1.
Con una nota del 3 aprile scorso il Ministero dell’Istruzione (Miur) è
tornato a richiamare l’attenzione dei docenti sulla complessa questione della
didattica per gli alunni con bisogni educativi speciali (Bes). Per i non
addetti ai lavori, si tratta di una macro-categoria, mediante la quale ci si
riferisce ad aree di tutela differenziate – come l’ambito della disabilità (cui
fa riferimento la legge 104/1992) l’area dei disturbi specifici
dell’apprendimento (legge 170/2010), e a cui si aggiungono – in virtù di una
direttiva del 2012[1] – tante altre situazioni di
svantaggio o marginalità, alcune delle quali estranee a qualsiasi processo diagnostico,
ma pure riferentisi ad allievi bisognosi di misure didattiche peculiari (ad
esempio gli alunni provenienti da contesti degradati). Gli studenti in
situazione di disabilità cui fa riferimento la legge 104 sono accompagnati
nell’apprendimento e nell’integrazione sociale da insegnanti di sostegno (e
spesso anche da assistenti educativi), che cooperano a diverso titolo con gli
altri docenti, con la famiglia, con i medici e con eventuali strutture
associative presenti sul territorio, nella definizione e realizzazione di un
Piano educativo individualizzato (Pei). La legge 170 concerne invece le
politiche di inclusione scolastica per gli studenti con disturbi specifici
dell’apprendimento (con particolare riferimento a dislessia, disgrafia e
discalculia), per i quali non è prevista la presenza di insegnanti di sostegno,
ma è riconosciuto il diritto a un Piano didattico personalizzato (Pdp), in cui
siano esplicitate misure dispensative e strumenti compensativi, mirati a
garantire il diritto all’istruzione. Analoga possibilità di ricorrere a un Pdp
è prevista per altri casi di svantaggio, anche temporaneo (e qui il ventaglio
della casistica è davvero ampio e sempre aperto a nuove situazioni critiche).
Secondo la nota definizione di Dario Ianes, «Bes è qualsiasi difficoltà
evolutiva, in ambito educativo e apprenditivo, espressa in un funzionamento
(nei vari ambiti della salute secondo il modello Icf dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno,
ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di
educazione speciale individualizzata»[2].
Accade tuttavia che le politiche per l’inclusione stratificatesi negli
ultimi anni, stanno rischiando di produrre un indesiderato e paradossale
effetto di esclusione sociale. Un pericolo cui la nota ministeriale del 3
aprile intende offrire una prima risposta.
Non vi sono novità strutturali in quel testo, però il tono è significativo.
In particolare, la nota ha il sapore di un serio richiamo rivolto a tutti gli
insegnanti, con riferimento al rischio costante di incomprensione o distorsione
delle finalità originarie della normativa recente in materia di inclusione.
L’appunto ministeriale intende ribadire il significato originario del Pdp, uno
strumento cui gli insegnanti sono tenuti a ricorrere per programmare in modo
sistematico e condiviso le scelte didattiche relative agli alunni con disturbi
specifici dell’apprendimento (Dsa), ma che possono sottoscrivere anche in altri
casi di «svantaggio», a seguito di una ponderata valutazione pedagogica. Sembra
però che lo strumento, come forse era prevedibile, tenda a ridursi, nella quotidianità
della sua replicazione, a uno stanco rituale burocratico: incapace di produrre
effettivi passi avanti nell’apprendimento, e riducendosi a facile viatico per
atteggiamenti liquidatori e pericolosi processi di etichettamento.
Il Pdp, viene ricordato, ha la funzione di dichiarare e sistematizzare gli
interventi educativi e didattici: dichiarare, perché una prassi
personalizzata, se implicita o spontanea, non garantisce sufficientemente
l’alunno nel suo diritto alla mediazione di misure didattiche speciali, e al
tempo stesso non attesta in alcun modo il «cosa» e il «come» di
quell’attenzione pedagogica; sistematizzare, perché non è possibile
affidarsi all’iniziativa saltuaria, parziale o personale di alcuni docenti, in
particolari momenti dell’anno scolastico. Il Pdp deve infatti esplicitare le
modalità con le quali vengono agite determinate scelte metodologiche di
supporto al processo di apprendimento dell’alunno con bisogni speciali.
