mercoledì 31 maggio 2023

La strage – fascista- degli umili e degli sfruttati di sempre, nella provincia rossa

di Domenico Stimolo  ( per Lettera Memoria e Libertà)


     

Nella storia siciliana degli ultimi centotrenta anni, l’arco di tempo che va dall’ultimo decennio dell’ottocento al luglio 1960, è stato caratterizzato  da lotte tenaci ed epiche messe in opera dalle classi subalterne, alla ricerca del riscatto sociale, da parte degli umili, degli sfruttati di sempre. Molti eventi, drammatici e tragici, furono contraddistinti da plurimi assassinii e stragi, realizzate da un’articolazione di poteri: ceti dominanti, mafia (loro braccio armato), dalle strutture militari rappresentanti lo Stato. Si continuò, con virulenza, fino agli accadimenti drammatici che riguardarono parecchie città del luglio 1960.

L’eccidio che si consumò nella giornata del 21 maggio 1921 alle porte di Modica, passata alla cronica come l’eccidio di “ Passo Gatta” , rappresenta uno degli eventi più insanguinati ed efferati. Sei gli uccisi: Vincenzo Carulli, Rosario Liuzzo, Raffaele Ferrisi, Agostino Civello, Carmelo Pollara,  Carmelo Vacirca, diversi  i feriti gravi

Bisognerebbe ricostruire in maniera avveduta il contesto sociale e politico in atto in Sicilia (e in Italia) dalla fine della prima guerra mondiale, per comprendere il senso delle lotte contadine, la ribellione degli sfruttati e degli umili (proprio nel significato impresso da Giovanni Verga nel suo verismo), la resistenza allo squadrismo fascista.

Però, per sinteticità di scrittura e per il significato di verità delle parole, lo “stato dell’arte” fu descritto mirabilmente nel dicembre 1955, poiché nulla era cambiato – trentaquattro anni dopo -, dal sommo poeta Ignazio Buttitta nel “ Lamento per Turiddu Carnevali “.

Così, nel percorso dei versi dedicati al sindacalista ucciso dalla mafia a Sciara il 16 maggio 1955 , descrive, con parole crude e schiette, più forti di un trattato storico – sociologico,  la drammatica situazione in essere:……. “ Arricugghiu li poveri, amurusu, li dorminterra, li facci a tridenti“……..”I poveri radunò con tanto amore, i dorminterra, le facce a tridente, i mangiapoco con il fiato chiuso: il tribunale dei penitenti; di questa carne fece lega e polso e arma per combattere i potenti di quel paese esiliato e scuro dove la storia aveva trovato un muro”.

Questo era il contesto che caratterizzava la Sicilia alla fine del primo grande massacro mondiale, e nello specifico la provincia di Ragusa contrassegnata da una struttura socio-economica essenzialissime basata sulla coltivazione della terra.

Una condizione, da sempre immutata, fin dagli “albori della civiltà”, quando la stragrande maggioranza della popolazione cercava di sopravvivere  in povertà perenne lavorando, sfruttata, nelle terre, da memoria antica perennemente  in mano dei latifondisti, padri padroni dell’isola, in alleanza stretta con i poteri della nobiltà parassita e, poi, con il braccio armato della mafia, e , quindi, in successione, prima con i fascisti, e poi con il potere politico-affaristico-mafioso.

In quella fase storica, nei primi anni del novecento, specie nelle grandi aree urbane isolane, Catania e Palermo in particolare, già crescevano importanti nuclei industriali e considerevole attività di artigianato avanzato. A Palermo un rilevante nucleo di metallurgiche, a Catania siti articolati dell’industria e  importanti strutture produttive operanti nella lavorazione e trasformazione dello zolfo. Le aree interne della Sicilia continuava intenso lo sfruttamento, anche in età infantile, dei lavoratori delle miniere per l’estrazione di questa importante materia prima, con grande peso nell’esportazione. I grandi movimenti di lotta dei lavoratori avevano già fatto nascere le Camere del Lavoro:  a Palermo nel settembre del 1901, fondata da Rosario Garibaldi Bosco – uno delle guida principali nell’isola del Movimento dei Fasci siciliani, represso in maniera violenta e sanguinario dai governanti monarchici tra il dicembre 1893 e il gennaio 1894 che provocarono quasi cento uccisi -, a Catania il 19 luglio 1903, presidente Giuseppe De Felice Giuffrida – tra i più importanti organizzatori dei Fasci Siciliani, il sindaco catanese più famoso dall’unità d’Italia -; raccontano le cronache che all’inaugurazione della Camera del Lavoro sita nel palazzo dei Chierici , nella centralissima piazza Duomo erano presenti ventimila lavoratori. Nel 1919 a rilevantissimo supporto della Camera del lavoro di Catania venne dal nord, inviata dal partito socialista, la sindacalista socialista rivoluzionaria Maria Giudice, con funzioni di intervento in tutta l’area regionale.  Poche settimane addietro a Catania si è svolto un importante convegno in sua memoria .

