Jacques Brel
amava ripetere che l’essere umano necessita di un solo talento: avere dei
sogni. Il resto, diceva, non è che sudore e disciplina. Con il candore dei
visionari, esortava tutti a “sognare un sogno impossibile”, rêver un
impossibile rêve, dando voce e corpo alla dismisura dell’animo umano
(succedeva nella commedia musicale L’homme de la Mancha, portata in
scena nel 1968, dove Brel interpretava Don Chisciotte). Quanto più impossibile
quel sogno, sosteneva, tanto più la nostra vita sarà stata degna d’essere
vissuta.
Il destino
di Jacques Brel, senza quel suo sogno smisurato (in principio, conquistare
Parigi con le sue canzoni; più avanti, dedicarsi al cinema, al teatro,
diventare pilota d’aereo, solcare i mari del sud), sarebbe stato con ogni
probabilità quello di fare di conto nel cartonificio del padre. La
grisaille. La grigia e rispettabile vita del borghese (“Les bourgeois”, non
dimentichiamo, “c’est comme les cochons: plus ça devient vieux, plus ça devient
bête”; i borghesi sono come i maiali: più invecchiano e più istupidiscono).
Proprio come Georges Brassens e Leo Ferré, anche Brel arrivava dalla provincia.
Brassens sbarcò a Parigi da Sète, nel sud del paese; Leo Ferré si trasferì nella
capitale dal Principato di Monaco; Jacques Brel, cittadino di provincia, era
cresciuto a Bruxelles. Per capire quanto il Belgio fosse considerato provincia
dai parigini sul piano culturale (e quanto provinciale, di conseguenza, fu
inizialmente percepito Brel dai parigini), basterebbe la frase apparsa su France-Soir all’indomani
di uno dei suoi primi concerti: “ricordiamo a Brel che esistono degli ottimi
treni per Bruxelles”.
Quella che
sulle prime parve una tara insormontabile, si trasformò ben presto in un’arma
di conquista. Sul palcoscenico Brel dava sì corpo all’impaccio di chi avrebbe
voluto essere altrove, mai disinvolto, un’inadeguatezza che lo prendeva alla
gola, terrore allo stato puro (prima di ogni spettacolo era solito vomitare
dietro le quinte, se teneva tre spettacoli al giorno, vomitava tre volte), ma
riusciva poi a compensare quell’handicap con delle performance ad alto
contenuto scenografico, estenuanti sul piano fisico ma estremamente
coinvolgenti sul piano emotivo. Quello di Brel era un corpo in perenne
tensione. Fisso al centro della scena, munito di lunghe braccia e dotato di
un’eloquenza che sconfinava spesso nella pantomima, concentratissimo, uno stato
di allarme che s’insinuava in ogni strofa, l’abbondante salivazione con
relativa irrorazione delle prime file durante il concerto, tutto contribuiva,
agli occhi dello spettatore, a trasmettere un senso di autenticità, di
groviglio emotivo e di tormento morale che non poteva significare altro che la
totale dedizione alla propria arte. In questo seppe far sua la lezione di Yves
Montand, per il quale il corpo era tenuto a parlare sul palcoscenico. A Brel fu
subito chiaro che darsi senza riserve era l’unico modo di affrontare il
pubblico. Bisognava scendere stremati dal palco. Niente bis. Quel che si è dato
si è dato. La pozza di sudore sotto il microfono avrebbe certificato non solo
lo sforzo, ma l’onestà dell’artista.
