lunedì 2 marzo 2020

intervista a Zehra Doğan


Avremo anche giorni migliori - Mimmo Cortese

Nei dipinti stesi sugli asciugamani – come quello delicatissimo e straziante, dedicato a Muğdat Ay, un bambino di 12 anni ucciso a Nusaybin – l’uso del colore (una penna a sfera, il tè) si fonde magistralmente con la trama della spugna, il tessuto non è solo un supporto, da esso emana e trascolora una storia dolorosa e vitale, fatta dei radi incontri con i cari in parlatorio, del sudore amaro asciugato dalla fronte, del profumo pulito della cura, degli scambi clandestini per portare le opere fuori dal carcere. L’esile ordito di riccio, curato con maestria – come nelle biglie strette forti tra le mani del piccolo corpo esangue di Muğdat Ay, o nel piumaggio multiverso del rapace che scortica senza pietà uomini e donne innocenti in “Gever” – ondeggia lievemente davanti a noi, come una scultura vivente che irriducibile resiste ad ogni oltraggio, ogni sopruso, certa che “arriveranno anche giorni migliori”. Asciugamani, camicie, lenzuola, assieme a bucce di melograno, sangue mestruale, curcuma e caffè sono gli strumenti della resistenza. L’eros delle donne di Zehra, anche quando esse sono torte, violate e maciullate, è più forte, prorompente e vitale del thanatos brutale degli oppressori. I giornali dipinti, colorati e disegnati, sono una doppia voce, quella dell’arte e della denuncia, intrecciate assieme dall’amore, dal bisogno di giustizia e di libertà per il popolo curdo, per ogni popolo oppresso.

Nelle sue interviste lei ha affermato di trarre ispirazione dalle vicende e dagli avvenimenti del Medio Oriente. Secondo lei, quali sono i nodi principali della regione?
Il nodo principale è l’impossibilità di usare la nostra lingua. Soprattutto a livello scolastico (educativo), viviamo in una regione dove la lingua, la cultura e l’arte curda non sono valorizzate, quando non considerate proprio, mentre c’è una storia, una cultura artistica molto forte, che vorremmo semplicemente esercitare dove viviamo, in Turchia.

La Turchia preoccupa i paesi europei per le gravi restrizioni alla libertà personale e di espressione, per le incarcerazioni di intellettuali e di presunti oppositori. Come vede il futuro del suo paese?
Credo che, se non accadranno cambiamenti, il futuro sarà ancora più preoccupante e, soprattutto, riguarderà – e riguarda già – i paesi occidentali. Oggi in Turchia vige un sistema basato sul nazionalismo e su un’educazione a base religiosa che tende ad emarginare le opposizioni. Il radicalismo religioso porta a situazioni ed organizzazioni che conosciamo molto bene.

Il popolo curdo aspira a veder riconosciuta la propria identità nazionale, culturale e linguistica, ma da oltre un secolo si scontra con difficoltà politiche insormontabili. Pensa che un giorno potrà esistere uno Stato curdo indipendente?
Tutti i popoli hanno il desiderio di affermarsi, di potere amministrarsi, di avere un sistema scolastico e di parlare nella propria lingua. Purtroppo nella geografia del Medio Oriente, con amministrazioni così dure, come in Iran e in Turchia, tutto questo è impossibile. D’altra parte non è quello che vogliamo. Vorremmo un’autonomia e un sistema più democratico, in cui poter parlare, insegnare ed educare nella nostra lingua, dove soprattutto la componente femminile abbia un ruolo molto più forte. Non desideriamo che ciò avvenga separandoci da uno Stato. Chiediamo un’autonomia democratica all’interno dello Stato.