Già, dalla fine dell’ottocento, a seguito della repressione dei Fasci siciliani, dalla Sicilia si era determinato un rilevantissimo processo di emigrazione.  In meno di trent’anni, fino alla presa violenta del potere da parte della dittatura fascista, in centinaia di migliaia fuggirono dalla Sicilia ( uomini, donne e bambini), dalla fame e dalle sofferenze quotidiane. In quella fase la “terra promessa” era l’America, del nord e del sud.

Dalla fine della prima guerra mondiale, in particolare dal 1919 al 1921, la Sicilia fu caratterizzata da un’imponente movimento di lotta dei lavoratori delle principali strutture produttive: contadini, industria, minatori …… Grandi eventi di occupazione delle terre da parte dei contadini affamati, scioperi pressanti di grande rilievo nei tessuti industriali isolani e nelle miniere. Quella fase fu chiamata il “biennio rosso” siciliano, utilizzando la stessa terminologia che in maniera originaria appellava i grandi movimenti di scioperi e rivendicazioni che contemporaneamente si svolgevano nelle fabbriche del nord Italia.

Il partito socialista ( in diversi casi affiancato dal partito popolare e dalle organizzazioni sociali loro connesse ) e l’organizzazione sindacale delle Camere del Lavoro della Cgil, guidando le lotte, si consolidarono in tutte le provincie siciliane, accrescendo in maniera molto importante la presenza e l’iscrizione, diventando punto di riferimento prioritario dei lavoratori  dei diseredati in genere, nelle campagne e nelle città, per le terre, lottando e scioperando per l’aumento dei salari e la definizione dei nuovi contratti di lavoro. Importanti, in quel periodo, i risultati elettorali furono acquisiti dal partito socialista.

A Palermo il 14 ottobre 1920 fu ucciso dalla mafia Giovanni Orcel segretario dei metalmeccanici della Fiom ( già firte e ben radicata). In particolare nelle campagne il potere latifondista reagì con grande violenza, supportato dalla mafia, dai nazionalisti, dai fascisti che ormai si stavano organizzando in Sicilia; anche i militari  ( delle varie strutture) si schierarono, “operando sul campo” …..non certo a favore di coloro che richiedevano pane, giustizia e libertà. Parecchi sindacalisti e capo lega vennero uccisi.

Un biennio contraddistinto da continue violenze, assassinii ed eccidi nei riguardi dei contadini e dei lavoratori, con molte decine di morti, gli eventi più tragici a : Riesi, Gela, Randazzo, Centuripe, Comiso.

Nel ragusano intense furono le lotte di rivendicazioni, anche contro il carovita che colpiva duro i proletari. Oltre a Ragusa il movimento si sviluppo nei principali centri cittadini: Vittoria, Modica, Comiso, Pozzallo….

Il partito socialista che  era  strutturato in maniera molto importante nelle elezioni comunali del 1920 ottenne risultati di grande rilievo conquistando la maggioranza in otto dei tredici comuni interessati al voto: Ragusa superiore, Acate, Comiso, Ispica, Modica, Pozzallo, Scicli, Vittoria; i socialriformisti conquistarono Ragusa inferiore, Giarratana e Monterosso. La recente capacità di mobilitazione dei ceti sfruttati e poveri aveva dato un  risultato inaspettato assolutamente eccezionale, di segno diverso ai risultati delle elezioni politiche dell’anno precedente, ove il militante più in vista del partito socialista Vincenzo Vacirca era stato eletto in un collegio dell’Emilia, a Bologna.

La risposta padronale, dei proprietari latifondisti e terrieri, dei nazionalisti e dei fascisti che iniziavano a organizzarsi militarmente nell’area del ragusano / e del siracusano collegato, venne fuori presto, forte e brutale, in maniera nuova e inaspettata. L’uso della violenza spietata divenne il collante “ideologico” di queste bande e dei loro promotori, da praticare, singolarmente contro socialisti e sindacalisti o in maniera tragicamente appariscente e plurale contro le strutture politiche e sindacali, dei movimenti dei lavoratori, e i luoghi amministrativi che erano stati conquistati con le democratiche elezioni.

