La
reclusione da pandemia, in molti lo hanno sottolineato, potrebbe essere
rovesciata in un momento prezioso di studio e scrittura. Chi lavora nel mondo
culturale può beneficiare di una condizione per certi versi insperata,
dedicandosi a lavori da concludere o iniziare.
Eppure
sembra che per molti tutto questo non avvenga. Che la concentrazione sia
diventata un miraggio. Che manchi la voglia. Come mai? La spiegazione più ovvia
è l’allerta costante in cui stiamo vivendo, l’ansia con cui si aspetta il
bollettino delle 18 della protezione civile per sapere se la situazione
migliora, l’apprensione per i parenti più anziani o per chi è solo, i confronti
con i colleghi del proprio settore lavorativo per cercare di capire quanto
tutto questo impatterà sulle nostre economie, quali imprese chiuderanno, fino a
quando riusciremo a resistere con quello che c’è oggi sul conto in banca. Tutto
questo crea una cappa snervante, cui si aggiunge la frustrazione di dover
restare in casa che, alla lunga, comincia a pesare. E così quella “condizione
ideale per concentrarsi” può facilmente rovesciarsi in qualcos’altro. Il tempo,
che in teoria è così tanto, diventa pochissimo. L’attenzione si concentra e si
disperde secondo dinamiche inconsuete con cui non abbiamo ancora familiarità.
Nella mia
esperienza personale, ad esempio, la lettura è diventata un affare complicato,
la scrittura quasi impossibile. Questa medesima condizione, stando ai racconti
di colleghi e amici, è molto comune. C’entra l’allerta dei sensi, l’animalità
che reagisce al mutare della situazione, ma non solo. Quello che è cambiato è
l’ambiente psichico in cui stiamo vivendo, nel quale siamo tutti immersi. Una
condizione che, per altro, potrebbe durare per un bel po’. È qualcosa che
cambierà radicalmente il nostro mondo? C’è chi ipotizza futuri distopici non
più così irrealistici (e oggi “distopia” è diventata quasi una parolaccia) nei
quali non ci si tocca più, ci si saluta a distanza, in cui l’ansia delatoria di
alcuni, ossessionati da chi non rispetta le regole o non le ha capite, guidati
dall’ansia di essere dalla parte giusta, civile, della barricata, avrà corrotto
irrimediabilmente i rapporti umani. Per dirlo è decisamente presto. Alcune
delle ossessioni di oggi evaporeranno, altre lasceranno segni. Ma più che
lanciarsi in ipotesi fantasiose sul futuro è interessate cercare di capire
cosa, delle nostre pratiche del passato sembra essere in crisi, forse
definitivamente.
L’ambiente
psichico è composto da vari fattori. Interagisce ad esempio con l’ambiente
fisico e in questi giorni la cosa salta agli occhi molto di più. Con buona pace
degli appelli di Fiorello e di altri personaggi famosi a stare a casa a
divertirsi, non tutti hanno a disposizione case adeguate a una reclusione che
potrebbe diventare molto lunga. Ci sono persone che vivono in appartamenti
minuscoli, coppie che hanno figli piccoli difficili da gestire in un ambiente
ristretto, fuorisede e lavoratori precari e condividono appartamenti dormitorio
dove a volte non esiste nemmeno uno spazio comune. La fuga della gente da
Parigi la sera prima della chiusura lo testimonia in modo drammatico: nessuno
vuole restare in reclusione in uno “studiò”, o nei tanti appartamenti minuscoli
che caratterizzano quella città e, sempre di più, anche le nostre. Di fronte
all’emergenza, tutte le giustificazioni con cui abbiamo accettato la
speculazione che divorava spazi nelle nostre città e metri quadri nelle nostre
case sembrano evaporare. Più in generale oggi sembra addirittura scandaloso il
fatto che certi diritti essenziali non siano stati davvero amministrati come
tali, in senso universalistico; e l’idea che una parte sostanziale della crisi
che viviamo in Italia sia dovuta anche ai tagli che ha subito il Sistema
Sanitario Nazionale, e con esso i posti disponibili nei reparti di
rianimazione, ci appare una follia. Di fatto, però, fino a qualche settimana fa
convivevamo tranquillamente con l’aporia che metteva assieme il nostro sistema
economico, fatto di tagli continui al pubblico, e alcuni diritti che a parole
definiamo universali – come quello sancito dall’articolo 32 della Costituzione.
Semplicemente, il nuovo ambiente psichico ha fatto emergere quella
contraddizione fino a farla scoppiare.
Il tema del
nuovo ambiente psichico che si è venuto a creare con la crisi del Covid-19 è,
paradossalmente, la cosa meno affrontata dalle autorità italiane, al momento.
