Lo scenario è apocalittico: strade deserte e silenziose, mezzi pubblici
vuoti o quasi, serrande abbassate. Chi cammina ha uno scopo: fare acquisti di
prima necessità, portare a passeggio il cane, andare e tornare da lavoro
(perché la produzione, come la speculazione finanziaria, non si ferma), fare un
po’ di sport. Autocertificazioni alla mano, pronti a dimostrare dove, come e
quando si è usciti di casa. Strade e piazze non servono ad altro che a
connettere le case e i luoghi di lavoro o, al massimo, servono per le consegne
a domicilio (i lavoratori e le lavoratrici delle piattaforme di food delivery,
come gli operai, di stare a casa il diritto-dovere non ce l’hanno). Le città
come le vedevamo prima dell’emergenza pandemia non ci sono più. Gli spazi
collettivi urbani si sono dissolti, in poco più di una settimana.
L’emergenza Covid-19 ci mette davanti a una serie di contraddizioni che in
molti hanno sottolineato. La contraddizione di una sanità pubblica che si è
andata progressivamente privatizzando con il consenso più o meno tacito delle
varie classi dirigenti, di uno stato sociale ridotto all’osso che oggi si
dimostra non in grado di sostenere chi paga lo scotto con la perdita o la
riduzione drastica del reddito da lavoro salariato. Ma c’è un’altra
contraddizione che questa emergenza rende plastica: quella insita nel modello
di sviluppo urbano che viene messo in pratica da oltre un trentennio, difeso da
politiche securitarie e nel quale lo spazio pubblico viene svuotato
dall’interno, fino a implodere su sé stesso.
Lo spazio urbano che si rende necessario al tempo del Coronavirus è solo la
somma di tanti luoghi privati – le case – a cui si deve andare e tornare nel
minor tempo possibile. Quando lo attraversiamo ci sentiamo in colpa,
illegittimi. Il mondo esterno che inizia al di fuori delle mura domestiche ci
mette a disagio, non ci appartiene più, sembra non essere di nessuno anziché di
tutte e tutti. Ci sentiamo controllati, e in effetti lo siamo. Controllati da
polizia e carabinieri, certo, ma anche da chi ci cammina accanto. Ci guardiamo
male, siamo sospettosi per decreto. Assumiamo che l’altro se ne stia
approfittando, che non abbia un vero motivo per uscire di casa (a differenza
nostra, s’intende). E così tutti pronti a denunciarci a vicenda, magari non
alle autorità, ma a una comunità virtuale attraverso piattaforme ancora più
spaventose – i social networks – dove dilaga il sentimento più forte di tutti:
la vergogna.
Senza spazio pubblico ieri e oggi
Questo scenario orwelliano di controllo capillare ci angoscia. Sentiamo
forte e chiaro il peso della libertà che viene meno, ci sentiamo prigionieri
nei luoghi della nostra quotidianità. Ma l’architettura urbana dell’emergenza è
davvero così diversa dall’architettura neoliberista che conosciamo dalla fine
degli anni Ottanta a oggi? La città che Minniti e Orlando prima e Salvini poi
hanno in mente e che i loro decreti hanno cercato di realizzare è uno scenario
totalmente altro da quello nel quale ci muovevamo fino a pochi giorni fa?
No, il modello urbano pre-Corona non è poi così diverso da quello di queste
ore. L’arena politica e sociale è ridotta all’osso ora come allora, lo spazio
pubblico marginale. La differenza è che oggi non ci sono happy hours e movida a
mascherare questo dato di fatto. I numerosi eventi, i centri commerciali aperti
nei fine settimana, le zone pedonalizzate e i tavolini dei bar ci hanno
distolto dal riconoscere un dato cruciale: l’unica posizione che possiamo
assumere nello spazio urbano è quella del consumatore o del produttore. Ogni
altra attività che non fosse immediatamente riconducibile all’una o all’altra
condizione è stata vista con sospetto prima e con timore poi. Non stiamo qui a
ripercorrere le varie ordinanze comunali contro tutte quelle attività che non
erano finalizzate a niente se non all’attraversare lo spazio pubblico. Sedersi
su un marciapiede o mangiare un panino sono stati raccontati come attentati al
decoro e alla sicurezza, atti
di bivacco da condannare senza sé e senza ma. Non si è
esitato a chiedere misure punitive per chi stava in quegli spazi contravvenendo
all’imperativo del consumo e della produzione. Per loro si sono applicati
stigmi come la pericolosità sociale e imposti gli obblighi o i divieti di
dimora, il carcere. Adesso però che l’imperativo del consumo non può
concretizzarsi ci immaginiamo altri modi di stare negli spazi. Ora che in galera
ci sentiamo un po’ tutti e tutte qualche considerazione in più sullo spazio
pubblico e sulla sua importanza dovremmo essere in grado di farla.
