità del dispositivo adottato.
Divari di
classe e divari digitali
In una
recente e preziosa pubblicazione, intitolata Più scuola per tutte e
tutti (Edizioni Gruppo Abele, 2019), Chiara Acciarini e
Alba Sasso hanno ricordato che, dati alla mano, la scuola pubblica italiana
continua ad avere un enorme problema relativo alle divisioni di classe.
L'ambiente sociale di appartenenza continua a pregiudicare in maniera
significativa le possibilità di successo scolastico. In sostanza chi proviene
da un contesto culturale più povero difficilmente trova a scuola il modo di
emanciparsi. L'istruzione cessa di essere uno strumento di emancipazione, ma replica
la struttura sociale esistente.
Bisogna
tenere a mente che la scuola in cui si vorrebbe procedere speditamente con la
digitalizzazione è quella in cui esiste una crescente divaricazione dei livelli
di apprendimento. Negli istituti del primo ciclo, il gap si
modula sulla base della dislocazione geografica, nella secondaria di secondo
grado si definisce spesso a seconda dell'indirizzo di studio. Siamo sicuri che
la digitalizzazione, sempre che non si riduca a un semplice vernissage informatico,
non inciderebbe ulteriormente in questa divaricazione? Ma anche ammesso che
l'innovazione tecnologica e i modelli di apprendimento a trazione digitale
possano davvero ridurre, in astratto, questi gap – possibilità
che alcuni, come Marco Gui (Il digitale a scuola. Rivoluzione o
abbaglio?, Il Mulino, 2019), mettono in discussione – esiste comunque
il digital divide degli strumenti materiali.
Lo stiamo
vedendo in questi giorni di eccezionalità: la scuola 2.0 agisce in linea con
quanto, in altri settori, fa il capitalismo dell'era digitale. Scarica sul
lavoratore, sull'utente e ora sullo studente i costi intermedi: come il rider
che consegna il cibo a domicilio è costretto a utilizzare il proprio personale
dispositivo, così lo studente che usufruisce della didattica a distanza deve
servirsi del proprio smartphone o del proprio computer (sempre che ne abbia uno
tutto suo). Come può garantire l'uguaglianza una scuola che si lava le mani
delle possibilità che gli studenti possano davvero avere accesso al servizio
erogato? La qualità della connessione a internet, il livello tecnologico dei
singoli dispositivi e le possibilità di avvalersi di specifiche app o software
evidenzieranno le fratture tra le classi sociali e spingeranno le marginalità
nell'angolo. Dopo tanto parlare di inclusione a scuola, benvenuti nella scuola
dell'esclusione.
Moriremo
tutti googleiani?
Senza che si
sia mai combattuta una reale battaglia, il lascito più perverso dell'emergenza
potrebbe essere la resa senza condizioni della scuola all'economia dei big
data. In generale, la consapevolezza dei docenti riguardo alla questione è
piuttosto scarsa. Non vi è una diffusa coscienza che la maggior parte delle
piattaforme on line che ogni giorno utilizziamo estraggono valore profilando i
nostri comportamenti. Ciò che ci appare gratuito ha il prezzo di miliardi e
miliardi di gigabite che cediamo affinché si affini la
progettazione di algoritmi, app e pervasivi dispositivi che fanno il profitto
dei grandi colossi economici del pianeta. Non è certo incidentale che siano
questi stessi dispositivi a normalizzare, disciplinare e sorvegliare i nostri
comportamenti.
Da tempo
molte scuole hanno imposto a docenti e ad allievi di dotarsi di un account
Google per poter accedere ai servizi digitali come la Suite di Google for
Educations. Oggi, in nome dell'emergenza molti altri istituti stanno facendo lo
stesso, per di più senza che sia possibile, per le eccezionali misure di
precauzione sanitaria in atto, convocare i collegi docenti o le riunioni con i
genitori. Nulla che non accadesse già, potrebbe obiettare qualcuno. La
differenza è che ora sta succedendo in modo massivo, improvviso e, spesso,
senza minimamente badare a quanto è previsto dal GDPR del 2018 riguardo al
trattamento e alla libera circolazione dei dati (per di più di soggetti
minori). Vogliamo davvero che siano Google o altri colossi a tracciare le
future linee guida della scuola italiana? Bisognerebbe almeno essere
consapevoli che stiamo vendendo la profilazione dei comportamenti digitali
degli studenti alle più ricche aziende del pianeta. Su questo tema alcuni
Länder tedeschi hanno posto severi vincoli ai sistemi d'istruzione della
propria amministrazione: gli istituti non possono servirsi di Google e di
Microsoft perché i loro applicativi non rispettano gli standard di sicurezza
dei dati.
C'è chi
continua ad affermare che gli strumenti tecnologici sono neutri e che tutto
dipende dall'uso che se ne fa. Se non fossero bastati decenni di convergenza
filosofica sul tema che la tecnica non è mai neutra in sé, si potrebbero
spendere due parole per riflettere su cos'è Google.
Lo
“google-sfera” non è certo neutra: la spiccata attitudine da panopticon pervasivo
che connota il più grande colosso della rete dovrebbe inquietare i sonni anche
dei più arditi sostenitori dell'innovazione. Non possono essere neutre nemmeno
le piattaforme di apprendimento digitale che condividono il paradigma dell'uomo
e della donna a una dimensione, da formare sulle esigenze dell'unica
razionalità che pare possibile a chi le ha progettate, quella del mercato. Non
sono strumenti neutri perché colonizzano il nostro immaginario rendendoci
prigionieri di una realtà che non ammette altro che la riproduzione di se
stessa.
Se passasse
davvero una resa senza condizioni a questo processo di privatizzazione
molecolare della scuola, ciò che da anni, finanziando progetti pilota detti “di
eccellenza”, hanno fatto le Fondazioni Bancarie – cioè promuovere una didattica
funzionale ad assecondare l'ordine del discorso dominante – decollerebbe in
modo massiccio su tutto il territorio. Non è un'allarmistica esagerazione. È
l'abbandono dell'uso pubblico della ragione a vantaggio
dell'interesse privato. Tutto questo potrebbe avvenire senza annunci eclatanti,
ma scuola per scuola, oggi con in testa l'elmetto dell'emergenza, domani
cantando il peana dell'innovazione.
Viene da
chiedersi se, superata la cornice dell'eccezionalità, gli insegnanti
riusciranno a riappropriarsi delle prerogative di autonomia, libertà e funzione
sociale indispensabili per essere protagonisti delle trasformazioni che ci
attendono.
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