Brel si
dichiarava spavaldamente germanico e barbaro, e si riferiva alla sua identità
in termini di belgitude (a immagine della negritude,
come fiera rivendicazione di una cultura altra). Nel 1973, nel corso di
un’intervista televisiva, acciambellato sulle dune delle Fiandre, dichiarò: “le
peuple d’ici c’est pas très beau, c’est pas très intelligent, c’est pas très
cultivé, ça fait partie des caractéristiques des peuples rudes”; “la gente di
qui non è particolarmente bella, non è particolarmente intelligente, né troppo
acculturata, tutti tratti distintivi dei popoli rozzi”. Visse e cantò
questa belgitudine con commozione (Mon père disait; Le
plat pays; Marieke; Il neige sur Liège; Mon
enfance; Mai ’40: “Quelques Allemands disciplinés /
Qui écrasaient ma belgitude”; Dei tedeschi disciplinati, che calpestavano la
mia belgitudine), ma anche in tono sarcastico o derisorio (Les flamandes; Les
bonbons; Les F.). Considerava il Belgio un luogo dello spirito,
artificiale e tutto da inventare. “La grande couleur de ce pays c’est le rouge,
parce que il n’y en a pas” disse ancora. “C’est la loi des minorités. C’est un
pays sans horizon”; “il grande colore di questo paese è il rosso, perché non ve
n’è traccia. È la legge delle minoranze. Questo è un paese che non ha
orizzonte”. Il Belgio aveva lasciato in Brel un’impronta indelebile. L’accento
di Bruxelles anzitutto, quel francese aspro e già quasi vichingo, ma anche il
ricordo dell’odore della zuppa di cavoli nella cucina di mamma Lisette. Il
fascino che Brel esercitava sul pubblico fu spesso fatto risalire proprio alle
sue origini. Nell’ottobre del ’64, dopo un recital all’Olympia, e quando Brel
era già un gigante della canzone francese, la giornalista Claude Sarraute
rinnovava lo stereotipo scrivendo su Le Monde: “Jacques Brel
s’inchinava, il sudore sulla fronte e sulle labbra, il sorriso stupito e
tranquillo del ragazzo del plat pays”. Per i parigini era
importante che continuasse a essere soprattutto questo. L’enfant du
plat pays. Erano disposti a perdonargli tutto, l’ingenuità, la goffaggine e
l’umiliazione (Ne me quitte pas; “un uomo non dovrebbe cantare queste
cose”, lo aveva benevolmente redarguito Edith Piaf), quella sua risata da
osteria e la mancanza di raffinatezza (in una parola, il provincialismo),
purché confermasse, insieme con Ferré e Brassens, la sua duplice identità:
origine provinciale ma statuto d’artista che riconosceva implicitamente il
primato culturale della capitale (fu Parigi a certificare il suo valore, e a
decretare il suo successo).
A Brel in
verità tutto questo importava poco. Antinazionalista e pacifista convinto,
restò ai margini delle questioni politiche inerenti l’identità francese e
francofona, peccato coloniale compreso (fa eccezione la canzone Jaurès,
dedicata al politico e fondatore del giornale L’humanité Jean
Jaurès, assassinato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale). Questo non
significa che non si sentisse in debito con la Francia e con la cultura
francese, e che ne avesse persino soggezione. Fra gli autori preferiti, ça
va sans dire, Antoine de Saint-Exupéry, lo scrittore-aviatore; côté
musique, gli amati Debussy e Ravel. A differenza di molti suoi colleghi,
Brel si mostrò sempre freddo e scettico nei confronti dei modelli culturali di
provenienza anglosassone, perfettamente consapevole dell’omologazione che
s’andava prefigurando (a questa omologazione Brel sottraeva il mito del far
west; ma più che l’America, lì, contava probabilmente la manutenzione
dell’infanzia). Va anche ricordato che Brel, al pari di Brassens e Ferré, non
aveva conosciuto l’ubriacatura per il jazz che aveva invece infiammato Boris
Vian, Henri Salvador, Charles Aznavour, Sacha Distel o Serge Gainsbourg, ovvero
i parigini DOC della chanson. Al jazz Brel preferiva di gran lunga
le orchestrazioni di François Rauber, capaci di esaltare il crescendo emotivo
di molte sue canzoni (Les prénoms de Paris, Madeleine, La
valse à mille temps, Ces gens-là), oppure le ballate in cui
lasciava affiorare i ricordi e l’eco della sua belgitude, con tutta
la pregnanza e l’esemplarità epica che la ballata sottende. Il jazz, al pari
del tango o di altri ritmi esotici, serviva piuttosto a Brel per caratterizzare,
spesso in chiave comica o grottesca, alcune delle storie che metteva in musica.