Inoltre, aggiunge il Ministero, il Pdp deve servire anche a sollecitare un
coinvolgimento attivo della famiglia, e garantire un controllo – o monitoraggio
– del raggiungimento degli obiettivi. L’azione unilaterale della scuola è in
certi casi possibile, ma non auspicabile. Con il Pdp la famiglia viene
coinvolta in modo attivo, perché spesso in quella sede si assume anche degli
impegni di lavoro coordinato con il corpo docente. Si tratta solo di uno
strumento, certo, però importante: «È anche attraverso tale strumento che si
realizza un sistema scolastico più equo e inclusivo, in cui la prospettiva
pedagogica rivesta maggiore significatività di quella clinica. Non è pertanto
la logica dell’adempimento burocratico a dover prevalere, quanto il principio
della già citata “cura educativa”, fondato sulla responsabilità del docente – o
meglio, del team docenti e dei consigli di classe – e sulla corresponsabilità
dell’azione educativa»[3].
Questo è il passaggio chiave, dunque. Non si tratta di una mera prassi
burocratica, ma neppure è legittimo articolare, neanche per leggerezza, tale
procedura sulla falsariga di un protocollo sanitario. Il ricorso al modello
diagnostico-clinico, che cerca l’etichetta sanitaria per attenuare l’ansia da
insuccesso dell’insegnante, e che chiude ogni discorso assegnando una
definizione medica al comportamento d’apprendimento dell’alunno, è frequente e
rappresenta l’orizzonte problematico in cui stanno annaspando le politiche per
l’inclusione. Per salvare il salvabile, il Miur ricorda agli insegnanti la
maggiore significatività della prospettiva pedagogica su quella clinica e ancor
di più su quella burocratica, ma occorrerebbe capire se non sia stato lo stesso
Ministero a svuotare in parte quella sensibilità didattica, a tutto vantaggio
di una semplificazione tecnicista. Lo stesso concetto di “cura educativa”,
giocando sull’ambiguità semantica del sostantivo, strizza l’occhio al
linguaggio medico.
Nella nota del 3 aprile il Miur aggiunge un passaggio non nuovo, ma che
assume un significato importante: la questione dei cosiddetti «gifted
children», i bambini con quoziente intellettivo superiore alla media, per i
quali diventa spesso indispensabile predisporre un Pdp. Un tema, questo, sul
quale è stato aperto un apposito tavolo tecnico ministeriale, mirato alla
definizione di dettagliate linee guida. Non siamo di fronte a un disturbo
clinicamente diagnosticabile come tale, ma in qualche modo si assiste a una
deviazione dalla norma, dalla media. Ergo: didattica
personalizzata. I bambini plus-dotati in alcuni casi danno segni di
insofferenza nel contesto didattico ordinario, si annoiano, non si sentono
compresi e talvolta sono isolati o stigmatizzati dai coetanei. In qualche caso,
la manifestazione delle proprie frustrazioni assume forme che ne producono la
confusione con la sindrome dell’Attention-Deficit/ Hyperactivity Disorder
(Adhd), o con alcune varianti dello spettro autistico. Anche per i plus-dotati,
dunque, occorre riconoscere l’esistenza di peculiari bisogni educativi, che
eccedono la «normalità».
È indispensabile indagare, dunque, le vere ragioni di questa doppia
distorsione: burocratica e riduzionista (in senso bio-medico).
2.
Dal punto di vista dell’individuo e della sua condizione psico-fisica, non
esiste una correlazione automatica tra situazioni di disabilità e tipologie di
svantaggio socio-economico, o di scarsa attitudine alla socializzazione.
Ciononostante viene concepita una macro-categoria, quella dei Bes, in cui
ricade di tutto. L’ambito dell’oscillazione viaggia da gravissime problematiche
legate alla condizione di salute o ad alcune alterazioni del sistema
neurologico, fino alle difficoltà di adattamento per ragioni economiche,
sociali, linguistiche, psicologiche. Tuttavia – e questo complica il quadro da
un punto di vista concettuale – su un piano sociologico la macro-categoria è
giustificata, perché in tutti i casi la situazione di problematicità è il
risultato dell’incontro tra gli individui e il modo in cui la società e le sue
organizzazioni particolari si rivelano aperte o chiuse, producendo come effetto
processi di inclusione o esclusione sociale. Il sopracitato esempio degli
studenti talentuosi, per l’appunto, rientra nella casistica Bes solo in
condizioni nelle quali la plus-dotazione genera uno stigma, o se è vissuta in
modo particolarmente problematico dall’alunno, che ne risulta ostacolato sia
nella vita scolastica che nell’integrazione sociale.
