Paure per tutti i gusti? Dal vasto magazzino
della fantascienza estraggo un paio di storie – entrambe di Philip Dick – per
vedere cosa spaventa chi.
Nel primo racconto (brevissimo) un ragazzo si
nasconde: sa che i suoi genitori questa volta gliela faranno pagare. Lo
ammazzeranno. Perché… non ha superato un esame. Cosa può esserci di tanto
terribile? Non ha saputo risolvere un’equazione di secondo grado. E’ tanto
grave? Chissà se chi ora sta leggendo sa risolvere le equazioni.
Nel racconto di Philip Dick una certa società ha deciso (o tollera) che la
misura dell’umanità, la stessa definizione giuridica di «essere umano» completo
– quindi che può godere i diritti – venga assegnata solo a chi sia in grado di
risolvere equazioni complesse. Nella società qui immaginata se non sei un
essere umano completo, puoi essere ucciso; o meglio… abortito, scrive Dick
ampliando la provocazione. Il racconto s’intitola «Le pre-persone»,
cioè prima d’essere persone.
Un’altra storia dello stesso autore ma con
paure che incrociano una concezione completamente diversa di umanità.
La protagonista di questo racconto si chiama
Gil. Aspetta il marito, Lester che torna da un satellite di Giove dove è
ingegnere spaziale. Non è felice Gil, anzi ha paura perchè Lester è arrogante e
violento. Dick non spiega perchè lei resti con il marito. Ma è una condizione
purtroppo che incontriamo spesso nel mondo reale: donne che hanno paura a
vivere con uomini violenti eppure hanno ancor più terrore di ribellarsi o
restar sole in una società così ostile per loro…
Ma quando Lester arriva, Gil lo scopre
affettuoso, “attento ai suoi bisogni”: una persona completamente diversa.
Passano pochi giorni e, mentre Lester non c’è, bussano alla porta. Sono due
poliziotti; anzi la parola usata da Dick è «sbirri». Dicono a Gil che quel tipo
non è suo marito ma un alieno: un parassita che si è impadronito del corpo di
Lester.
Gli sbirri chiedono l’aiuto di Gil contro
l’alieno. Un extra terrestre fa più paura persino di un extracomunitario. Ben
più di un alieno proposto dalla fantascienza al lettore o spettatore “ideale”
(maschio, bianco, ricco, eterosessuale) è più estraneo di un marocchino che in
fondo ha due gambe come noi… talvolta una o nessuna gamba se fa il muratore in
cantieri italiani dove non si osservano le norme di sicurezza, ma questo è un
altro discorso.
Torniamo a Gil. Lei dovrebbe aiutare i
poliziotti non solo per paura o per il senso del dovere ma per solidarietà con
la razza umana. E infatti Gil dice sì ma sta mentendo perchè ha deciso che
quell’essere NON umano è infinitamente migliore, più dolce del maschio
arrogante che prima abitava quel corpo. E lo aiuterà a scappare. Il racconto
finisce così.
«“Stavo pensando”, disse la donna
all’essere non terrestre, che forse continuerò a chiamarti Lester, se
non ti dispiace”.
“Tutto quello che vuoi purchè
possa farti felice” le rispose lui».
In questo secondo racconto c’è qualcosa di
importante sulle nostre paure e sull’idea di umanità. Philip Dick in una
antologia così lo commentò. «Per me questa storia simboleggia
ciò che l’essere umano è. Non si tratta di avere un certo aspetto o di
provenire da un certo pianeta, ma di vedere sino a che punto si è gentili. La
gentilezza ci differenzia dai sassi, dai pezzi di legno, dal metallo e così
sarà sempre qualsiasi forma assumiamo, dovunque andiamo o qualunque cosa
diventiamo».
Il titolo è appunto «Umano è».
Dick aggiunge: “Umano è è il mio credo e mi auguro che
possa essere anche il vostro”. Tornando su questo concetto Dick ha
scritto: «La misura di un essere umano non è la sua intelligenza, non
consiste nell’altezza che può raggiungere in un sistema sbagliato. La misura di
un essere umano è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un’altra
persona e quanto può dare di sé?». Una definizione di essere
umano completamente opposta a quella del primo racconto; ne derivano paure
differenti, vi pare?
Saltiamo dalla fantascienza a uno scrittore e
filosofo franco-algerino, oggi un po’ dimenticato: Albert Camus. Parlando del
‘900, il secolo dei sogni più grandi ma anche degli incubi più spaventosi,
scriveva così: «Sta finendo il secolo della scienza liberatrice. Il nostro
ventesimo secolo è il secolo della paura.(…) Il diciassettesimo è stato quello
delle matematiche, il diciottesimo delle scienze fisiche, il diciannovesimo
della biologia, il nostro è il secolo della paura. Ma voi direte: la paura non è una scienza. In
primo luogo la scienza c’entra qualcosa perchè i suoi ultimi progressi tecnici
l’hanno portata a negare se stessa e perchè le sue conseguenze pratiche
minacciano la Terra intera di distruzione. Inoltre se la paura in se stessa non
può essere considerata una scienza non vi è dubbio che essa sia perlomeno una
tecnica».
