Si prepara sull’Europa
la tempesta perfetta. Provate solo ad
immaginare che cosa si scatenerebbe nell’opinione pubblica già stordita dal
panico per la diffusione dell’epidemia se si dovesse sapere che fra le decine
di migliaia di disperati che stanno cercando di entrare in Grecia c’è qualche
caso di contagio da virus corona. È tutt’altro che
inverosimile e non dev’essere necessariamente vero: da qualche parte nei
meandri della Rete, quasi certamente qualcuno lo ha scritto o lo scriverà. O
qualche salvini lo dirà, se non l’ha già fatto, in un comizio. Non c’è da
farsi illusioni: l’invasione dei killer invisibili e quella dei visibilissimi
uomini, donne e bambini (tanti bambini, come non se n’erano visti prima) spinti
brutalmente dai turchi verso il filo spinato, le bastonate, i colpi di fucili
dei poliziotti greci fanno già un tutt’uno nell’immaginario collettivo. Sono,
l’uno e l’altro, il segnale di un fallimento epocale. L’Europa affonda nella
paura, negli egoismi, nell’insipienza. Il disastro della sua incompletezza.
Sotto gli occhi di
Frontex
Abbiamo visto un
canotto stracarico di persone allontanato a forza dai militari che avrebbe
dovuto trarlo in salvo, un altro rovesciato dall’onda di una motovedetta
lanciata a tutta velocità. Un bambino è affogato e i greci accusano i turchi e
i turchi accusano i greci. Se ci fosse un giudizio in tribunale (una Corte
internazionale ci sarebbe pure ma crediamo proprio che nessuno finirà al
cospetto dei giudici) verrebbero condannati gli uni e gli altri.
Abbiamo visto spari
sull’acqua per impedire ai profughi di gettarsi in mare. Non erano le bande
degli aguzzini delle milizie libiche travestiti da guardie a recitare la
propria parte in questa tragedia. Erano, sono le forze dell’ordine di uno stato
dell’Unione europea, cioè della comunità di cui condivide, sulla carta, i
valori, i princìpi e le tutele dei diritti umani. E
i militari che sono sul campo, da una parte e dall’altra: quelli che cacciano e
quelli che respingono, obbediscono agli ordini dei comandi della nostra stessa
alleanza, la NATO. Dovrebbero dar conto
delle loro azioni al comandante supremo militare, che è un americano, al
Segretario Generale, che è un norvegese, al Consiglio, nel quale ci siamo anche
noi.
Abbiamo visto i
poliziotti sparare lacrimogeni e pallottole di gomma sulle famiglie, mitra
spianati, bambine e bambini stretti al petto delle madri lottare per respirare.
Sono le scene forse più dure da quando è cominciata la tragedia collettiva che
abbiamo chiamato la “rotta balcanica” e che ora si sta riproponendo in
condizioni ancora più difficili. E stavolta tutto è avvenuto, avviene, sotto
gli occhi dei funzionari di Frontex,
l’agenzia europea che dovrebbe vigilare sulla sicurezza delle frontiere esterne
dell’Unione.
Sicurezza? Vigilare? I
soldati olandesi del contingente dell’ONU che assisté senza intervenire al
massacro di Srebenica, nel 1995, furono almeno duramente criticati dai media e
gli ufficiali che li comandavano non fecero carriera. Ma se qualcuno chiederà
conto della loro inerzia agli uomini di Frontex si sentirà rispondere che loro
non sono l’ONU, che il loro compito era un altro, che voltarsi dall’altra parte
era l’unica cosa che potevano fare. L’ignavia sancita dalla legge.
Scene da pogrom
Abbiamo visto scene da
pogrom. Esagitati fascisti con il volto coperto picchiare profughi, volontari
delle ONG e giornalisti troppo scrupolosi a voler descrivere quello che vedono.
Ma anche abitanti dell’isola di Lesbo, esasperati perché da quattro anni ormai
sono stati lasciati soli a fronteggiare l’emergenza, inscenare proteste
violente e cercare di impedire gli sbarchi. Un inquietante anticipo di quello
che succederà lungo tutta la rotta balcanica: dalla Bulgaria alla Serbia alla
Croazia all’Ungheria all’Austria alla Germania, o alla frontiera nordorientale
dell’Italia. Le immagini dei fili spinati messi su di corsa, dei campi
trasformati in prigioni, del cibo negato ai profughi, delle botte, delle
cariche della polizia, delle ronde di volontari con le mazze ferrate, le
pistole e le radio collegate con la polizia le abbiamo ancora negli
occhi…Quattro anni fa un grosso aiuto venne dal coraggio di Angela
Merkel che, forzando la mano alla sua pubblica
opinione, decise di accogliere un milione di siriani. Oggi – non illudiamoci –
non esistono più le condizioni politiche per la generosità.