Il 1921  (come ampiamente avvenne in Italia) fu un anno contraddistinto da atti  di violenza  squadristica gravissimi nel ragusano e, in Sicilia. Innumerevoli furono gli eventi di aggressioni e assassinii – nel corso dell’anno precedente molti atti di violenza erano stati consumati in diverse località contro i lavoratori, il partito socialista, il sindacato e le amministrazioni di sinistra, il 15 marzo fu occupato il municipio di Vittoria – ; 7 aprile a Scicli furono saccheggiate e incendiate la Lega contadina e la chiesa metodista; 9-10 aprile a Ragusa, in piazza S. Giovanni, i fascisti attaccarono a colpi di pistola una manifestazione socialista con la partecipazione dell’on. Vacirca: tre gli uccisi, Rosario Occhipinti, Carmelo Vitale, Rosario Guerrieri, oltre 50 feriti, dopo gli squadristi assalirono e incendiarono la Camera del Lavoro, le sedi delle leghe dei contadini e degli operai, la sezione socialista; Modica, 18-19  aprile occupazione e distruzione della Camera del Lavoro, costretti alle dimissioni gli amministratori socialisti, assalita l’abitazione dell’on. Vacirca, bandito dalla città dai fascisti; in caso diverso sarebbe stato ucciso. Nella prima parte dell’anno in parecchi comuni amministrati dal partito socialista i Municipi furono presi d’assalto dalle bande squadristiche, a : Comiso, Modica, Pozzallo, Scicli, Ragusa, Vittoria, costringendo con la violenza alle dimissioni gli amministratori cittadini.

Il dato è che con il 1921 nell’area del ragusano i fascisti si organizzarono in maniera strutturale, aprendo sezioni,  incrementando squadristi, iscritti e le disponibilità finanziarie concesse da coloro che si sentivano “disturbati” dalle rivendicazioni dei lavoratori. Nell’aprile del 1921 veniva inaugurata la sezione a Ragusa superiore.

Il 15 maggio 1921 si svolsero le elezioni politiche nazionali per l’elezione della Camera dei deputati, il partito socialista con oltre il 24% dei voti fu al primo posto ( il Pci, nato il 21 gennaio dello nstesso anno aveva avuto il 4,61%). Un risultato positivo  c’era stato anche nel ragusano, e l’elezione dell’on. Vacirca.

Fu in questo quadro che a Modica il 29 maggio  si svolse l’eccidio  in contrada “ Passo Gatta”.

Quella mattina un corteo di lavoratori, oltre 1500 i partecipanti che si erano radunati nella detta contrada, alla periferia della città, per protestare contro le reiterate violenze che nel corso delle ultime settimane erano state condotte contro le organizzazioni sindacali, sociali e politiche della sinistra Il corteo aveva iniziato il suo percorso muovendo verso la via Roma. Varie fonti evidenziano che in quell’area stazionava un forte presidio di carabinieri e soldati. Improvvisamente, in quella strada, quando i manifestanti erano arrivati “ a tiro”, da alcuni edifici circostanti ( strutture urbane basse, come si usava in quegli anni) – dove si erano collocati gli squadristi fascisti –  si iniziò a sparare forsennatamente contro i lavoratori. Una strage preparata in maniera preventiva. Molti, decine e decine, i feriti. In alcune cronache viene riportate che successivamente tre feriti colpiti dalle fucilate fasciste perirono, portando, quindi, a nove gli uccisi, – lavoratori , socialisti e anarchici-  A terra, assassinati, rimasero “i dorminterra, le facce a tridente, i mangiapoco con il fiato chiuso”…..

La violenza fascista, supportata in particolare dai grandi proprietari terrieri, continuo’, mese dopo mese, nel ragusano e in tutte le provincie siciliane, uccidendo decine di persone, molti i feriti. Tra i tanti brutali episodi  si evidenzia, poiché era presente, Maria Giudice, l’evento tragico di Lentini ( Sr) del 10 luglio 1922 ( il paese era amministrato dai socialisti, dato che nelle elezioni amministrative dell’autunno 1920 avevano ottenuto 24 seggi comunali su 30). La sindacalista socialista dopo avere svolto un appassionato intervento venne arrestata. Nacquero furibondi scontri con le forze di polizia e un nutrito gruppo di fascisti-nazionalisti, che durarono tutta la notte: quattro gli uccisi, 50 i feriti.