Se la macro-categoria ha dunque due estremi, oscillando dalla grave
condizione di disabilità fisica e neurologica, fino alla provenienza da
contesti sociali degradati, la dinamica dei processi reali non spinge le linee
di intervento verso il secondo estremo dell’area di oscillazione, cioè verso
una ristrutturazione sistemica del quadro sociale e organizzativo, per rendere
aperta a tutti la scuola come altre istituzioni sociali. Al di là di ogni buona
intenzione, accade l’esatto opposto, cioè il paradigma bio-medico fagocita
tutto, anche ciò che gli è ontologicamente estraneo.
Si fa presto infatti a evocare un’indipendenza dall’eziologia, come
pretende Dario Ianes (nella definizione dei Bes da cui siamo partiti), quando
poi ci si riferisce al concetto di «funzionamento» nell’ambito della salute.
Ianes cita infatti lo strumento che oggi ha determinato più di ogni altro una
trasformazione profonda nella percezione dello svantaggio sociale, ricorrendo a
un lessico nient’affatto neutrale. Tullio De Mauro, ragionando sui vari modi in
cui ci riferiamo alle diverse sfere della disabilità, ripeteva che la
discussione sulla terminologia in tale contesto incarna sempre una dura
battaglia culturale e politica. E aveva ragione. Oggi ha prevalso, in modo
radicale, il concetto di «funzionamento», mutuato appunto dall’Icf. Non c’è
corso d’aggiornamento per insegnanti in cui i relatori non si esprimano
ricorrendo a un lessico che riproduce la domanda sul «come funziona» un
determinato individuo, o la sua mente. Non è solo una questione di parole. Chi
controlla il linguaggio, diceva Gramsci, controlla la coscienza. E sul
linguaggio si giocano le battaglie culturali più importanti.
Il concetto di funzionamento è palesemente mutuato dall’universo simbolico
tecnologico-ingegneristico, che ha impresso la propria struttura
logico-operativa alla ricerca bio-medica. Ci chiediamo ordinariamente come
funziona un nuovo software o un elettrodomestico appena
acquistato. Ce lo chiediamo perché assumiamo come implicito il fatto che esso
abbia una o più funzioni definite, degli standard di efficienza, dei
comportamenti attesi, rispetto ai quali lo strumento funziona o non
funziona. Prevedibilmente, la trasposizione apparentemente innocua di
questo lessico in campo antropologico produce effetti non sempre prevedibili.
Lo schema è sempre lo stesso. Molto apprezzabile l’intuizione originaria che
sta alla base dell’Icf: non classifichiamo o non etichettiamo il singolo, ma le
sue dimensioni comportamentali o funzionali. L’Icf non è uno strumento classificatorio
dei disturbi. Ma vengono ordinate tutte le funzioni e le disfunzioni, e quindi
non ha direttamente a che fare con la disabilità, ma con gli schemi motori,
cognitivi e comportamentali di ciascun essere umano. Si tratta dunque di uno
strumento universale, che prescinde dalle condizioni di salute delle persone.
Tralasciamo ogni considerazione sulla sua complessità o completezza. Ma
l’effetto culturale è impossibile da gestire e si rivolta dialetticamente
contro le intenzioni dei suoi artefici. La classificazione Icf, di fatto,
disumanizza il soggetto. L’idea di aderire più o meno coerentemente a uno
schema astratto di condotta normale riduce l’individuo a cosa.
