Quanti posti letto sono stati tagliati negli ospedali italiani dal 1980 a oggi? - Stefano Colombo
Nel 1980 i posti per casi acuti
erano 922 ogni 100.000 abitanti, oggi
sono 275. Quarant’anni di tagli al sistema sanitario, tra mergermania e blocco del
turnover, ci hanno lasciati completamente impreparati all’arrivo del nuovo
coronavirus.
L’ospedale San Carlo si trova nella periferia
Ovest di Milano, tra il quartiere di Baggio e quello di San Siro. La sua mole
imponente è riconoscibile anche a distanza, dallo stadio, e tutti coloro che ci
sono andati per vedere almeno una partita probabilmente ne hanno apprezzato il
grigiore. Il San Carlo è dedicato a San Carlo Borromeo, e da anni necessita
ristrutturazione. La struttura, secondo quanto riportato ormai nel 2015, avrebbe
bisogno di lavori per circa 120 milioni di euro.
L’ospedale San Paolo si trova nella periferia
Sud di Milano, tra il quartiere Barona e la Stadera. Anche la sua mole non è
affatto disprezzabile, e lo si può vedere vicino all’autostrada A7 quando si
lascia Milano per la Liguria, in genere per andare al mare. Il San Paolo è
dedicato, come prevedibile, al noto santo cristiano, ed è un importante polo di
formazione universitaria del milanese.
Dall’unione dell’ospedale San Paolo con
l’ospedale San Carlo dovrebbe nascere l’ospedale Santi Pietro e Carlo, collocato a metà
strada tra le due strutture — quindi in una zona vicina a San Cristoforo sul
naviglio — per cui la regione Lombardia ha deciso che verranno investiti 450
milioni di euro da parte del governo. L’assessore regionale alla salute
Gallera, che abbiamo imparato a conoscere a questi giorni, ai cittadini
preoccupati per un eventuale chiusura del San Carlo — che non vale la pena
spendere troppi soldi per ristrutturare, dai — ha detto di stare tranquilli:
non ci si sbilancia troppo, ma la struttura continuerà ad essere in uso “per
trattare le cronicità.”
Il Comitato di difesa della Sanità
Pubblica-Milano città Metropolitana del Sud Ovest ha diffuso un appello su Change.org contro il gioco delle tre
carte della regione, che punta ad aprire un ospedale all’avanguardia per chiuderne altri due.
“Lorsignori programmano la
chiusura di due ospedali, li lasciano marcire senza usare i 90 milioni
stanziati da anni, per aprirne uno con 200 posti letto in meno, spendendo 500
milioni di € pubblici e distruggendo un altro pezzo di verde nel parco sud
Milano.
Siccome i soldi pubblici non
basteranno, li chiederanno ai privati che in cambio avranno la garanzia della
restituzione con super interessi.
L’operazione verrà poi
confezionata con la ”eccellenza della sanità lombarda” per farsi belli nelle
cronache dei telegiornali, mentre nel frattempo noi, persone comuni, resteremo
ad aspettare cure e assistenza che ticket e liste di attesa crescenti renderanno
sempre meno disponibili. Questo ingrasserà i privati che,prima di essere
medici, sono imprenditori assetati di profitto.”
* * *
Questo prima che l’epidemia di nuovo
coronavirus si abbattesse sul sistema sanitario lombardo. È presto per dire
cosa succederà dopo che il peggio sarà passato, ed è anche difficile provare a
concentrarsi con chiarezza su quanto sta succedendo oggi, tra il dolore per le
vittime e l’impatto devastante della quarantena. Si può però provare a capire
come si è arrivati a una situazione in cui nella regione più ricca d’Italia e
tra le più ricche d’Europa si muore perché non ci sono abbastanza respiratori per tutti —
e tra le soluzioni inizialmente proposte e messe in pratica c’è stato
l’acquisto di “fantascientifici caschi respiratori.”
Il sistema sanitario lombardo negli ultimi
vent’anni ha privilegiato l’impresa privata rispetto al servizio pubblico. In
tempo “di pace” questo ha significato soprattutto una crescente disparità nella
possibilità dei cittadini di accedere alle cure. In tempo “di guerra,” ha
significato che potrebbero essere state perse molte più vite di quanto si
sarebbe potuto evitare con una sanità efficiente e non sabotata.