La Cina, invece, ha dovuto affrontare questo problema, anche perché la
reclusione prolungata ha provocato un’impennata di violenza domestica, oltre
che di divorzi, complicata dal fatto che le autorità sono impegnate a gestire
l’emergenza presidiando le strade. L’Italia non è la Cina, si dirà. Eppure
questa è una crisi soprattutto legata alle fragilità, quelle che scopriamo in
noi stessi e quelle che il nostro sistema cerca di nascondere sotto il tappeto.
La scoperta della fragilità e uno degli elementi costitutivi di questo nuovo
ambiente psichico (quanto durerà tutto questo? come faccio con i lavori che ho
perso? che impatto avrà il crollo economico sulla mia vita? che ne sarà dei
progetti che stavo portando avanti?). Ma l’effetto che questa fragilità ha su
di noi è duplice: se da un lato c’è un senso di comunità che prevale rispetto a
chi è nella nostra stessa condizione, dall’altro ci preoccupiamo molto meno di
chi è in difficoltà, perché siamo noi a sentirci in prima linea – su questo
punto di vista propone uno sguardo importante l’articolo di Internazionale che
ha raccontato i senza fissa dimora all’epoca del coronavirus.
Quello che è
certo è che anche gli strumenti intellettuali che fino a pochi giorni fa
sembravano illuminanti, oggi sembrano inefficaci, vecchissimi. Il tempo,
irrimediabilmente fermo, scorre per certi versi velocissimo e consuma le nostre
categorie di pensiero. Interventi come quello di Giorgio Agamben sullo stato
d’eccezione sono risultati illuminanti per qualche ora e vacui il giorno. Lo
stesso è avvenuto per la poesia, molto condivisa, di una bravissima poetessa
come Mariangela Gualtieri, che si incentra sul concetto di specie a lei molto
caro. Sono pensieri e forme che abbiamo apprezzato in passato, riconosciuto
immediatamente leggendole oggi, che per un attimo sembravano dirci delle cose
importanti sul presente che stavamo vivendo e poco dopo sono risultate
insufficienti. È stata una sensazione costante per tutti i primi giorni della
quarantena: la stragrande maggioranza degli interventi, artistici o
intellettuali, per quanto sensati, sembravano fuori fuoco nel giro di qualche
ora. Distanti. I discorsi validi al mattino erano superati la sera stessa.
Questo
intreccio di un ambiente psichico mutato e di strumenti intellettivi in affanno
apre domande sul futuro. Qualcuno, in uno slancio di entusiasmo, è arrivato a
preconizzare la fine del capitalismo e alcuni provvedimenti – come la scelta
del governo spagnolo di requisire la sanità privata – sono talmente eccezionali
che sembra davvero di trovarsi alle soglie di una nuova epoca. Le dichiarazioni
di Giuseppe Conte al Corriere della Sera del 16 marzo, in cui afferma che
“dovremo sederci e riformulare le regole del commercio e del libero mercato”
sono a loro modo impressionanti. Non per il contenuto in sé, che un pezzo di
mondo chiede a gran voce da decenni, ma per il fatto che a formularle sia stato
il capo di governo di un paese del blocco capitalista occidentale. Al di là
della motivazione più o meno strumentale del premier, è chiaro che oggi viviamo
in un ambiente mentale inedito, dove una simile ipotesi non è più un tabù. E il
capitalismo, come tutti i “miti collettivi”, ha bisogno non solo di un’etica a
cui appoggiarsi – come rilevava Weber – ma anche di un ambiente mentale in cui
prosperare. A posizionare il capitalismo tra i miti collettivi, al pari delle
religioni o dei sentimenti patriottici, è Harari, che nel suo saggio “Sapiens”
rileva come alcuni degli aspetti cruciali dell’esistenza umana in ambito
sociale non risiedano nella realtà fisica, ma in quella dell’immaginario
condiviso. Ovviamente non parliamo di un immaginario finzionale, ma di quello
che condiziona i nostri comportamenti e le nostre relazioni, che ha mezzi
coercitivi e prescrittivi, come il diritto, ad esempio, o il denaro, che è un
dispositivo sempre meno materiale. Debiti, crediti e sistemi di retribuzione
esistono in quello stesso spazio mentale condiviso.
I miti hanno
la capacità di rimodellarsi, proprio perché si fondano su dispositivi che non
hanno a che vedere con la realtà fisica. Se i debiti degli stati non
appartenessero a questo piano immateriale della realtà, ad esempio, sarebbe
stato impossibile per la Germania chiedere ed ottenere di decurtare il proprio
debito dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale. Perché è stato fatto?
Perché era meno conveniente che quel paese finisse in miseria, trascinandosi
dentro sistemi di comportamenti e relazioni che hanno a che fare con la
produzione di beni e di valori, piuttosto che incassare interessi e cifre
concordate. In entrambi i casi, tuttavia, si era alla fine di due guerre
sanguinosissime, quello che potremmo definire un ambiente psichico eccezionale.