Poi abbiamo visto i
presidenti della Commissione europea, dell’Europarlamento e del Consiglio andare
in Grecia e sorvolare con il capo del governo di Atene Kyriakos
Mitsotakis le zone di confine dove sono ammassatri i
profughi siriani. C’è da sperare che Ursula von der
Leyen, David Sassoli e Charles Michel abbiano
spiegato bene a Mitsotakis che la loro è tutt’altro che “un’importante
manifestazione di sostegno alla Grecia” nel momento in cui Atene “sta
difendendo le frontiere dell’Unione europea con successo”, come lui aveva avuto
l’impudenza di dichiarare annunciando la visita. E che gli abbiano ricordato
con la necessaria fermezza che la Grecia è tenuta a rispettare i diritti umani
com’è scritto nella costituzione europea (oltre che in quella greca) e in tutti
i documenti ufficiali e che i Trattati dell’Unione prevedono sanzioni per i
paesi che non lo fanno. Carta straccia?
E magari si
ricordassero anche che tutti e tre i paesi da cui provengono sono nella NATO,
alleati militari della Turchia che prima con l’intervento militare in Siria e
poi aprendo le frontiere con un ricatto dichiarato da Erdoğan e
rivenduto ai propri compatrioti come una “furbizia” consumata ai danni di
quelli di Bruxelles ha creato il disastro umanitario. Non era truculenta e non
muoveva le anime allo sdegno, ma una delle immagini più tristi che abbiamo
visto, in tempi recenti, è stata quella dell’incontro del leader turco con
Stoltenberg, quando questi in ottobre andò ad esprimergli “comprensione” per la
guerra ai curdi, chiedendogli solo un po’ di “moderazione” nelle operazioni
dell’invasione del nord della Siria. Che, almeno, una scena simile non si
ripeta.
L’impotenza di
Bruxelles
L’analisi di quello
che sta accadendo è semplice: il regime turco per ricattare l’Europa sta usando
l’arma che l’Europa gli ha messo in mano, pagando sei miliardi di euro perché
si tenesse i profughi siriani in casa, anche quelli che ora sta provocando
proprio Ankara con la sua guerra a Idlib. Era prevedibile che una cosa del
genere potesse succedere, come a suo tempo era successo anche con Gheddafi in
Libia. Ma in questo caso non si ha a che fare con il dittatore di uno stato in
fondo marginale, ma con una potenza regionale che
ha il secondo esercito della NATO e persegue, dal Mediterraneo al Caucaso,
interessi contrapposti a quelli dell’Europa.
L’analisi è semplice,
ma le conseguenze da trarne non lo sono affatto. Mai come nelle tristissime
contingenze che stiamo vivendo l’Europa è apparsa tanto impotente.
Sull’epidemia non è stata capace di organizzare e coordinare una risposta
comune e ogni paese ha fatto per sé, ma, peggio, le istituzioni di Bruxelles
non hanno saputo neppure creare le condizioni di una risposta sul piano dello
spirito pubblico, se non con qualche fatua riunione di ministri. Sulla nuova
ondata di profughi l’Unione sembra rassegnata ad avallare, esplicitamente o con
il silenzio, le misure che paura e corrività per gli istinti diffusi detteranno
ai singoli stati: ora la Grecia e la Bulgaria e poi, via via, tutti gli altri a
risalire il fiume dei profughi verso il nord.
Ora le due emergenze
precipitano l’una nell’altra e c’è davvero da avere paura.
Si potrebbe, almeno, richiamare il governo ultraconservatore di Atene al
rispetto di un minimo di civiltà verso i profughi richiamando l’articolo
6 del Trattato che prevede sanzioni per gli stati che non
rispettino i diritti fondamentali costitutivi dell’Unione. Si potrebbero
interrompere i finanziamenti alla Turchia. Sarebbe il minimo.
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