venerdì 6 marzo 2020

Un futuro da paura - Daniele Barbieri



Paure per tutti i gusti? Dal vasto magazzino della fantascienza estraggo un paio di storie – entrambe di Philip Dick – per vedere cosa spaventa chi.
Nel primo racconto (brevissimo) un ragazzo si nasconde: sa che i suoi genitori questa volta gliela faranno pagare. Lo ammazzeranno. Perché… non ha superato un esame. Cosa può esserci di tanto terribile? Non ha saputo risolvere un’equazione di secondo grado. E’ tanto grave? Chissà se chi ora sta leggendo sa risolvere le equazioni. Nel racconto di Philip Dick una certa società ha deciso (o tollera) che la misura dell’umanità, la stessa definizione giuridica di «essere umano» completo – quindi che può godere i diritti – venga assegnata solo a chi sia in grado di risolvere equazioni complesse. Nella società qui immaginata se non sei un essere umano completo, puoi essere ucciso; o meglio… abortito, scrive Dick ampliando la provocazione. Il racconto s’intitola «Le pre-persone», cioè prima d’essere persone.
Un’altra storia dello stesso autore ma con paure che incrociano una concezione completamente diversa di umanità.
La protagonista di questo racconto si chiama Gil. Aspetta il marito, Lester che torna da un satellite di Giove dove è ingegnere spaziale. Non è felice Gil, anzi ha paura perchè Lester è arrogante e violento. Dick non spiega perchè lei resti con il marito. Ma è una condizione purtroppo che incontriamo spesso nel mondo reale: donne che hanno paura a vivere con uomini violenti eppure hanno ancor più terrore di ribellarsi o restar sole in una società così ostile per loro…
Ma quando Lester arriva, Gil lo scopre affettuoso, “attento ai suoi bisogni”: una persona completamente diversa. Passano pochi giorni e, mentre Lester non c’è, bussano alla porta. Sono due poliziotti; anzi la parola usata da Dick è «sbirri». Dicono a Gil che quel tipo non è suo marito ma un alieno: un parassita che si è impadronito del corpo di Lester.
Gli sbirri chiedono l’aiuto di Gil contro l’alieno. Un extra terrestre fa più paura persino di un extracomunitario. Ben più di un alieno proposto dalla fantascienza al lettore o spettatore “ideale” (maschio, bianco, ricco, eterosessuale) è più estraneo di un marocchino che in fondo ha due gambe come noi… talvolta una o nessuna gamba se fa il muratore in cantieri italiani dove non si osservano le norme di sicurezza, ma questo è un altro discorso.
Torniamo a Gil. Lei dovrebbe aiutare i poliziotti non solo per paura o per il senso del dovere ma per solidarietà con la razza umana. E infatti Gil dice sì ma sta mentendo perchè ha deciso che quell’essere NON umano è infinitamente migliore, più dolce del maschio arrogante che prima abitava quel corpo. E lo aiuterà a scappare. Il racconto finisce così.
«“Stavo pensando”, disse la donna all’essere non terrestre, che forse continuerò a chiamarti Lester, se non ti dispiace”.
Tutto quello che vuoi purchè possa farti felice” le rispose lui».
In questo secondo racconto c’è qualcosa di importante sulle nostre paure e sull’idea di umanità. Philip Dick in una antologia così lo commentò. «Per me questa storia simboleggia ciò che l’essere umano è. Non si tratta di avere un certo aspetto o di provenire da un certo pianeta, ma di vedere sino a che punto si è gentili. La gentilezza ci differenzia dai sassi, dai pezzi di legno, dal metallo e così sarà sempre qualsiasi forma assumiamo, dovunque andiamo o qualunque cosa diventiamo».
Il titolo è appunto «Umano è». Dick aggiunge: “Umano è è il mio credo e mi auguro che possa essere anche il vostro”. Tornando su questo concetto Dick ha scritto: «La misura di un essere umano non è la sua intelligenza, non consiste nell’altezza che può raggiungere in un sistema sbagliato. La misura di un essere umano è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un’altra persona e quanto può dare di sé?»Una definizione di essere umano completamente opposta a quella del primo racconto; ne derivano paure differenti, vi pare?
Saltiamo dalla fantascienza a uno scrittore e filosofo franco-algerino, oggi un po’ dimenticato: Albert Camus. Parlando del ‘900, il secolo dei sogni più grandi ma anche degli incubi più spaventosi, scriveva così: «Sta finendo il secolo della scienza liberatrice. Il nostro ventesimo secolo è il secolo della paura.(…) Il diciassettesimo è stato quello delle matematiche, il diciottesimo delle scienze fisiche, il diciannovesimo della biologia, il nostro è il secolo della paura. Ma voi direte: la paura non è una scienza. In primo luogo la scienza c’entra qualcosa perchè i suoi ultimi progressi tecnici l’hanno portata a negare se stessa e perchè le sue conseguenze pratiche minacciano la Terra intera di distruzione. Inoltre se la paura in se stessa non può essere considerata una scienza non vi è dubbio che essa sia perlomeno una tecnica».