Poi, nell’ottobre del 1922, il colpo di stato fascista  ( sostenuto dalla monarchia regnante) con la cosiddetta “ marcia su Roma”. Il buio e le distruzioni della varie guerre fasciste calarono sull’Italia. La Libertà fu riconquistata ventitré anni dopo con la Lotta di Liberazione.

da qui

martedì 30 maggio 2023

Holocausto gitano - La persecuzione infinita

Melissa Cicchetti intervista María Sierra

Come sempre, anche quest’anno non ne ha parlato quasi nessuno. Dire che si tratta di un silenzio fragoroso sarebbe un ossimoro segnato da pura retorica: non c’è alcun fragore. Il 16 maggio scorso, tuttavia, la gente romaní non ha certo dimenticato di ricordare quella notte del 1944, quando 6mila donne, uomini, bambini e anziani del campo di Auschwitz II Bikernau, lo “Zigeunelager”, seppero che si sarebbe posto fine alle loro inaudite sofferenze nelle camere a gas. Raccolsero quel che capitava, insorsero contro le SS ed evitarono il genocidio. Una rivolta epocale. La vendetta nazista, più spietata che mai, si compì il 2 agosto successivo, il culmine del Porrajmos, il grande divoramento. Una giornata internazionale, si sa, ormai non si nega a niente e nessuno, ma probabilmente la gran parte dei media che contano avrà trovato più attraente e interessante dedicarsi al giorno successivo: il 17 maggio è la giornata mondiale delle torte. A noi di Comune di quelle scelte editoriali e politiche fregherebbe ben poco, se non fosse che – come ricorda in questa gran bella intervista María Sierra, che ha appena pubblicato in Spagna “Holocausto gitano. El genocidio romaní bajo el nazismo”- il processo di sterminio della popolazione romaní europea aveva costruito le condizioni per verificarsi ben prima della II Guerra Mondiale ed esiste una linea di continuità molto forte tra gli stereotipi culturali antizigani che hanno preceduto quello sterminio a lungo negato e quelli attuali. L’autorevole docente di Storia Contemporanea all’Università di Siviglia dice a Melissa Cicchetti che l’Olocausto non si ripeterà come tale, naturalmente, ma il rischio di cadere in un abisso di antiziganismo assassino quanto quello hitleriano esiste, eccome. Le affermazioni sui Rom di parecchi esponenti di nuovi e meno nuovi governi europei, a cominciare da quello italico, lo confermano in modo eclatante. “Sei nomade? Devi nomadare, poi trànsumi e vai”, dice in questo video esemplare con il consueto aplomb Giorgia Meloni. È impossibile leggere i documenti sulla persecuzione nazista dei gitani senza rabbrividire, ma il libro di María Sierra ha, tra gli altri, un altro enorme merito, quello di portare alla luce testimonianze dirette in cui emerge il protagonismo di sopravvissute che raccontano cosa hanno subito, in quanto donne e in quanto gitane, ma anche che sono state loro proprio loro a fare il primo passo per raccontare cos’era successo. La loro dignità, soprattutto emotiva, quella che nei campi di concentramento uomini nazisti si erano tanto sforzati di annichilire, vince così proprio affermando il diritto alla memoria e ad avere emozioni. C’è da svolgere ancora un compito contro-narrativo molto lungo, loro, le donne gitane, hanno dimostrato di saperselo assumere come ben pochi hanno saputo fare nella storia

Specialista in storia culturale della politica, María Sierra insegna Storia Contemporanea all’Università di Siviglia. Negli ultimi anni si è dedicata allo studio del popolo romaní, in Spagna e in Europa, scrivendo alcuni dei più brillanti contributi a questa linea di ricerca. L’anno passato ha ricevuto il premio per il miglior articolo scientifico sulla condizione della popolazione gitana nell’Europa post-nazista (disponibile in inglese qui). Ci riceve nella sua stanza della Facoltà, piena di foto di cigarreras sivigliane, le lavoratrici della fabbrica di sigari, che raccontano la storia dell’edificio, dove parliamo del suo ultimo libro: “Holocausto gitano. El genocidio romaní bajo el nazismo”.