Nell’impermeabilità
di Brel al jazz prima, e al rock poi, oltre che nella volontà di muoversi
dentro dei modelli se non proprio intrinsecamente francesi, quanto meno
modellati su forme riconoscibili e appartenenti alla tradizione europea (la
ricorrenza della ballata, ma anche del tempo di valzer, che infondeva un
movimento e una cadenza ideali alle sue canzoni), potremmo cogliere uno dei
motivi della sua straordinaria popolarità in terra di Francia. Per non dire
della fisarmonica, strumento dal polmone possente e dal respiro viscerale, di
cui Brel si serviva alla stregua di un ordigno da collocare direttamente nel
ventre dell’ascoltatore. Tanto convenzionale era la forma attraverso cui aveva
scelto di esprimersi (valeva per lui, ma anche per Ferré e Brassens), quanto
eversive erano invece le premesse. Brel, Brassens e Ferré pensavano e
praticavano la canzone muovendo da presupposti del tutto diversi rispetto alla
tradizione della chanson francese, che aveva contribuito in
modo rilevante alla definizione dell’identità nazionale. Senza l’esempio
tracciato su questo piano dalla generazione dei Brel, quello cioè di una
canzone di spirito anarchico e segnatamente antinazionalista impostasi su scala
nazional-popolare, sarebbe impossibile immaginare qualcosa come la versione
reggae della Marsigliese che Serge Gainsbourg registrò nel
1979 a Kingston, con dei musicisti giamaicani (Aux armes et cætera).
Quella versione della Marsigliese si rivelò una provocazione
che andava ben oltre l’impertinenza di farsi uno spinello con l’inno francese.
Gainsbourg, con quel canto rivoluzionario messo in levare, poneva di fatto le
basi per una revisione del ruolo che la canzone avrebbe dovuto svolgere nella
definizione di una nuova identità nazionale.
Di recente
Paul McCartney (76 primavere) ha raccontato di aver chiesto a Willie Nelson
(85) se avesse mai pensato di ritirarsi. Fulminante la risposta di
Nelson: retire from what? – ritirarsi da che? Nel maggio del
1967, quando si esibì nell’ultimo recital, Jacques Brel aveva 38 anni, la metà
degli anni di Paul McCartney oggi. La decisione era nell’aria, Brel aveva la
sensazione di non aver più nulla da dire ed era sempre assillato dalla domanda che
aveva determinato ogni sua scelta: sérait-t-il impossible de vivre
debout? (dalla canzone Vivre debout; sarebbe dunque
impossibile vivere in posizione eretta?). Tutto avrebbe voluto fuorché finire i
suoi i giorni come una vecchia vedette in un night-club di Knokke-Le-Zoute. Fra
il giorno del suo ultimo concerto (16 maggio 1967) e la pubblicazione di Sgt.
Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (1° giugno 1967), passano
appena 15 giorni, ma la sensazione è che fra le due date corra uno spartiacque.
Brel ebbe la prontezza di voltare pagina prima che fosse la storia ad occuparsi
di lui. Dopo di allora s’impegnò con alterne fortune nel cinema (dieci film fra
il 1968 e il ’73, due dei quali anche da regista), nel teatro musicale (il Don
Chisciotte nel 1968), ma soprattutto partì all’avventura, pilotando il suo
aereo e attraversando prima l’Atlantico e poi il Pacifico in barca a vela, fino
alla decisione di trasferirsi definitivamente in Polinesia. Nel 1977, già
gravemente malato, tornò a Parigi per sottoporsi a cure mediche e per incidere
in gran segreto un ultimo disco, Les marquises, concepito
sull’isola di Hiva Oa nell’arcipelago delle Marchesi, sua ultima dimora, dove
oggi riposa a pochi metri dalla tomba dell’amato Paul Gauguin.
Al Brel
interprete, dimissionario della canzone, sopravvisse il personaggio Brel.
Fedele al suo credo, decise di non disertare il sognatore, trasformandosi, suo
malgrado, in un oracolo in fuga. Brel non era soltanto ammaliante, era
contagioso. Lo si amasse o meno, era impossibile che lasciasse indifferenti.
