Avremo anche giorni migliori - Mimmo
Cortese
Nei dipinti stesi sugli asciugamani – come quello delicatissimo e
straziante, dedicato a Muğdat Ay, un bambino di 12 anni ucciso a Nusaybin –
l’uso del colore (una penna a sfera, il tè) si fonde magistralmente con la
trama della spugna, il tessuto non è solo un supporto, da esso emana e
trascolora una storia dolorosa e vitale, fatta dei radi incontri con i cari in
parlatorio, del sudore amaro asciugato dalla fronte, del profumo pulito della
cura, degli scambi clandestini per portare le opere fuori dal carcere. L’esile
ordito di riccio, curato con maestria – come nelle biglie strette forti tra le
mani del piccolo corpo esangue di Muğdat Ay, o nel piumaggio multiverso del
rapace che scortica senza pietà uomini e donne innocenti in “Gever” – ondeggia
lievemente davanti a noi, come una scultura vivente che irriducibile resiste ad
ogni oltraggio, ogni sopruso, certa che “arriveranno anche giorni migliori”. Asciugamani,
camicie, lenzuola, assieme a bucce di melograno, sangue mestruale, curcuma e
caffè sono gli strumenti della resistenza. L’eros delle donne di Zehra, anche
quando esse sono torte, violate e maciullate, è più forte, prorompente e vitale
del thanatos brutale degli oppressori. I giornali dipinti, colorati e
disegnati, sono una doppia voce, quella dell’arte e della denuncia, intrecciate
assieme dall’amore, dal bisogno di giustizia e di libertà per il popolo curdo,
per ogni popolo oppresso.
Nelle sue interviste lei ha affermato di trarre ispirazione dalle vicende e
dagli avvenimenti del Medio Oriente. Secondo lei, quali sono i nodi principali
della regione?
Il nodo principale è l’impossibilità di usare la nostra lingua. Soprattutto
a livello scolastico (educativo), viviamo in una regione dove la lingua, la
cultura e l’arte curda non sono valorizzate, quando non considerate proprio,
mentre c’è una storia, una cultura artistica molto forte, che vorremmo
semplicemente esercitare dove viviamo, in Turchia.
La Turchia preoccupa i paesi europei per le gravi restrizioni alla libertà
personale e di espressione, per le incarcerazioni di intellettuali e di
presunti oppositori. Come vede il futuro del suo paese?
Credo che, se non accadranno cambiamenti, il futuro sarà ancora più
preoccupante e, soprattutto, riguarderà – e riguarda già – i paesi occidentali.
Oggi in Turchia vige un sistema basato sul nazionalismo e su un’educazione a
base religiosa che tende ad emarginare le opposizioni. Il radicalismo religioso
porta a situazioni ed organizzazioni che conosciamo molto bene.
Il popolo curdo aspira a veder riconosciuta la propria identità nazionale,
culturale e linguistica, ma da oltre un secolo si scontra con difficoltà
politiche insormontabili. Pensa che un giorno potrà esistere uno Stato curdo
indipendente?
Tutti i popoli hanno il desiderio di affermarsi, di potere amministrarsi,
di avere un sistema scolastico e di parlare nella propria lingua. Purtroppo
nella geografia del Medio Oriente, con amministrazioni così dure, come in Iran
e in Turchia, tutto questo è impossibile. D’altra parte non è quello che
vogliamo. Vorremmo un’autonomia e un sistema più democratico, in cui poter
parlare, insegnare ed educare nella nostra lingua, dove soprattutto la
componente femminile abbia un ruolo molto più forte. Non desideriamo che ciò
avvenga separandoci da uno Stato. Chiediamo un’autonomia democratica
all’interno dello Stato.
L’occupazione da parte delle forze armate turche dell’area del Rojava ha
come obiettivo principalmente i curdi di origini siriane. Quanto è grave questo
ostacolo per le aspirazioni del popolo curdo nel suo complesso?