Esiste una possibile comparazione con un altro fenomeno sociale, che può
aiutarci a capire il sistema assiologico in cui ci muoviamo. Come gli studi
critici sul tema delle disabilità stanno sempre più mettendo in evidenza,
soprattutto negli Stati Uniti, esiste uno strettissimo legame tra razzismo e
abilismo. Due costrutti analogamente mobili sul piano storico sociale, sono
infatti quello di «razza» e quello di «deficit». Entrambi i costrutti
contribuiscono parallelamente a forgiare il nostro concetto di normalità[4]. Ma occorre accortezza, perché qui il
concetto di normalità non ha a che fare con la determinazione di ciò che è
mediamente accettabile. La norma è il bene, è lo standard cui
tutto deve tendere. L’essere umano normale è il bianco e atletico soggetto
disegnato sulla tavola anatomica. Tutto ciò che si distanzia dal modello
rientra nelle gradazioni della diversità. Questo vale sia da un punto di vista
organico che cognitivo. Per tale ragione persino un quoziente intellettivo
troppo elevato può essere considerato un problema, da trattare come caso
clinico. L’approccio bio-medico interviene per spuntare le eccedenze, in
qualsiasi forma esse si presentino. Ma non è un dato solo americano (negli
Stati Uniti è tra l’altro impressionante la sovrapponibilità quasi totale delle
diagnosi di disturbo e ritardo nell’apprendimento con l’appartenenza a gruppi
sociali ispanici o afro-americani). Sappiamo fin troppo bene come, fino pochi
decenni fa, i governi europei affrontavano, con politiche sanitarie senza
dubbio criminali, il rapporto con le diversità[5]. Il problema dunque è al di qua della
questione educativa, ed è quasi una pulsione pre-politica, fondata sul nostro
bisogno di normalizzare qualunque aspetto della vita. Un approccio alla
semplificazione e all’espulsione dell’eterogeneo, che è strettamente
connaturato allo sviluppo del capitalismo, come suo principale precipitato
culturale[6].
Nell’ultimo quarto di secolo l’insistenza sulla normalità, come
contrapposta alla disabilità, si è avvinghiata al concetto di indipendenza,
autonomia, diventando così la principale virtù della società liquida, nella
quale i legami sociali sono precari e deboli, e in cui le vecchie reti di
protezione sono scucite. Resta in piedi, come principale virtù dell’individuo
monadico, l’autosufficienza. Il soggetto dipendente è senz’altro considerato,
nella nostra società, meno desiderabile: «Tutto questo si traduce in situazioni
scolastiche in cui il punto di partenza e, allo stesso tempo, l’obiettivo da
raggiungere, è la norma, intesa quale spazio, ambito o distanza da compensare.
Il processo di normalizzazione è frutto dell’accumulo di conoscenza attraverso
l’osservazione, l’esame e la documentazione costanti che producono norme alle
quali gli individui sono comparati e incoraggiati a conformarsi»[7].
3.
Assai complesso è il tema. Se per un verso il ricorso a meccanismi di
etichettamento, specialmente se basati su un sistema di classificazione
bio-medica, tende in qualche modo a disumanizzare la persona, nella sua
non-conformità, rendendola meno umana dell’umano, è altrettanto vero che non è
possibile non distinguere. Solo una posizione inutilmente radicale può negare
la necessità di approfondire la conoscenza delle differenze, per meglio
adeguare i propri strumenti pedagogici, ripetendo il vecchio adagio: per
insegnare il latino a Giovannino, devi conoscere il latino… e Giovannino.
La domanda cruciale è se l’Icf sia un sistema di riferimento valido dal
punto di vista educativo, o se invece sia solo l’esplicitazione di un rapporto
autoritario nella gestione del potere biopolitico, funzionale a un
mascheramento dello stesso sotto le spoglie apparentemente neutrali
dell’autorità scientifica. In tal caso, sarebbe un film già visto, purtroppo. I
sedicenti «normodotati» hanno forse bisogno di un sistema di classificazione
sufficientemente asettico da potersi autoconvincere della oggettività e
correttezza delle discriminazioni operate? E soprattutto, tale classificazione
ha fini operativi? Certamente sì, perché è solo su quella base che «diviene
legittimo, e persino eticamente corretto, intervenire per modificare la
situazione dei corpi intralciati e disabilitati, perché essi – in quanto
inabili e dipendenti – vengono posti sotto la tutela dei pienamente umani», i
quali, a questo punto, dovranno «stabilire quali interventi siano i più
adeguati a ripristinare, correggere o altrimenti modificare una situazione
“inaccettabile” e “tragica”»[8].
