In Colombia, il 2020 si apre con un
bilancio tragicamente in linea con gli anni passati. Secondo l’Indepaz, solo a gennaio di
quest’anno sono stati uccisi 27 leader sociali: uno ogni
27 ore.
Gloria Ocampo, 37 anni, era impegnata nella promozione di un programma
di riconversione delle coltivazioni illecite di coca. È stata uccisa durante la
notte del 7 gennaio. Jhon Freddy Álvarez, presidente dell’Associazione di
lavoratori contadini di Algeciras, militava nel movimento politico di
sinistra Marcha Patriotica. Un gruppo di sicari gli ha
tolto la vita l’11 gennaio.
L’espressione“leader social”, in Colombia,
rimanda ad un insieme ampio e disomogeneo di casi. Una categoria sfuggente che
indica chiunque, indipendentemente dalla sua appartenenza a
un’organizzazione, difenda i diritti umani.
Ad essa possono appartenere indigeni, contadini,
afrocolombiani, giornalisti. Chiunque esiga pubblicamente il
rispetto dei diritti umani, civili e politici. Chiunque denunci soprusi da
parte di gruppi armati in zone marginali del Paese o palesi le inadempienze
dello Stato.
Diviene, inoltre, leader social chi richiede la restituzione delle
terre che gli sono state usurpate, chi si oppone ai megaprogetti
industriali e lotta per la salvaguardia dell’ambiente e della foresta
amazzonica. Chi si impegna per la riconversione delle coltivazioni
illecite e chi difende gli accordi di pace tra il governo Santos e le FARC,
risalenti al 2016.
Il denominatore comune della categoria è
però il pericolo in cui i leader incorrono a causa delle loro denunce. Minacce,
intimidazioni e, in molti casi, il tragico epilogo: un velo bianco sul cadavere
e poi l’oblio. Un silenzio tanto istituzionale quanto giudiziario che condanna
i familiari delle vittime a una rabbia implacabile e senza prescrizione.
I dati riportano che, su 400 omicidi di leader
sociali commessi negli ultimi tre anni, la procura della Repubblica
abbia esaminato solo 125 casi, emanando non più
di 22 sentenze. Un’impunità troppo alta per una Nazione
democratica che si dice profondamente addolorata per quanto sta avvenendo nelle
sue periferie.
Il presidente in carica, Iván Duque, si difende con le statistiche. Nonostante la
Colombia detenga il triste primato degli assassinii a leader sociali, vanta
anche un numero esorbitante di leader sociali in termini assoluti, che si
aggira approssimativamente intorno ai sei milioni (su una popolazione di 49).
Secondo il presidente, dunque, i dati sono da giudicare tenendo conto delle
proporzioni.
Eppure questi numeri non sono di certo
rassicuranti: se sventurato è un Paese che ha bisogno di eroi,
cosa direbbe Brecht di uno che ne conta sei milioni?
Di un eroismo all’ordine del giorno
parla Claudia Ortiz, vittima del conflitto armato in
quanto sfollata dal proprio villaggio nel 2005 a causa della violenta
incursione delle truppe guerrigliere delle FARC.
Claudia ha denunciato – in un video
diventato virale su Facebook – l’indifferenza delle istituzioni riguardo alle vittime del
conflitto armato, a cui il Governo ha promesso indennizzi e
aiuti umanitari, nella maggior parte dei casi mai giunti o giunti solo
parzialmente. In seguito alla pubblicazione del video, Claudia ha ricevuto
minacce da parte di uno sconosciuto che la intimava a tacere. Malgrado la paura, ha deciso però di non tirarsi indietro,
convinta del fatto che il male maggiore sia l’omertà in cui la maggior parte
dei cittadini colombiani è costretta a vivere per non incorrere in spiacevoli –
se non fatali – intimidazioni.
Il caso di Claudia è emblematico del
paradosso post-conflittuale. In Colombia, in seguito agli accordi di pace che
avrebbero dovuto mettere fine al conflitto armato che ha dilaniato il Paese per
più di cinquant’anni, la violenza non è cessata. Il Paese reale volge nel caos. Le zone da tempo
soggette al controllo delle FARC, forza armata ormai smobilitata, sono in balia
della malavita.