La Turchia parla sempre dei “nostri fratelli curdi”, ma non c’è alcun
comportamento che giustifichi questa definizione, al contrario i curdi sono considerati
terroristi, come pure la popolazione civile di cui Hevrin Kahlef faceva parte,
anche se era una donna politica (Hevrin Khalef, 1984-2019, curda con
cittadinanza siriana, segretaria generale del Partito della Siria del
futuro, è stata uccisa da miliziani islamisti appoggiati dalla Turchia
durante l’operazione militare turca contro le Forze democratiche
siriane in Rojava il 12 ottobre 2019 – n.d.r.). Quello che
è stato fatto a lei, e alla società civile, non rende ragione dell’espressione
“i curdi sono nostri fratelli”. Infatti, non sono normalmente considerati tali.
Ad esempio quello che stiamo cercando di realizzare in Rojava è un sistema non
sessista, dove tutte le funzioni pubbliche siano assegnate a un uomo e a una
donna, su un piano egualitario anzitutto rispetto al genere. Un sistema
antisessista, dove tutte le religioni possano convivere, pensato non solo per i
curdi del Rojava, ma per tutte le componenti e i popoli di quella regione, cosa
inaccettabile per Stati come la Turchia e la Siria, i cui governi hanno una
forte propensione ad uniformare il paese attorno ad un nazionalismo monocolore.
Il Rojava invece propone un sistema completamente diverso, che cambierebbe
anche le politiche con questi Stati confinanti.
L’arte è sempre stata un potente strumento di lotta contro le dittature e
gli assolutismi. Quale ruolo potrebbe avere la sua? È immaginabile
un’iniziativa di artisti turchi, siriani e di altri paesi, uniti – a livello
internazionale – dalla lotta contro le dittature, le violazioni dei diritti
umani, civili e delle libertà di parola, di espressione e di movimento di ogni
essere umano del globo?
È una cosa che penso spesso e a cui credo molto. L’arte e gli artisti
possono – anzi devono – assumere una posizione di resistenza insieme, perché
solo così riusciranno a fare qualcosa contro i sistemi di estrema destra che
stanno diffondendosi un po’ in tutto il mondo. La forza di un artista solo
sicuramente non basta. Ci vuole una presa di posizione comune. I curdi non sono
certo l’unico problema del mondo (magari fosse così). Basta vedere quello che
sta succedendo in molte altre zone: in Cile, in Amazzonia e in molti altri
luoghi. Quindi, certamente, è necessaria una comunità internazionale di artisti
con una precisa presa di posizione, perché l’arte ha un’influenza più forte
delle parole ed è capace di trasmettere dei valori in grado di cambiare le
cose. All’arte viene attribuito un valore, per cui, ad esempio io sono entrata
in questo momento nella storia dell’arte turca come un’artista politica. Il mio
lavoro fra qualche anno diventerà, probabilmente, un archivio, che avrà appunto
un’influenza documentale su ciò che è accaduto in quel momento storico.
Ha qualche artista di riferimento nella sua opera?
Sono molti i riferimenti artistici, in particolare penso all’opera di
Nusaybin, che era stata accolta nell’ambiente curdo come una sorta di Guernica dei
curdi, così anche quando mi sono ispirata all’Urlo di Munch. Ho
adottato e trasformato nelle mie opere questi riferimenti più per quello che
esprimono che sul piano artistico. Sono opere famose nel mondo che, pur
realizzate decenni, o quasi un secolo fa, sono ancora attuali e purtroppo
rappresentano situazioni per le quali c’è ancora bisogno di quel tipo di
manifestazioni espressive.
Lei è finita in carcere per aver fatto un disegno. Che cosa c’è di tanto
spaventoso in un disegno per le autorità turche? Perché temono tanto l’arte?