L’occupazione da parte delle forze armate turche dell’area del Rojava ha come obiettivo principalmente i curdi di origini siriane. Quanto è grave questo ostacolo per le aspirazioni del popolo curdo nel suo complesso?
La Turchia parla sempre dei “nostri fratelli curdi”, ma non c’è alcun comportamento che giustifichi questa definizione, al contrario i curdi sono considerati terroristi, come pure la popolazione civile di cui Hevrin Kahlef faceva parte, anche se era una donna politica (Hevrin Khalef, 1984-2019, curda con cittadinanza siriana, segretaria generale del Partito della Siria del futuro, è stata uccisa da miliziani islamisti appoggiati dalla Turchia durante l’operazione militare turca contro le Forze democratiche siriane in Rojava il 12 ottobre 2019 – n.d.r.). Quello che è stato fatto a lei, e alla società civile, non rende ragione dell’espressione “i curdi sono nostri fratelli”. Infatti, non sono normalmente considerati tali. Ad esempio quello che stiamo cercando di realizzare in Rojava è un sistema non sessista, dove tutte le funzioni pubbliche siano assegnate a un uomo e a una donna, su un piano egualitario anzitutto rispetto al genere. Un sistema antisessista, dove tutte le religioni possano convivere, pensato non solo per i curdi del Rojava, ma per tutte le componenti e i popoli di quella regione, cosa inaccettabile per Stati come la Turchia e la Siria, i cui governi hanno una forte propensione ad uniformare il paese attorno ad un nazionalismo monocolore. Il Rojava invece propone un sistema completamente diverso, che cambierebbe anche le politiche con questi Stati confinanti.

L’arte è sempre stata un potente strumento di lotta contro le dittature e gli assolutismi. Quale ruolo potrebbe avere la sua? È immaginabile un’iniziativa di artisti turchi, siriani e di altri paesi, uniti – a livello internazionale – dalla lotta contro le dittature, le violazioni dei diritti umani, civili e delle libertà di parola, di espressione e di movimento di ogni essere umano del globo?
È una cosa che penso spesso e a cui credo molto. L’arte e gli artisti possono – anzi devono – assumere una posizione di resistenza insieme, perché solo così riusciranno a fare qualcosa contro i sistemi di estrema destra che stanno diffondendosi un po’ in tutto il mondo. La forza di un artista solo sicuramente non basta. Ci vuole una presa di posizione comune. I curdi non sono certo l’unico problema del mondo (magari fosse così). Basta vedere quello che sta succedendo in molte altre zone: in Cile, in Amazzonia e in molti altri luoghi. Quindi, certamente, è necessaria una comunità internazionale di artisti con una precisa presa di posizione, perché l’arte ha un’influenza più forte delle parole ed è capace di trasmettere dei valori in grado di cambiare le cose. All’arte viene attribuito un valore, per cui, ad esempio io sono entrata in questo momento nella storia dell’arte turca come un’artista politica. Il mio lavoro fra qualche anno diventerà, probabilmente, un archivio, che avrà appunto un’influenza documentale su ciò che è accaduto in quel momento storico.

Ha qualche artista di riferimento nella sua opera?
Sono molti i riferimenti artistici, in particolare penso all’opera di Nusaybin, che era stata accolta nell’ambiente curdo come una sorta di Guernica dei curdi, così anche quando mi sono ispirata all’Urlo di Munch. Ho adottato e trasformato nelle mie opere questi riferimenti più per quello che esprimono che sul piano artistico. Sono opere famose nel mondo che, pur realizzate decenni, o quasi un secolo fa, sono ancora attuali e purtroppo rappresentano situazioni per le quali c’è ancora bisogno di quel tipo di manifestazioni espressive.