Cos’è l’Holocausto gitano di cui si parla così poco? E perché hai scelto di definirlo in questo modo?
È un processo di sterminio della popolazione romaní europea avvenuto prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, sotto il regime nazista. Ha avuto luogo contemporaneamente a quello degli Ebrei, di cui invece sappiamo molto, essendo esso entrato nell’immaginario delle nostre società attraverso molta letteratura e tanti film. Della morte di almeno mezzo milione di Gitani europei, invece, si è soliti saper pochissimo.

Ho scelto questi termini, “olocausto” e “gitano” (1), proprio per collegarlo all’olocausto ebraico. Ho utilizzato la parola “olocausto” perché è una definizione scientificamente e socialmente riconosciuta, che spiega molto bene un processo di persecuzione e sterminio così sistematico e brutale come quello compiuto contro il popolo gitano sotto il regime nazista.

Il termine “gitano” forse richiede più spiegazioni. In lingua castigliana è corretto usarlo, in quanto non è considerato offensivo per le popolazioni che chiamiamo in questo modo. Va sottolineato, infatti, che la stessa comunità gitana spagnola ha espresso positivamente la propria identità attorno a questo termine, cosa che generalmente non accade in altre lingue, come spiego nel mio libro. Se avessi scritto in inglese, ad esempio – è in corso di pubblicazione una traduzione proprio in inglese e sto affrontando questa sfida – avrei dovuto scegliere sistematicamente altri termini, Romaní, per parlare in generale della popolazione gitana in Europa, oppure Sinti se ci riferiamo a quella gitana in Germania.

Insomma, bisogna essere molto attenti e rispettosi, perché questa attenzione ci aiuta a renderci conto e capire quanto interiorizzati possano stati essere da noi alcuni nomi dispregiativi per le persone a cui sono stati storicamente assegnati.

Nella prima parte del libro, tracci la storia dell’antiziganismo che culmina nella persecuzione nazista. Quali elementi evidenzieresti dalla storia dell’antiziganismo prima dell’Olocausto?
Per me è molto importante sottolineare che esiste una tradizione di antiziganismo. Non possiamo limitare il discorso alla storia occidentale moderna e contemporanea; al contrario, dobbiamo inserirlo in una lunga tradizione di antiziganismo e così comprendere quanto fosse già preparata la persecuzione della popolazione gitana quando arrivò il regime nazista.

Ritengo inoltre fondamentale la consapevolezza di quante di queste tradizioni siano ancora vive e di quanti episodi di persecuzione continuino ancora oggi. Questa è la cosa più importante per me, perché in questo unisco la preoccupazione di storica con quella civica di cittadina. L’Olocausto non si ripeterà come tale, ma il rischio di cadere in un abisso di antiziganismo assassino quanto lo fu quello della Seconda Guerra Mondiale esiste.

Per questo, nella prima parte del libro, traccio la storia dell’antiziganismo molto brevemente, ma in vari registri. Da un lato, quello giuridico e istituzionale, descrivo l’affermazione di un quadro legislativo che, fin dall’inizio, è andato costruendo i Gitani come la parte della popolazione su cui caricare tutti i problemi della società insediata. Dall’altro, parlo dell’antiziganismo culturale che è più intriso nella mentalità della società maggioritaria sotto forma di stereotipi. Esiste una linea di continuità molto forte tra gli stereotipi culturali antizigani che hanno preceduto l’Olocausto e quelli attuali.

In questa parte del libro mi interessa evidenziare la complessità di questi stereotipi, che è ciò che li rende convincenti. La società maggioritaria naturalizza molto gli stereotipi antizigani, inserendovi sia elementi negativi sia l’idealizzazione della figura del Gitano e, in particolare, della Gitana. Sono stereotipi complessi, che fanno coesistere l’idealizzazione etnica con la stigmatizzazione razziale. Essendo molto convincenti per noi a causa della loro complessità, questi stereotipi rimangono molto ancorati nella nostra mente. Non dobbiamo far altro che rivedere come sono visti i Gitani dalla società maggioritaria ancora oggi per renderci conto che questi stessi stereotipi continuano ad operare. Per non parlare, poi, di film e cartoni animati: la Esmeralda del Gobbo di Notre Dame ne è un buon esempio.

Nella seconda parte del libro il focus è sui ricordi di sei sopravvissuti all’Olocausto. Perché hai deciso di concentrarti sulle emozioni usando quello che definisci un approccio storico emozionale?
La seconda parte per me è stata la parte più positiva del processo di scrittura del libro, perché la prima parte si è rivelata un’immersione molto dolorosa in un inferno di maltrattamenti che raggiunge livelli inimmaginabili. Non si possono leggere la bibliografia e i documenti sulla persecuzione nazista del popolo gitano senza rabbrividire.