Un altro salto fino a uno dei più grandi poeti
del ‘900 non solo italiano: Fabrizio De Andrè. Magari ricordate quei versi
oltraggiosi «chi non terrorizza si ammala di terrore» e forse avete
dimenticato quell’altro suo suggerimento: «senza la mia paura mi fido poco».
Proviamo a confrontarle con le parole di un altro grande poeta del nostro
Novecento, Umberto Saba. «In una casa dove uno s’impicca, altri si ammazzano
fra di loro, altri si danno alla prostituzione o muoiono faticosamente di fame,
altri ancora vengono avviati al carcere o al manicomio… si apre una porta e si
vede una vecchia signora che suona molto bene la spinetta».
L’immagine di questa casa tremenda con la
vecchina che suona tranquilla mi è rimasta in mente da quando la lessi. E
spesso mi chiedo: in quella casa – che immagino essere non un semplice condominio
ma il mondo intero – dove mi colloco io? E voi chi siete in quella casa?
Potreste essere la vecchina che suona tranquilla mentre intorno scoppiano
guerre e catastrofi ma Trump dice a Greta che tutto va bene.
Si può avere paure che altri non comprendono.
Dario ha il terrore che qualcuno gli occupi il posto macchina assegnato. Kashif
che la polizia veda i suoi documenti non in regola. Ognuno ha i suoi timori e
spesso fatica a entrare in quelli altrui. Ancora Dick: «la paura dei nobili
alla vigilia della rivoluzione francese era che il popolo sarebbe entrato nelle
loro case, avrebbe sporcato il tappeto e rovinato il giardino… Non immaginavano
che sarebbero finiti sulla ghigliottina». Certe paure non riuscivano a
concepirle, come qui in Occidente oggi fatichiamo a capire che in un’altra
parte del mondo le bombe o la morte per fame siano possibilità concrete.
Una delle paure più grandi che la fantascienza
ha amplificato è che prima o poi incontreremo nemici – alieni incomprensibili e
mostruosi – venuti dallo spazio esterno.
Allora vale rileggere «La sentinella»
di Fredric Brown: è solo una paginetta.
«Era bagnato fradicio, e coperto di fango,
aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni luce da casa. Un sole
straniero gettava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era
abituato faceva di ogni movimento un’agonia di fatica.
Dopo decine di migliaia di anni
quell’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione
con le loro astronavi tirate a lucido e le loro super armi, ma quando si
arrivava al dunque toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria prendere
la posizione e tenerla con il sangue, palmo a palmo. Come questo maledetto
pianeta di una stella mai sentita nominare, finchè non ci eravamo arrivati. E adesso
era suolo sacro. Perchè c’era arrivato anche il nemico.
Il nemico, l’unica altra razza
intelligente della galassia: crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. Il primo
contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e
difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti. Ed era stata la guerra
subito. Quelli avevano cominciato a sparare senza neppure tentare un accordo,
una soluzione pacifica. E adesso pianeta per pianeta bisognava combattere coi
denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto
di fango, aveva fame e freddo. E il giorno era livido, spazzato da un vento
violento che faceva male agli occhi ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni
posizione era vitale. Stava all’erta, le armi pronte. Era lontano cinquantamila
anni luce dalla patria a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce
l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
Allora vide uno di loro
strisciare verso di lui, prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso
strano e agghiacciante che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso
e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire».
«Molti con il passare del tempo si erano
abituati, non ci facevano più caso, ma lui no: erano creature troppo schifose
con solo due braccia e due gambe e quella pelle di un bianco nauseante e senza
squame».
Il nemico siamo noi, nello sguardo degli
altri. Brown ci avvisa che potremmo essere l’unica altra razza intelligente
della galassia: crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. E che gli alieni
potrebbero – a ragione – aver paura di noi. Perchè loro non fanno «la guerra
subito… senza neppure tentare un accordo, una soluzione pacifica».
Fra tanti timori di ciò che non conosciamo,
ogni tanto dovremmo aver paura anche di noi stessi.
Per questo la fantascienza è importante:
affonda il coltello al crocevia delle paure e dei desideri. Ci invita a uno
sguardo diverso sul futuro come sull’ovvio. La buona science ficton influenza
le decisioni; la “cattiva” invade comunque l’immaginario di massa.
Non a caso è esplosa nel ‘900 (come si conta
da queste parti del globo) cioè nel secolo della scienza e del tecno-vudù:
tecnologie ovunque ma incomprensibili ai più, dunque magia.
Ognuno coccola le sue paure. C’è chi ancora
trema per i cattivi marziani di H. G. Welles mentre io rabbrividisco pensando a
una sua profezia del 1920: «La storia umana diventa sempre più una gara fra
istruzione e catastrofe … ma sembra che l’istruzione stia perdendo la gara».
Il presente è cupo ma noi possiamo – dobbiamo?
– immaginare che esistano molti domani possibili. Se qualcun altro sogna (o ha
paura) al posto nostro siamo fregati.
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