In questi giorni è emersa con particolare
forza soprattutto la mancanza effettiva di posti letto in cui ricoverare i
malati che presentano i sintomi più gravi della Covid-19, e che necessitano
dunque delle cure nel reparto di terapia intensiva. Come riportato da il
Messaggero, il coordinatore dell’unità di crisi della
regione, Antonio Pesenti, ha dichiarato che “Si fanno delle scelte, ma ciò fa
parte della disciplina del trattamento nei casi di catastrofe. Se al pronto
soccorso in una notte arrivano 50 persone da intubare e servono 50 ventilatori,
e in quel momento non ci sono, il medico fa delle scelte.”
Continua a leggere l’articolo
su The Submarine.
Sanità, meno
risorse al pubblico, più favori ai privati e ora il virus ci presenta il conto – Simone Siliani
Con il progredire del contagio da Corona Virus di
questi giorni, aumentano le preoccupazioni per la tenuta del nostro Sistema
Sanitario Nazionale (di cui celebriamo quest’anno il 40° compleanno). Cioè, ci
rendiamo conto, improvvisamente, di fronte ad una crisi certo eccezionale (ma a
queste devono far fronte i sistemi di protezione, sanitaria come idrogeologico
o sismico), che questo sistema così come oggi è configurato, non è in grado di
assicurare un servizio universalistico di
tutela forse del più sacro dei beni comuni,
cioè la salute pubblica. L’epicentro di
questa crisi si colloca non in uno dei territori in cui la qualità del sistema
sanitario è, secondo i Livelli essenziali di assistenza (LEA), al di sotto del
punteggio minimo accettabile, bensì in uno dei più eccellenti, tanto da essere
definito un “modello” (Lombardia o Veneto). Possiamo immaginare cosa potrà
succedere quando e se saranno colpite con la stessa intensità le Regioni del
sud. Ma la fragilità del nostro Sistema Sanitario Nazionale davanti alla crisi
non è come una delle dieci piaghe d’Egitto mandate dal Signore per punire il
popolo egizio: è piuttosto uno degli esiti di almeno 20 anni di rimodellamento
e riduzione del sistema. Un esito ampiamente prevedibile e previsto; grave ma,
forse, non irreversibile. Purché ci si predisponga a riflettere sulle lezioni
che questa crisi ci consegna. Propongo in tal senso di assumere la lectio corretta
dell’esegesi biblica per cui solo la prima delle 10 piaghe è definita tale,
mentre le altre nove sono dette «prodigi» o «segni». Accogliamo dunque i segni
che ci può lasciare questa crisi.
Numeri che dicono tutto
Numeri. L’Italia ha ridotto progressivamente dal 1997
al 2015 il numero dei posti letto per i casi acuti e la
terapia intensiva del 51%, passando da 575 ogni 100 mila abitanti
ai 275 attuali. Infatti, per correre ai ripari (ma direi con colpevole
ritardo), si è dovuto fare una gara-lampo della Consip per dotarsi di 1.100
nuovi posti letto nelle terapie intensive e sub intensive italiane. Entro 3 giorni
saranno consegnati 119 ventilatori, 200 tra 4 e 7 giorni e 886 tra 8 e 15
giorni. Per altri 2.713, che consentono l’allestimento di altrettanti posti
letto, la consegna è prevista tra 16 e 45 giorni. Così ci informa un’ANSA del
10 marzo.
I fondi per gli investimenti sanitari fra il 2014 e il
2017 hanno subito una drastica riduzione del
42% che, come dichiara la Corte dei Conti, comporta il rischio di …riverberarsi
sulle possibilità di garantire i livelli di assistenza e sulla qualità dei
servizi offerti”. Il nostro patrimonio tecnologico, per quanto dotato
di attrezzature, è obsoleto, mal distribuito e ha un livello di utilizzo pari a
circa il 25% di altri paesi UE.
La spesa sanitaria italiana è prevista per il 6,5%
del PIL nei prossimi anni, quando era il 7,1% nel 2009;
in Germania è al 9,6%, in Francia al 9,5%.
Fra il 2009 e il 2017 il nostro Sistema Sanitario
Nazionale ha perso 46.000 unità di
personale dipendente (-6,7%): fra questi 8.000 medici (che oggi hanno una età
media talmente alta da far prevedere un collocamento in pensione di 2 medici
specialisti e 9 di famiglia al giorno nei prossimi anni… a meno di non accedere
alla proposta, solo assurda al pensiero, di farli lavorare fino a 70 anni) e
13.000 infermieri. In condizioni “normali” l’elevata età media, il numero
ridotto e turni di lavoro sulle 24 ore rende poco sostenibile ed efficiente il
loro lavoro: possiamo seriamente sorprenderci, allora, delle foto del personale
sanitario distrutto dal superlavoro di questi giorni?