Ora è davvero troppo presto per capire che cosa avverrà, invece, al nostro
presente. Le manovre espansive dei governi, misure che fino a poche settimane
fa credevamo estinte, oggi tornano prepotentemente reali. Per Alitalia, uno dei
grandi malati del sistema italiano, si parla di un programma di
nazionalizzazione senza che nessuno alzi un sopracciglio; anzi, la notizia è
passata senza colpo ferire. Ma c’è anche il risorgere della sovranità degli
stati, i confini chiusi, il dispiego di forze dell’ordine, che ci fanno sentire
come dentro un vecchio (e sgradevole) film già visto.
Che ne sarà
dell’Europa? Torneremo a viaggiare come un tempo? Questo blocco non sta
risolvendo, indirettamente, il problema dell’inquinamento globale? E il virus,
la cui mortalità sembra connessa alle alte concentrazioni di particolato
nell’aria, non è in fondo anche un segnale della saturazione dell’ambiente
rispetto alla nostra capacità di manipolarlo? E forse è vero che cambieranno le
regole economiche, ma chi ne beneficerà? A godere non sarà chi ha molto, chi ha
accumulato e ora potrà investire, mentre il prezzo più alto sarà sempre e
comunque pagato da chi ha poco? Domande cui è impossibile, per ora, dare una
risposta. Ma con le quali dovremo sicuramente fare i conti, forse molto presto.
Il presente che viviamo, infatti, è ricco di aporie che stanno facendo
scoppiare le contraddizioni su cui si basava il nostro mondo fino a ieri.
Contraddizioni che riguardano persino le tesi più sensate e obiettivamente
giuste, come quella ambientale: il rallentamento della produzione ha oggettivi
riscontri benefici per l’ambiente, ma ha anche innescato una paura profonda per
il futuro, anche dal punto di vista di chi si dichiara contro il global warming
ma ha comportamenti – come la frequente propensione al viaggio, per citarne uno
– che producono effetti in contraddizione con quanto auspica sul tema.
D’altronde,
lo diceva già Mark Fisher che è più difficile immaginare la fine del mondo che
la fine del capitalismo (frase che oggi viene attribuita a lui, e che invece il
saggista inglese attribuisce Fredric Jameson o Slavoj Žižek). Nel suo “Realismo
capitalista”, non a caso, partiva da una distopia – I figli degli
uomini di Alfonso Cuaron – per raccontare l’abbraccio tra gestione
autoritaria e ultracapitalismo, qualcosa che sembrava poco probabile nel
Novecento e che, all’inizio del XXI secolo con la guerra al terrore, è
diventata piano piano un’opzione sul campo. “I neoliberali, ovvero i realisti
capitalisti per eccellenza – scrive Fisher – hanno più volte celebrato la
distruzione dello spazio pubblico: ma contrariamente alle loro aspirazioni
ufficiali, ne I figli degli uomini non assistiamo a nessun arretramento dello
Stato, quanto semmai un ritorno dello Stato alle sue originali funzioni di
stampo militare e poliziesco”.
Ricorda
qualcosa? È impossibile non fare un paragone con quanto tutti noi vediamo fuori
dalle nostre finestre, ma allo stesso tempo la giusta domanda di sicurezza
sanitaria e l’apertura a misure sociali poderose, che forse non saranno nemmeno
le uniche, lasciano intravedere anche scenari diversi. Non per forza migliori,
ma nemmeno per forza catastrofici. La fine del capitalismo – o sia pure di una
sua fase – è, in un certo senso, anche la fine di un mondo: il mondo psichico
che abbiamo abitato fino a oggi. Il mondo dell’accelerazione sfrenata e del
lavoro martellante a cui anche i critici più radicali hanno di fatto aderito,
perché la nostra esistenza biologica è immersa in quel medesimo spazio mentale.
Quell’accelerazione nei confronti della quale, all’inizio della quarantena,
anche i più preoccupati di noi per il futuro, quelli che mordono il freno per
tornare a produrre, non hanno potuto trattenere un sospiro di sollievo per aver
preso da essa, sia pure momentaneamente, le distanze. Se anche tutto tornerà
come prima in poco tempo, un’altra aporia è scoppiata fragorosamente, quella
che riguarda la condizione di benessere che caratterizza le nostre esistenze
all’epoca del tardo-capitalismo. E rispetto alle difficoltà a immaginare e
focalizzare la trasformazione sostanziale del nostro sistema produttivo e
dell’ambiente psichico che lo sorregge, è chiaro adesso che per vederne la fine
occorre allo stesso tempo vedere anche la fine del mondo, poiché in parte le
due cose coincidono. Oggi, per quanto surreale e incredibile possa apparire
tutto questo, è esattamente il paesaggio che possiamo osservare affacciandoci
alla finestra.
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