Hanno avuto paura perché la foto di quegli attacchi, a cui si è ispirato il
mio disegno, è stata scattata dai militari, mostrata nei media principali, i
media ufficiali, come la foto della vittoria. Quando ho fatto il disegno della
stessa situazione ho mostrato la distruzione, ho disegnato e illustrato la
stessa immagine ma da dentro, dal lato di qualcuno che era vittima di ciò che
era rappresentato – dall’altra parte – come una vittoria. È come se avessi
tenuto uno specchio davanti a loro. È come se si facesse un discorso
democratico, dando un’immagine pulita, senza fare vedere ciò che è stato fatto
dietro. Allora ho messo uno specchio davanti ai loro discorsi e ho fatto vedere
da dentro quello che realmente era accaduto, per questo hanno avuto così paura.
Lei ha pagato un prezzo altissimo alla libertà di espressione: tre anni di
carcere, trascorsi in parte in un carcere di massima sicurezza. Dove ha trovato
la forza di resistere e continuare la sua opera di artista?
Poiché sono stata arrestata a causa dell’arte, ho capito che era qualcosa
che potevo fare. Quando ho disegnato il quadro per il quale sono stata
arrestata, quello di Nusaybin, eravamo in una casa da cinque mesi, non potevamo
uscire a causa del coprifuoco. Il disegno l’ho fatto con un’applicazione del
telefono, il cellulare era caricato con un generatore perché non c’era la
corrente. Forse anche per questo, una volta che sono entrata in carcere per me
non è stato così drammatico riuscire a continuare a disegnare con mezzi
limitati, era proprio così che ero riuscita a raggiungere un pubblico. Quando
ho visto che quei disegni riuscivano ad avere una forte influenza e a
raccogliere sostegno al di fuori del carcere, nell’opinione pubblica, ho
continuato a farlo. Ho resistito in questa maniera.
Lei è un’artista famosa anche per il suo impegno politico e giornalistico:
se potesse farlo, quale messaggio vorrebbe far giungere agli artisti,
scrittori, intellettuali, giornalisti rinchiusi nelle carceri turche?
In carcere ho imparato molte cose, soprattutto dalle persone che erano con
me, sia dal punto di vista artistico, sia da quello politico e femminista. Per
me è stata come una scuola da cui sono uscita rinforzata. Tutto ciò che è
accaduto ha dimostrato ancora una volta che tramite l’arte si possono buttare
giù i muri. Questo voglio ricordare a chi è ancora in prigione. Col pensiero,
con l’arte, si può raggiungere l’esterno.
Lei ha diretto un’agenzia di stampa di sole donne e in carcere ha
collaborato con altre donne detenute: crede vi sia uno specifico femminile
nella lotta per la libertà, la democrazia, la pace, la solidarietà?
Credo che senza la componente femminile la lotta sarebbe molto più oscura e
stretta nella sua dimensione, quello che rende l’apporto femminile così
importante è la fiducia, la fede, il credere. Sono vissuta lavorando cinque
anni in un ambiente di guerra, di lotta, e ho visto – anche vivendo in carcere
con loro – come le donne abbiano questo atteggiamento di fronte a qualunque
cosa succeda loro, continuando a credere e a comportarsi come se non stesse
accadendo nulla, pur essendo vittime delle peggiori tragedie. Pur avendo perso
dei parenti, dei figli, riescono comunque a vedere l’orizzonte. Vorrei fosse
chiaro che la fede di cui sto parlando non è una fede religiosa, è la fede
nella propria forza, nel credere che ci sia un futuro. Vedere l’orizzonte è
continuare a procedere verso la porta principale.
Oltre alla Francia e all’Italia, porterà il suo messaggio di libertà e pace
in altri paesi?
Sì, in questo momento ci sono esposizioni in vari luoghi, negli Stati
Uniti, a Washington, New York e in Svizzera. A febbraio ci sarà una mostra in
Inghilterra. Ora vivo a Londra perché da lì ho ricevuto un invito, ma in realtà
sono spesso in giro a presentare le mie opere. Soprattutto ho intenzione di
costituire un atelier per sole donne e artiste in Rojava. Sto
lavorando su questo, per continuare a diffondere queste esperienze di libertà e
avere giorni migliori.
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