Cosa significa fare scuola nell’emergenza? Cosa significa farla a distanza,
durante giorni di paura, di dolore, di crisi sociale? Le questioni che
riguardano i modi in cui si può e si deve continuare a farla sono molto
complesse, e non si possono ridurre a un mero cambiamento di assetto, a una
rimodulazione della didattica.
La scuola riguarda tutti, non solo gli studenti e gli insegnanti, e in
questi giorni ne abbiamo la dimostrazione: siamo tutti una comunità educante,
le nostre azioni e i nostri comportamenti hanno un effetto sulle persone che ci
sono vicino, e gli interrogativi su cosa fare e come vivere queste giornate
toccano particolarmente chi è più giovane, chi è in via di formazione, chi ha
un’identità più malleabile.
Ormai è evidente: quest’epidemia non è una parentesi, per cui si tratta di
capire quando e come rientreremo in classe. Non può nemmeno essere considerata
un’opportunità per ripensare la didattica digitale. La scuola, come qualunque
altra infrastruttura sociale, non era pronta per affrontare una simile
evenienza. Ed è normale che viviamo questo tempo come un tempo di crisi.
La scuola è sempre in crisi. Una delle cose che s’imparano standoci è che è
impossibile essere infallibili: che lo si voglia o no, stare così a lungo
insieme ad altre persone – bambine, bambini e adolescenti – rivela il nostro
carattere e le nostre vulnerabilità. Lo spazio della scuola è anche quello dove
si elabora questo confronto, dove semplicemente si cresce insieme.
L’importanza dell’ascolto
La discussione che in questi giorni sta tenendo banco tra ministero, associazioni di insegnanti e sindacati – se quella di questi giorni sia scuola o non sia scuola, se la scuola si ferma o se la scuola non si ferma – è forse un dibattito capzioso: tutto dipende da come usiamo questo tempo per l’educazione, mettendo al centro sempre la relazione educativa, che esiste anche quando è complicata, anche quando deve fare a meno della presenza fisica, perfino quando non c’è. I vuoti di relazione tra docenti e studenti, anche tra compagni, sono le esperienze negative che tutti conosciamo: il nostro compito principale è colmarli.
La discussione che in questi giorni sta tenendo banco tra ministero, associazioni di insegnanti e sindacati – se quella di questi giorni sia scuola o non sia scuola, se la scuola si ferma o se la scuola non si ferma – è forse un dibattito capzioso: tutto dipende da come usiamo questo tempo per l’educazione, mettendo al centro sempre la relazione educativa, che esiste anche quando è complicata, anche quando deve fare a meno della presenza fisica, perfino quando non c’è. I vuoti di relazione tra docenti e studenti, anche tra compagni, sono le esperienze negative che tutti conosciamo: il nostro compito principale è colmarli.
Quello che mostra questa crisi sistemica è soprattutto quello che alla
scuola manca tutti i giorni, quello che manca nella “normalità”. E quindi se è
impensabile ragionare su come ovviare ai problemi della scuola nell’emergenza,
si può invece riconoscere insieme come affrontare le mancanze, per ora e per
dopo.
La prima mancanza è quella di una scuola che si occupi dell’educazione
emotiva e sentimentale. Le richieste che vengono dagli studenti in questi
giorni sono soprattutto richieste di ascolto. Gli insegnanti e le classi devono
essere capaci d’intercettare questa richiesta; e questo non vale solo per
l’emergenza di una pandemia, ma per il quotidiano andamento della vita
scolastica. Vuol dire ricordare che si fa scuola sempre all’interno di una
comunità e di un mondo che cambiano, con le problematiche gigantesche e i
piccoli avvenimenti che colpiscono la classe. Bisogna sempre trovare il tempo
per parlarne, mantenendo un difficile equilibrio: senza pensare che i programmi
da seguire vengono prima di tutto e senza lasciare che tutto sia stravolto. I
rischi opposti, anche nel contesto educativo, sono la rimozione e la
saturazione.
Questo bisogno diffuso, che riguarda ovviamente anche gli adulti, dimostra
quanto sia necessaria una formazione psicologica degli insegnanti, sia al
momento della selezione sia durante il percorso professionale. E conferma che
per i docenti e per gli studenti è indispensabile avere figure di riferimento
per il sostegno psicologico, anche all’interno della scuola. Queste figure esistono,
ma sono poche e spesso fantomatiche. Il grande lavoro di cura che chiediamo
agli insegnanti – e di cui sono tenuti a farsi carico – dev’essere un lavoro di
qualità, che non può contare solo sull’iniziativa o sulle attitudini
individuali.
Disuguaglianze
La seconda mancanza evidenziata dalla crisi è quella di un’educazione che tenga conto delle disuguaglianze sostanziali tra le famiglie degli studenti. Chi ha genitori che riescono a seguire i figli nei compiti e chi no, chi ha a disposizione un computer e chi no, chi ha una stanza tutta per sé e chi no, chi ha una connessione decente e chi no, chi ha molti libri a casa e chi no. Le mattine in classe riducono e in parte nascondono queste disparità, che sono invece tangibili e appaiono ancora più evidenti in questi giorni in cui le webcam – di chi ce l’ha – sono puntate sulle camerette.