Intellettualmente acuto, sopperiva alla mancanza di erudizione con l’agilità
del pensiero. E se mai veniva meno l’acutezza, c’era pur sempre quella risata
beffarda. La sua debordante vitalità era pari solo all’audacia con cui sfidava
le convenzioni (le regole del vivere, i doveri famigliari e matrimoniali, e in
genere la condizione di sudditanza dell’individuo). Brel avrebbe saputo dare la
sveglia anche al sognatore più recalcitrante (“ma fonction c’est de clarifier
les rêves des gens qui n’ont pas le temps de s’occuper de leurs rêves, ou de
brouiller la douleur des gens qui ne savent pas très bien à quoi ils ont mal”;
“la mia funzione” dichiarò, “è quella di rendere espliciti i sogni a chi non ha
il tempo di occuparsene, o di distogliere dal dolore le persone che non
conoscono la natura del male che li affligge”). Evocato il sogno, aveva poi
l’ardire di spingersi fin sul crinale che separa il desiderio dal suo
esaudimento, consapevole che è proprio su quel fronte che gli uomini sovente
compiono sé stessi oppure falliscono. Era convinto che la cosa difficile, per
un uomo che abita a Vilvoorde e vuole andare a vivere a Hong Kong, non è
trasferirsi a Hong Kong ma lasciare Vilvoorde, perché una volta a Hong Kong,
diceva, tutto si sistema da sé, posto che si goda di buona salute e che si
coltivi una follia. Hong Kong è alla portata di chiunque, ma mollare Vilvoorde…
ecco la vera sfida. Sbagliare, per inciso, non conta. La libertà, insisteva
Brel, consiste nell’esercitare il diritto all’errore. Il successo non è mai
prova di libertà, mentre il fallimento lo è. E gli uomini, concludeva, fanno
troppo poco uso della libertà.
Le canzoni
di Brel, ogni volta che le si riascolta, procurano lo stesso brivido. Anche
quarant’anni dopo la sua morte. È la vertigine dell’abisso, il nostro abisso,
sul quale Brel invita a sostare senza timore. L’ammirazione per Brel non
discende soltanto dalla sua arte, ma anche dall’emozione che l’interprete Brel
suscita in noi. È lui la scintilla. Per riuscite che siano le interpretazioni
altrui (si pensi in particolare al Brel di Juliette Gréco, che come Ella
Fitzgerald aveva facoltà di interpretare ogni cosa non solo con pertinenza, ma
persuadendo l’ascoltatore nel profondo, come se ogni canzone fosse stata scritta
appositamente per lei), le canzoni di Brel, senza Brel, appaiono orfane. C’è
una ragione precisa perché questo accade, e va ricercata, come sottolinea il
suo biografo e amico Olivier Todd, nel fatto che la prosodia di Brel
“s’accomplit dans son chant, par sa bouche” – si compie nel suo canto,
attraverso la sua bocca. Il ritmo del verso di Brel si rivela nell’interprete
Brel, nel modo in cui Brel scandisce e accenta le parole. Per sentire il suo
verso e per cogliere il ritmo delle sue frasi, è necessario prestare orecchio
al cantante Brel.
Che fare
dunque? Beh, anzitutto mostrare cautela nell’interpretare Brel. In secondo
luogo consumare i suoi dischi, o procurarsi i DVD che lo colgono in scena,
dietro le quinte, oppure ai comandi del suo piccolo aereo, un Beechcraft 50
Twin Bonanza, intento a trasportare una donna incinta, un medico, oppure la
posta da un’isola all’altra nell’arcipelago delle Marchesi, infine sgravato dai
problemi del mondo. È l’ultimo Brel, quello polinesiano, l’uomo che pare più
prossimo al sognatore sfuggito al cartonificio del padre molti anni prima. Fox
Oscar Delta Bravo Uniforme, FODBU, è l’ultimo ritornello di cui si ha notizia,
quello con cui si faceva riconoscere dalle torri di controllo polinesiane. Con
gli amici parla ormai di rotte, degli alisei, di come sia la mancanza di vento
a fermare il tempo alle isole Marchesi (“Et par manque de brise le temps
s’immobilise / Aux Marquises”, dalla canzone Les marquises), e
parla infine della sua malattia. Da quel temerario che è, lo fa con
spavalderia, infischiandosene della morte: en tout cas, moi je suis
foutu – ad ogni modo, io sono spacciato. A chi prova a distoglierlo
dal pensiero, o soltanto a infondergli un filo di speranza, risponde come
avrebbe verosimilmente fatto un personaggio delle sue canzoni: mort aux
cons! – a morte gli imbecilli! Fedele a sé stesso fino all’ultimo.
Molti anni prima, rivolgendosi alla moglie Miche ne La chanson des
vieux amants, aveva già mirabilmente riassunto la sua parabola di
vita: il nous fallut bien du talent / pour être vieux sans être adultes –
ce n’è voluto del talento, per invecchiare senza diventare adulti. Missione
compiuta, aviatore Brel.
Nessun commento:
Posta un commento