Un altro salto fino a uno dei più grandi poeti del ‘900 non solo italiano: Fabrizio De Andrè. Magari ricordate quei versi oltraggiosi «chi non terrorizza si ammala di terrore» e forse avete dimenticato quell’altro suo suggerimento: «senza la mia paura mi fido poco». Proviamo a confrontarle con le parole di un altro grande poeta del nostro Novecento, Umberto Saba. «In una casa dove uno s’impicca, altri si ammazzano fra di loro, altri si danno alla prostituzione o muoiono faticosamente di fame, altri ancora vengono avviati al carcere o al manicomio… si apre una porta e si vede una vecchia signora che suona molto bene la spinetta».
L’immagine di questa casa tremenda con la vecchina che suona tranquilla mi è rimasta in mente da quando la lessi. E spesso mi chiedo: in quella casa – che immagino essere non un semplice condominio ma il mondo intero – dove mi colloco io? E voi chi siete in quella casa? Potreste essere la vecchina che suona tranquilla mentre intorno scoppiano guerre e catastrofi ma Trump dice a Greta che tutto va bene.
Si può avere paure che altri non comprendono. Dario ha il terrore che qualcuno gli occupi il posto macchina assegnato. Kashif che la polizia veda i suoi documenti non in regola. Ognuno ha i suoi timori e spesso fatica a entrare in quelli altrui. Ancora Dick: «la paura dei nobili alla vigilia della rivoluzione francese era che il popolo sarebbe entrato nelle loro case, avrebbe sporcato il tappeto e rovinato il giardino… Non immaginavano che sarebbero finiti sulla ghigliottina». Certe paure non riuscivano a concepirle, come qui in Occidente oggi fatichiamo a capire che in un’altra parte del mondo le bombe o la morte per fame siano possibilità concrete.
Una delle paure più grandi che la fantascienza ha amplificato è che prima o poi incontreremo nemici – alieni incomprensibili e mostruosi – venuti dallo spazio esterno.
Allora vale rileggere «La sentinella» di Fredric Brown: è solo una paginetta.
«Era bagnato fradicio, e coperto di fango, aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni luce da casa. Un sole straniero gettava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato faceva di ogni movimento un’agonia di fatica.
Dopo decine di migliaia di anni quell’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione con le loro astronavi tirate a lucido e le loro super armi, ma quando si arrivava al dunque toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria prendere la posizione e tenerla con il sangue, palmo a palmo. Come questo maledetto pianeta di una stella mai sentita nominare, finchè non ci eravamo arrivati. E adesso era suolo sacro. Perchè c’era arrivato anche il nemico.
Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia: crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti. Ed era stata la guerra subito. Quelli avevano cominciato a sparare senza neppure tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso pianeta per pianeta bisognava combattere coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango, aveva fame e freddo. E il giorno era livido, spazzato da un vento violento che faceva male agli occhi ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni posizione era vitale. Stava all’erta, le armi pronte. Era lontano cinquantamila anni luce dalla patria a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
Allora vide uno di loro strisciare verso di lui, prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano e agghiacciante che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire».
«Molti con il passare del tempo si erano abituati, non ci facevano più caso, ma lui no: erano creature troppo schifose con solo due braccia e due gambe e quella pelle di un bianco nauseante e senza squame».
Il nemico siamo noi, nello sguardo degli altri. Brown ci avvisa che potremmo essere l’unica altra razza intelligente della galassia: crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. E che gli alieni potrebbero – a ragione – aver paura di noi. Perchè loro non fanno «la guerra subito… senza neppure tentare un accordo, una soluzione pacifica».
Fra tanti timori di ciò che non conosciamo, ogni tanto dovremmo aver paura anche di noi stessi.
Per questo la fantascienza è importante: affonda il coltello al crocevia delle paure e dei desideri. Ci invita a uno sguardo diverso sul futuro come sull’ovvio. La buona science ficton influenza le decisioni; la “cattiva” invade comunque l’immaginario di massa.
Non a caso è esplosa nel ‘900 (come si conta da queste parti del globo) cioè nel secolo della scienza e del tecno-vudù: tecnologie ovunque ma incomprensibili ai più, dunque magia.
Ognuno coccola le sue paure. C’è chi ancora trema per i cattivi marziani di H. G. Welles mentre io rabbrividisco pensando a una sua profezia del 1920: «La storia umana diventa sempre più una gara fra istruzione e catastrofe … ma sembra che l’istruzione stia perdendo la gara».
Il presente è cupo ma noi possiamo – dobbiamo? – immaginare che esistano molti domani possibili. Se qualcun altro sogna (o ha paura) al posto nostro siamo fregati.


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