Claudia Ortiz ci racconta:
Quando si è iniziato a parlare
degli accordi ero piena di speranza. Chi non desidera un Paese in pace, dopo
tutta questa sofferenza? Dopo tre anni, però, mi sento di dire che è tutta una
farsa, si muore più di prima e lo Stato ci ha abbandonati. Non c’è pace. Non c’è giustizia
Il suo sconforto è quello di chi, dopo
anni di dichiarazioni pubbliche, promesse e rassicurazioni, ha visto le sue
aspettative venire tradite dalle istituzioni, trovandosi in una condizione di
particolare vulnerabilità e impotenza. Claudia invoca la benevolenza del
presidente, chiede che “si metta una mano sul cuore e
ascolti le richieste delle vittime”. Ma ciò che questa donna e
milioni di colombiani avrebbero il diritto di esigere e ottenere, è il rispetto
delle clausole degli accordi di pace che prevedono la riparazione integrale per coloro che hanno subìto danni
materiali e morali a causa del conflitto armato: giustizia e non carità, rispetto e non pietà.
Il vuoto istituzionale nelle zone più
marginali del Paese rappresenta la sfida maggiore del Governo. Laddove si registra
la mancanza di una presenza integrale dello Stato, la carenza di servizi di
base come sanità ed educazione e un alto tasso di disoccupazione, i gruppi
armati e le bande criminali trovano terreno fertile per esercitare un potere illegittimo e dispotico, fondato sulla violenza
e sull’usurpazione.
Lo spettro dei poteri illegittimi è però
altamente diversificato e dunque complesso da decifrare. Un’ulteriore sfida per
il Governo risiede infatti nella necessità di delineare il profilo
ideologico-politico dei mandanti degli omicidi dei leader sociali. La risposta non è univoca, il “nemico” non è definito.
I tempi in cui il presidente Alvaro Uribe Velez pretendeva di ridurre le
problematiche sociali e politiche al dualismo Stato – FARC, sono ormai
tramontati. Urge una seria analisi della natura frammentaria della nuova
violenza che scuote il Paese, fuggendo riduzionismi e semplificazioni.
I media colombiani omettono
spesso di fare riferimento ai colpevoli, narrando di esecuzioni senza
esecutori. Così, questa violenza tanto brutale, assume un’aria di
fatalità, come coperta da uno strato di nebbia fitta, dietro al quale nulla si
scorge, se non il divieto di indagare e l’inevitabilità del suo perpetrarsi.
Una delle poche denunce chiare e decise
è apparsa sulle pagine del quotidiano El Espectador.
Firma il pezzo la giornalista Patricia
Lara Salive che denuncia quelli che, stando alle sue fonti, sono i gruppi
responsabili della maggioranza di morti violente in Colombia. Secondo la
giornalista, gli assassinii delle persone che hanno denunciato l’usurpazione
delle terre sono nella quasi totalità dei casi comandate
dagli occupanti delle terre stesse. Secondo la stessa logica, sono i narcotrafficanti a commissionare l’omicidio di quanti
si impegnano nella riconversione delle coltivazioni illecite di coca.
Per quanto riguarda l’opposizione ai
macroprogetti di edilizia, miniere o disboscamento, l’analisi della giornalista
rivela uno scenario meno scontato e, se possibile, ancora più allarmante.
Sarebbero infatti i potenti locali corrotti (sindaci, appaltatori, consiglieri
o coloro che beneficiano di opere che mettono a rischio l’ambiente, come le
miniere, ecc.) ad ordinare le esecuzioni di chi mette loro i bastoni fra le
ruote.
Questi personaggi, mandanti degli
omicidi, traggono profitto da uno Stato autoritario a livello locale. Hanno eserciti al loro servizio o assumono sicari per eliminare
coloro che ostacolano i loro interessi e, nel frattempo,
terrorizzano la popolazione in modo che nessuno possa pensare di seguire il
loro esempio. (…) Chiunque alzi la testa localmente viene rimosso. Dobbiamo
anche tenere a mente che le statistiche indicano che i crimini contro i leader
sociali aumentano alla vigilia delle elezioni. Ciò significa che ci sono
persone interessate a farli uscire dal gioco politico perché li ostacolano.
I leader sociali colombiani devono
dunque subire un duplice affronto: il primo avviene fuorilegge, il secondo
malgrado la legge.
Se, infatti, la responsabilità di
politici e funzionari pubblici riguardo agli omicidi venisse accertata dalla
procura, a vacillare sarebbe la tenuta stessa dello Stato democratico e di
diritto. Censurare, intimidire e infine uccidere un difensore dei diritti
umani, seminando terrore e frustrazione, alimenta l‘omertà e l’assopimento della
società civile. Annulla la partecipazione politica di grandi
fette della popolazione e viola i principi basilari di ogni costituzione
democratica.
Il Governo colombiano ha la
responsabilità politica e morale di prevenire, proteggere e rispettare la vita
dei difensori dei diritti umani e di chiunque lotti per una società più giusta.
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