Depauperamento
Perché questo depauperamento
della sanità pubblica è potuto avvenire? Da un lato esso ha fatto
parte di un modello “culturale” complessivo che voleva presentare la riduzione
della spesa pubblica come una virtù. L’Unione Europea ha certificato e validato
questo modello. Un recente studio ha evidenziato che da quando è stato
istituito il Semestre Europeo (2011, sotto l’egida del Patto di Stabilità e
Sviluppo, 1997) la Commissione Europea ha inviato ben 63 raccomandazioni agli
Stati membri per ridurre i costi del sistema sanitario e
per introdurre il privato nei servizi socio-sanitari. E queste raccomandazioni
hanno trovato governi ben lieti di ottemperare a queste raccomandazioni e le
hanno seguite in modo pedissequo.
È cambiato, o sta cambiando, il modello della sanità
anche in Italia, da “diritto fondamentale” (con
perdita progressiva del suo carattere universalistico) a qualcosa che
assomiglia piuttosto ad una “merce”,
che ha un valore economico che puoi comprare, di qualità più o meno alta a
seconda della tua disponibilità economica. Così, si è spostata l’attenzione
verso le prestazioni specialistiche (soprattutto
a pagamento), distogliendola dalle cure primarie (che
sono meno costose, riducono la pressione ingiustificate su ospedali e pronto
soccorso, e sono maggiormente inclusive e capaci di prendere in carico
complessivamente il cittadino, soprattutto quello più vulnerabile). Così, si è
ridotta l’integrazione tra la presa in carico di tipo sociale e quella di tipo
sanitaria, perdendo la capacità di occuparsi e comprendere i bisogni
complessivi della persona. Qui hanno perso rilevanza il territorio e gli enti
locali, che sarebbero importanti non perché coinvolti nelle nomine delle strutture,
ma in quanto in grado di far collaborare il personale sanitario del SSN con
quello comunale dei servizi alla persona di tipo sociale, ma anche formativo e
culturale. In questo “nuovo” modello si è allargata la forbice
delle disuguaglianze fra coloro in grado di “comprarsi” (anche
attraverso la sanità integrativa) cure migliori e chi deve accontentarsi di
quel che passa il pubblico. A questo corrisponde una perdita di ruolo della
sanità pubblica che è quello essenzialmente di garantire l’uguaglianza dei
cittadini davanti alla malattia e anche di perequare in questo ambito fra le
diverse possibilità di ciascuno. Per questo è diventata funzionale a questo
modello anche l’idea, che talvolta fa breccia anche in campo progressista
(penso alle posizioni di Emma Bonino e di +Europa), di togliere i più ricchi
dalla contribuzione al sistema sanitario nazionale consentendo loro di
comprarsi una sanità completamente privata: in questa prospettiva verrebbe
completamente meno la funzione perequatrice,
legata non al solo gettito IVA ma alla tassazione progressiva sui redditi delle
persone fisiche, della sanità pubblica.
Una revisione necessaria
Tutto questo sforzo economicista, di rendere meno
costosa la sanità pubblica, per quanto immotivato sul piano del confronto con
gli altri paesi europei (che spendono molto più di noi), ha premiato la logica
dei Piani di rientro per contenere i disavanzi, distraendo le politiche
pubbliche dal vero obiettivo che sarebbe stato quello della riqualificazione
dei servizi.
Ora, è possibile invertire questa tendenza?
Certamente, se – assumendo il “segno” della crisi del Corona Virus – sapremo
cambiare radicalmente direzione, investendo più risorse per un periodo di tempo
non breve e quindi con un indirizzo di politica di spesa pubblica strutturale
nel ricambio e nell’aumento del personale sanitario, nella revisione
sostanziale della sanità integrativa (rendendola
effettivamente integrativa e non sostitutiva), armonizzando l’offerta con i
principi di appropriatezza e sicurezza previsti dai LEA, evitando la strada
dell’autonomia differenziata delle sanità regionali (che, come ci dimostra il
caso lombardo, ma anche quello veneto, è una pericolosa illusione), centrando
sui livelli essenziali delle prestazioni relativi ai diritti
civili e sociali, integrando servizi sociali, educativi e sanitari sul
territorio.
Un virata netta e stabile in una diversa direzione. È
possibile e necessario, altrimenti passato il Corona forse non reggeremo al
prossimo virus.
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