Lei è finita in carcere per aver fatto un disegno. Che cosa c’è di tanto spaventoso in un disegno per le autorità turche? Perché temono tanto l’arte?
Hanno avuto paura perché la foto di quegli attacchi, a cui si è ispirato il mio disegno, è stata scattata dai militari, mostrata nei media principali, i media ufficiali, come la foto della vittoria. Quando ho fatto il disegno della stessa situazione ho mostrato la distruzione, ho disegnato e illustrato la stessa immagine ma da dentro, dal lato di qualcuno che era vittima di ciò che era rappresentato – dall’altra parte – come una vittoria. È come se avessi tenuto uno specchio davanti a loro. È come se si facesse un discorso democratico, dando un’immagine pulita, senza fare vedere ciò che è stato fatto dietro. Allora ho messo uno specchio davanti ai loro discorsi e ho fatto vedere da dentro quello che realmente era accaduto, per questo hanno avuto così paura.

Lei ha pagato un prezzo altissimo alla libertà di espressione: tre anni di carcere, trascorsi in parte in un carcere di massima sicurezza. Dove ha trovato la forza di resistere e continuare la sua opera di artista?
Poiché sono stata arrestata a causa dell’arte, ho capito che era qualcosa che potevo fare. Quando ho disegnato il quadro per il quale sono stata arrestata, quello di Nusaybin, eravamo in una casa da cinque mesi, non potevamo uscire a causa del coprifuoco. Il disegno l’ho fatto con un’applicazione del telefono, il cellulare era caricato con un generatore perché non c’era la corrente. Forse anche per questo, una volta che sono entrata in carcere per me non è stato così drammatico riuscire a continuare a disegnare con mezzi limitati, era proprio così che ero riuscita a raggiungere un pubblico. Quando ho visto che quei disegni riuscivano ad avere una forte influenza e a raccogliere sostegno al di fuori del carcere, nell’opinione pubblica, ho continuato a farlo. Ho resistito in questa maniera.

Lei è un’artista famosa anche per il suo impegno politico e giornalistico: se potesse farlo, quale messaggio vorrebbe far giungere agli artisti, scrittori, intellettuali, giornalisti rinchiusi nelle carceri turche?
In carcere ho imparato molte cose, soprattutto dalle persone che erano con me, sia dal punto di vista artistico, sia da quello politico e femminista. Per me è stata come una scuola da cui sono uscita rinforzata. Tutto ciò che è accaduto ha dimostrato ancora una volta che tramite l’arte si possono buttare giù i muri. Questo voglio ricordare a chi è ancora in prigione. Col pensiero, con l’arte, si può raggiungere l’esterno.

Lei ha diretto un’agenzia di stampa di sole donne e in carcere ha collaborato con altre donne detenute: crede vi sia uno specifico femminile nella lotta per la libertà, la democrazia, la pace, la solidarietà?
Credo che senza la componente femminile la lotta sarebbe molto più oscura e stretta nella sua dimensione, quello che rende l’apporto femminile così importante è la fiducia, la fede, il credere. Sono vissuta lavorando cinque anni in un ambiente di guerra, di lotta, e ho visto – anche vivendo in carcere con loro – come le donne abbiano questo atteggiamento di fronte a qualunque cosa succeda loro, continuando a credere e a comportarsi come se non stesse accadendo nulla, pur essendo vittime delle peggiori tragedie. Pur avendo perso dei parenti, dei figli, riescono comunque a vedere l’orizzonte. Vorrei fosse chiaro che la fede di cui sto parlando non è una fede religiosa, è la fede nella propria forza, nel credere che ci sia un futuro. Vedere l’orizzonte è continuare a procedere verso la porta principale.

Oltre alla Francia e all’Italia, porterà il suo messaggio di libertà e pace in altri paesi?
Sì, in questo momento ci sono esposizioni in vari luoghi, negli Stati Uniti, a Washington, New York e in Svizzera. A febbraio ci sarà una mostra in Inghilterra. Ora vivo a Londra perché da lì ho ricevuto un invito, ma in realtà sono spesso in giro a presentare le mie opere. Soprattutto ho intenzione di costituire un atelier per sole donne e artiste in Rojava. Sto lavorando su questo, per continuare a diffondere queste esperienze di libertà e avere giorni migliori.

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