Il protagonismo della sfera
privata
E c’è un’altra contraddizione che si interconnette a quella relativa allo
spazio pubblico e che nelle ore dell’emergenza si palesa: quella relativa alla
centralità dello spazio privato per eccellenza, ovvero la casa. Gli appelli a
starci tutti e tutte arrivano da ogni pulpito: istituzioni, personaggi famosi,
amici e conoscenti, residenti in Italia o all’estero. Casa è bene, fuori è
male. Quest’associazione viene proposta con un meccanicismo talmente semplice
da essere disarmante, inoppugnabile. Eppure è strano, perché le politiche messe
in atto fino a oggi sono andate nella direzione opposta: la casa – e quindi
starci dentro nei momenti di pericolo – non è un diritto di tutti, ma solo di
chi se la può permettere. Fino a poche settimane fa chi voleva a tutti i costi
una casa, chi la rivendicava come un diritto è stato punito, multato, umiliato
con strumenti legislativi, prima ancora che repressivi, come con l’articolo 5
del Piano Casa Renzi-Lupi. Sono curiose quelle politiche che prima la casa te
la tolgono e poi ti invitano a rinchiudertici.
In questa associazione meccanica, in base alla quale casa sta al bene come
uscire sta al male, ci dimentichiamo di un’altra cosa importante e delicata: la
casa e la famiglia non sono solo focolai caldi e accoglienti ai quali tornare,
ma anche luoghi di conflitto. Può essere senz’altro piacevole stare a casa
quando quest’ultima è una villa con piscina, un attico vista mare. Ma come può
essere un luogo accogliente un appartamento di poche decine di metri quadri
(perché queste solo le case che nel libero mercato molti e molte si possono
permettere), senza spazi esterni, balconi, senza affacci ameni? Come si può
vivere tranquillamente lo spazio domestico quando ci siamo costretti dentro e
corriamo il rischio, per starci, di perdere il posto di lavoro? In che misura è
accogliente un luogo così? Anche durante il Coronavirus le differenze sociali
contano.
Senza uno spazio pubblico al quale quello personale e privato si
interconnette, le case fanno presto a diventare prigioni. Adesso che la scuola
non c’è e i bambini sono presi in carico ventiquattro ore al giorno dalle
famiglie, ci rendiamo forse meglio conto di cosa diventerebbero le nostre case
se ci fossero solo le nostre case. Quando invochiamo la
proprietà privata come valore da mettere sopra tutto e tutti poi dobbiamo
essere pronti anche a questo: a un mondo di sole proprietà private.
L’ambiente domestico ci rende individui, ma è quello pubblico che ci rende
soggetti. Senza uno spazio collettivo siamo solo corpi contenuti e contenibili.
Nel 1923 ne Il saggio sul dono Marcell Mauss analizzava come
l’attraversare uno spazio per portare un dono e il tempo trascorso fra il
donare e il ricevere fosse alla base della costruzione delle società. È dalla
tensione verso il fuori – e tutti i rischi che questa comporta – che si
strutturano i desideri, le passioni e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per
essere più dei nostri corpi, per non essere prigionieri delle nostre
contingenze.
Non bastano le isole felici
L’emergenza pandemia ci sta facendo assaporare gli effetti e le
implicazioni sulla nostra vita di un modello di sviluppo urbano che mette lo
spazio privato al di sopra di tutto, un dominio totale e indiscusso contro cui
molti e molte si sono battuti sul piano collettivo. Oggi però tutto ciò è
evidente anche sul piano personale. Dovremmo non dimenticarcene più. Fra tutte
le cose da rimettere in discussione nel post Coronavirus c’è anche questo: il
modello di città che abbiamo in mente, il modo in cui gli spazi si articolano
in modo complesso, il tipo di convivenza al quale ci siamo arresi. Lo scenario
urbano che conosciamo e a cui siamo stati assuefatti per ora non c’è più, ma
un’altra città non c’è ancora. Non basta praticarne forme alternative, non ci
può più essere sufficiente la militanza in isole felici. Il momento per un
altro modello è ora, quando il velo di Maya cade e il noumeno, la realtà, si
mostra in modo disarmante. Anche se solo per un attimo, anche se solo per il
tempo di una pandemia.
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