Il dato interessante, è che proprio l’Icf, con le sue contraddizioni, ma
pure con la sua radicale fissazione sul concetto di funzionamento, produce il
connettore intrinseco tra riduzionismo bio-medico e burocratizzazione della
gestione della disabilità. Nell’ultimo secolo, la prassi e la natura della
burocrazia si sono sostanzialmente schiacciate sul taylorismo dei colletti
bianchi. L’idea dell’efficienza è subentrata a quella che una volta era
l’ossessione impiegatizia per la fedeltà. L’adesione al modello burocratico
semplifica la vita dell’insegnante privandolo della responsabilità del processo
decisionale. Il compito e l’onore del funzionario consistono appunto
nell’eseguire pedissequamente, e con efficienza, norme e direttive[9]. L’astratta burocratizzazione, così
ancorata al sapere medico, si avvia verso uno specialismo che finirà per
restringere la cerchia di coloro i quali saranno reputati «competenti»
nell’assumere decisioni educative nei confronti degli alunni con bisogni educativi
speciali.
4.
Al netto di tali considerazioni, tuttavia, l’inclusione è, e deve rimanere,
un obiettivo di cultura sociale da non mettere più in discussione. La
definizione che ne offre l’Unesco, da questo punto di vista, è emblematica:
«Risposta intenzionalmente organizzata al bisogno/diritto di istruzione di
tutti i soggetti esposti al rischio dell’esclusione sociale» (Dichiarazione di
Salamanca, 1994). Definizione, questa, perfettamente in linea con la nostra
Carta costituzionale e che, ponendo l’accento sulla dimensione sociale del
rischio, evita in qualche modo che quell’individualizzazione del «disturbo»
riceva una risposta di fatto indifferente alla modificazione del contesto. Il
tema politico è infatti questo, in realtà: se io mi concentro sull’individualità
del bisogno speciale, e offro a questo bisogno una risposta personalizzata,
cosa ho fatto per agire sul contesto? In che modo ho impedito che si
costituisse il rischio di esclusione?
Una didattica realmente inclusiva, capace di intervenire sul contesto,
richiederebbe maggiori strutture e soprattutto risorse, mentre un’inclusione a
metà è drammaticamente frustrante. La via di fuga nella burocratizzazione e
nell’etichettamento-delega è quasi un meccanismo di difesa attivato dagli
insegnanti. Un aspetto di questa difficoltà del Miur di dare seguito alle
proprie intenzioni, lo si può leggere nelle politiche salariali. Ogni novità e
specificazione didattica viene aggiunta a parità di salario. Non è la solita
lamentela, ma il frutto di un ragionamento lineare.
Se io avessi tre figli con tre diverse intolleranze alimentari – al
glutine, al lattosio, alle uova – mi troverei di fronte ad alcune alternative
possibili per organizzare la mia cucina. Potrei concentrarmi sugli alimenti
tollerati da tutti, e costruire una dieta basata solo su carne, pesce, riso,
vegetali. In tal caso, tuttavia, priverei ciascuno dei miei figli di alcuni
ingredienti importanti per un’alimentazione articolata e completa. In
alternativa, pur concentrandomi su quegli «alimenti condivisi», potrei gestire
dei completamenti di menù con delle personalizzazioni ad hoc. Un
po’ più complicato, ma fattibile. Richiederebbe molta attenzione e uno sforzo
aggiuntivo, ma risolverebbe solo in parte il problema. L’ideale, infatti,
sarebbe una dieta individualizzata. Dovrei dunque preparare pasti differenti
per ciascuno, sulla base del fabbisogno e delle intolleranze.
Un genitore lo fa. Si tratta di un lavoro aggiuntivo, molto gravoso, ma per
amore e per senso di responsabilità ci si sforza sempre di perseguire la strada
più adeguata.
Ma quando il Miur e alcuni psico-pedagogisti raccomandano la massima
attenzione ai bisogni individuali, dai plus-dotati alle esigenze degli studenti
con ritardi cognitivi, inducendo i docenti all’elaborazione di una sistematica
carrellata di Pei (Piani educativi individualizzati) e di Pdp –
comprensibilmente in aumento – e al tempo stesso chiedono di attribuire
valore pedagogico e non burocratico a quelle carte (costruendo azioni
didattiche personalizzate per ciascun allievo), di fatto esigono un lavoro, una
formazione e una quantità di tempo aggiuntivi, ma a parità di salario. Si
propone morbidamente una riduzione stipendiale. Alcuni insegnanti fanno questo
sforzo, inserendo nel proprio percorso professionale tanto lavoro sommerso, non
riconosciuto né retribuito. Ma quell’abnegazione non rende il tutto meno
ingiusto. Altri insegnanti, invece, imboccano la via d’uscita della
burocratizzazione, e nel facile ricorso a un riduzionismo bio-medico,
facilitato dal riferimento, anche normativo, all’Icf.