La seconda mancanza evidenziata dalla crisi è quella di un’educazione che tenga conto delle disuguaglianze sostanziali tra le famiglie degli studenti. Chi ha genitori che riescono a seguire i figli nei compiti e chi no, chi ha a disposizione un computer e chi no, chi ha una stanza tutta per sé e chi no, chi ha una connessione decente e chi no, chi ha molti libri a casa e chi no. Le mattine in classe riducono e in parte nascondono queste disparità, che sono invece tangibili e appaiono ancora più evidenti in questi giorni in cui le webcam – di chi ce l’ha – sono puntate sulle camerette.
In Italia il digital divide è
drammatico: come ricorda anche Franco Lorenzoni, nel 2019
solo il 76,1 per cento delle famiglie aveva accesso a internet e il 74,7 per
cento aveva una connessione a banda larga. Nelle aree metropolitane
quest’ultimo dato sale al 78,1 per cento, mentre nei comuni sotto i duemila
abitanti scende al 68 per cento. Questa è una carenza che intacca i diritti
costituzionali minimi, anche al di fuori dell’emergenza.
I gestori di telefonia e internet hanno investito sempre più sul mobile e
sempre meno sul fisso (ogni anno vengono disdetti milioni di contratti di linea
a casa). È vero che oggi la maggior parte degli italiani possiede almeno uno
smartphone, ma non è uno strumento che può essere usato adeguatamente per la
didattica. Lo sintetizzava bene Massimo Mantellini in un recente articolo sul Post:
Serviranno
linee fisse veloci (e se possibile simmetriche) nelle case dei cittadini e
device di accesso alla rete idonei alla complessità del mondo. (…) La cultura
digitale non si fa utilizzando come infrastruttura cognitiva una connessione 4G
e uno smartphone da 6 pollici.
Si poteva fare un accordo nazionale con gli operatori per portare la banda
larga nelle scuole. Oggi sull’ultimo tratto c’è concorrenza tra Tim e
Openfiber, e solo la settimana scorsa si è cominciato a parlare di una
possibile joint venture tra le due aziende.
Un’infrastruttura debole
La terza mancanza, molto profonda, riguarda i contenuti digitali, sia pedagogici sia disciplinari. In questi giorni il ministero sta pubblicizzando iniziative sparse e risorse digitali varie, compreso un canale Telegram che ha come hashtag #Lascuolanonsiferma. Il coordinamento è stato affidato soprattutto all’Istituto nazionale per l’innovazione e la ricerca educativa (Indire).
La terza mancanza, molto profonda, riguarda i contenuti digitali, sia pedagogici sia disciplinari. In questi giorni il ministero sta pubblicizzando iniziative sparse e risorse digitali varie, compreso un canale Telegram che ha come hashtag #Lascuolanonsiferma. Il coordinamento è stato affidato soprattutto all’Istituto nazionale per l’innovazione e la ricerca educativa (Indire).
Le molte risorse che stanno emergendo, però, rivelano soprattutto le
carenze sistemiche. Le piattaforme digitali sono spesso frutto dell’iniziativa
di startup piuttosto che di movimenti pedagogici o di associazioni di
insegnanti. L’offerta pubblicizzata dal ministero è esigua e non strutturata.
Anche questo non è un caso, ma il risultato di un’idea di autonomia
scolastica che ha di fatto liquidato la programmazione sistemica. Il documento del Miur che raccoglie le
prime indicazioni operative sulle attività di didattica a distanza, redatto da
Marco Bruschi, capo dipartimento del ministero, è molto chiaro, condivisibile e
pieno di buone intenzioni. Allo stesso tempo, però, mostra come il ministero
stesso sia un’infrastruttura debole, capace più di orientare, suggerire e
proporre che di programmare e offrire soluzioni, per quanto temporanee.
C’è un’ultima questione, che riguarda il ruolo e i metodi degli insegnanti.
Oggi siamo nell’emergenza, e cosa vuol dire insegnare nell’emergenza nessuno lo
sa. Sicuramente però vuol dire starci, non sottrarsi a un compito difficile ma
in questo momento importantissimo. Per svolgerlo bisogna cambiare certe
abitudini che sembrano inveterate nella scuola italiana: lezioni frontali,
didattica trasmissiva, compiti assegnati senza una reale valutazione, abuso
della funzione del voto.
Nelle condizioni difficilissime di questi giorni, chi insegna è un po’ più
fortunato: può lavorare da casa, può mantenere relazioni significative con la
sua classe anche a distanza, continua a ricevere lo stipendio, anche se è uno
stipendio basso. Tuttavia, fare scuola non è solo mantenere la rotta nella
tempesta, ma un grande dovere professionale.
Nell’ultimo contratto collettivo si dice che “il profilo professionale dei
docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche,
psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di
orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed
interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica,
l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica”. Gli
insegnanti devono pensare di essere all’altezza del compito che gli è stato
assegnato.
Le rivendicazioni di tipo corporativo dei sindacati non sono utili in
quest’emergenza: non serve essere insegnanti missionari, ma inventivi e
generosi sì, e questo vale per tutti i giorni di scuola.
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