Quali soluzioni, dunque? Nella cultura e nell’immaginario collettivo,
l’idea della normalizzazione dev’essere progressivamente rivista, ma questo è
un obiettivo di lunghissimo periodo, che ha a che fare con strutture e
dinamiche intrinseche ai meccanismi produttivi e riproduttivi della società
contemporanea. Per quanto concerne la scuola, si potrebbe intanto rimuovere
ogni aspirazione alla definizione di standard e a contorte
pratiche valutative, magari iniziando con la cancellazione delle prove Invalsi.
Inoltre occorrerebbe disinnescare il dispositivo normativo e culturale in
base al quale viene scaricata la responsabilità di sistema sul singolo alunno.
L’etichetta «Bes», nei suoi effetti, determina la trasformazione del singolo in
un «caso», in un problema. Inizialmente ha rappresentato un indubbio passo
avanti, rispetto al passato, ma per via di un’intrinseca contraddizione, in
quella macro-categoria si annidano dei rischi degenerativi. Il bisogno
«speciale» è infatti determinato dalle aspettative e dall’organizzazione della
società e delle sue istituzioni, a cominciare da quella scolastica. Solo se
sottoposta a una trasformazione radicale la didattica può diventare «aperta» ad
altri modi di esistere e di apprendere, che a quel punto
smetterebbero di essere considerati problematici: «La domanda iniziale non sarà
più quale difficoltà non permetta all’alunno X di seguire la lezione, ma
piuttosto quali condizioni gli consentano – con determinate caratteristiche
individuali – di partecipare attivamente alla lezione»[10]. Ma per fare questo, siamo alle solite,
occorrono idee nuove e investimenti importanti, l’assenza dei quali è forse il
motivo principale del persistere di quello scarico di «responsabilità»
sull’alunno. Non mi riferisco solo ai fondi per la formazione del personale
scolastico, la quale è importante ma spesso di poco spessore. Intanto
bisognerebbe modificare radicalmente le condizioni di lavoro, attraverso un
dimezzamento del numero di alunni per classe. Una didattica personalizzata in
un gruppo di trenta alunni è mera ipocrisia.
In futuro bisognerebbe provare a uscire dalla definizione di piani
personalizzati, per approdare a programmazioni didattiche in cui siano
esplicitate tutte le strategie per favorire la partecipazione. Forse non
abbiamo bisogno di questa moltiplicazione di documenti. Pur acquisendo le
necessarie informazioni su storie e problematiche di ciascun allievo, il team dei
docenti e l’intera organizzazione scolastica dovrebbero progressivamente
assumere una programmazione unica, ma dotata di struttura flessibile e capace
di proporre diversi strumenti cui i diversi modi di esistere siano
parimente titolati a partecipare, ciascuno secondo le proprie specificità.
Altro aspetto non trascurabile concerne lo status del
docente: senza una politica salariale differente, quello status confermerà
la sua graduale precipitazione (la professione tende a divenire sempre meno
attrattiva per i laureati meglio preparati e motivati). Chi sceglie
l’insegnamento come semplice ripiego, difficilmente sarà incline a una messa in
questione permanente del proprio sistema di lavoro. Una nuova politica
salariale non è dunque necessaria soltanto per dare agli insegnanti l’occasione
e i mezzi per aggiornarsi e lavorare in sicurezza, ma deve acquisire il senso
della progressiva riqualificazione della professione docente in seno a un
sistema sociale avanzato.
Occorre dunque esser consci che senza una risposta di tipo sistemico, la
contraddizione piegherà nella sua peggiore prospettiva di caduta: un’esclusione
sociale derivata da processi di etichettamento e da inefficaci (perché
burocraticamente automatizzate) misure dispensative, e quell’esclusione rischia
di costituire l’essenza nascosta e profonda, di quella che continueremo a
chiamare, paradossalmente, «didattica inclusiva».
[1] Direttiva Miur
del 27 dicembre 2012: Strumenti d’intervento per alunni con bisogni
educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica.
[2] Si veda, in
particolare: D. Ianes, Bisogni Educativi Speciali e inclusione.
Valutare le reali necessità e attivare le risorse, Erickson, Trento 2005.
L’Icf (International Classification of Functioning, Disability and Health) è
una classificazione elaborata dell’Organizzazione Mondiale della Sanità,
approvata per la prima volta nel 2001, per mezzo della quale è articolato, in
modo sistematico, lo stato di salute delle persone in relazione al loro
ambiente fisico e sociale, definendo uno standard per la descrizione della
salute e garantire una corretta comunicazione tra professionisti del settore.
[3] Nota del Miur,
«Alunni con bisogni educativi speciali. Chiarimenti», prot. n. 562, 3 aprile
2019.
[4] Cfr. B.
Algozzine, Restrictiveness and Race in Special Education: Facts that
Remain Difficult to Ignore Anymore, «Learning Disabilities: A Contemporary
Journal»,, III, 1, 2005, pp. 64-69; S.A. Annaramma, D. Collins, B. Ferri, Dis/Ability
Critical Race Studies (Discrit): Theorizing at the Intersection of Race and
Dis/Ability, «Race Ethnicity and Education», XVI, 1, 2013, pp. 279-299.
[5] Si veda, ad
esempio, il recente e pregevole lavoro di Edith Scheffer, I bambini di
Asperger. La scoperta dell’autismo nella Vienna nazista, Marsilio, Venezia
2018.
[6][6] Cfr. L. J.
Davis, J’accuse: Cultural Imperialism- Ableist Style, «Social
Alternative», XVIII, 1, 1999, pp. 36-40.
[7] G. Vadalà, Pratiche
della disabilità nei contesti educativi: rappresentazioni e coordinate del
discorso scolastico, in Aa.Vv., Disability Studies e inclusione.
Per una lettura critica delle politiche educative, Erickson, Trento 2018,
pp. 71-92: 79.
[8] F.
Monceri, Disabilitazione e potere: presupposti, implicazioni, strategie,
in Aa.Vv., Disability Studies e inclusione, op. cit., pp. 27-44:
33.
[9] Si veda, su
questo tema: T. Klitsche de la Grange, Funzionarismo, LiberiLibri,
Macerata 2013.
[10] S.
D’Alessio, Formulare e implementare pratiche scolastiche inclusive:
riflessioni secondo la prospettiva dei Disability Studies, in Aa.Vv., Disability
Studies e inclusione, op. cit, pp. 121-140: 128.
un commento (di Piero Morpurgo):
Due considerazioni: 1) nelle scuole ormai è vigente il principio è il BES il DSA lo promuovo comunque perché non voglio rogne; 2) il certificato medico è superiore alla valutazione del docente, l’insegnante non può interloquire con o contestare il medico. Spesso ho chiesto al medico: mi fa vedere i test della sua diagnosi e semplicemente non c’erano. Una diagnosi deve contemplare una serie di quesiti diagnostici concreti e ripetibili: velocità di lettura e conseguente comprensione del testo etc. In particolare per il punto 2 l’affermazione della superiorità del certificato medico rispetto alla valutazione del Consiglio di Classe ( si sottolinea che il medico è scelto dal genitore e non è indipendente, i docenti in teoria sono indipendenti) è giuridicamente falsa e soprattutto deontologicamente. Ricordo che da insegnante di sostegno contestai la diagnosi di un primario di psichiatria, il preside mi appoggiò dicendomi porti le prove, ebbi le prove e il primario capitolò e il ragagazzo ottenne il diploma da ragazzo normale. Non sempre tutto ha successo: un ragazzo con sindrome di apgar alla nascita, a 17 anni aveva in italiano 7.5 e ho chiesto di togliere la disabilità: parere negativo della ASL. Un’ingiustizia profonda che riposa su automatismi e meccanismi legislativi che non contemplano l’umanità. Essere inclusivi vuol dire praticare la verità scientifica e non l’opportunità giuridica. Purtroppo a scuola è difficile. Molto.
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