Tuttavia, nelle memorie, nonostante una narrazione in prima persona di una sofferenza così profonda, è possibile apprezzare anche un’agire vivace, una capacità di agire in positivo. Diventa ancora più evidente una volta terminato il processo persecutorio, quando le persone sopravvissute riescono a dotarsi degli strumenti per parlare in pubblico di quanto accaduto, per rivendicare il diritto al riconoscimento della propria sofferenza e ad avere un posto nella storia del proprio Paese .

Ho scelto quelle memorie perché parlano in prima persona, perché è la voce dei sopravvissuti. Ho cercato di rispettare molto la loro originalità, pur sottoponendole alla critica a cui una storica o uno storico deve sottoporre qualsiasi documento, detto in altre parole, contestualizzando la fonte storica. Questo vuol dire specificare chi ha fatto qualcosa, a quali condizioni, e se c’è stato qualcuno che l’ha aiutato o se c’è stato un editore che ha avuto un ruolo di primo piano.

Questo processo di contestualizzazione storica non è un modo per rimuovere autorevolezza alla voce stessa dell’autrice o dell’autore, ma viceversa, di collocarla nel suo contesto storico in modo che non sia discutibile. La memoria, sia quella romaní che quella ebraica, viene spesso accusata di essere soggettiva, selettiva e imperfetta. Ed è vero. Però, per me, quella è anche la sua ricchezza. Perché se si critica, si contestualizza e si studia con gli strumenti propri della disciplina storica, si può riconoscere che le memorie parlano non solo di ciò che accadde al tempo dell’Olocausto, ma anche di tutto ciò che è accaduto dopo.

Sono memorie passate al setaccio di una sofferenza che, nel caso del popolo gitano, si sono prolungate per 40 anni in una Germania e in un’Europa che hanno riconosciuto l’Olocausto gitano solo molto più tardi. Per me tutto questo è una sorta di scatola nera della memoria che trovo molto interessante da analizzare.

Ho scelto l’approccio della storia delle emozioni, perché avevo già praticato questa prospettiva in altri lavori precedenti. Contrariamente a quanto la definizione usata potrebbe far pensare, la storia delle emozioni non afferma che le emozioni siano qualcosa di naturale, istintivo: la paura viene fuori se sei in una situazione di paura, l’amore viene fuori se sei di fronte a uno stimolo amoroso. Al contrario, ciò che la storia delle emozioni afferma è che emozioni e sentimenti sono storicamente modulati.

Vale a dire che in ogni momento, in ogni epoca, in ogni società, tutte e tutti noi abbiamo imparato a esprimere le nostre emozioni in modo diverso, e perfino a sentire in modo diverso. Le emozioni, del resto, sono anche uno strumento cognitivo, uno strumento per gestire noi stessi nel mondo che ci circonda. Pertanto, ho trovato molto interessante analizzare le memorie dei Gitani sopravvissuti all’Olocausto da questa prospettiva, perché essa ci permette anche di approfondire i ruoli di genere all’interno della memoria.

Le donne gitane sono state le pioniere della memoria romaní dell’Olocausto. Perché sono state proprio loro a fare il primo passo per raccontare cosa era successo? E che ruolo hanno, in generale, le donne nei tuoi lavori?
Penso a Philomena Franz, la prima sopravvissuta all’olocausto gitano che ha pubblicato le sue memorie con il titolo “Tra l’amore e l’odio. Una vita gitana”. Lei, così come altre sopravvissute (tra cui Ceija Stojka e Lily Van Angeren), è riuscita a trasformare le proprie emozioni in qualcosa che le forniva strumenti utili per esprimersi, per rivendicare dignità. Quella dignità che i campi di concentramento e di dominio si erano tanto sforzati di rubarle, soprattutto la dignità emotiva, il diritto ad avere emozioni, soprattutto quelle positive. Nei campi l’affetto era una debolezza. Dunque, per me, questa è una rivendicazione tanto politica quanto può esserlo affermare di avere il diritto di essere presenti nella storia del proprio Paese. Dire, una volta fuori dai campi di concentramento, che si ha il diritto di provare emozioni, anche positive, in funzione delle quali organizzare un proprio racconto di quanto è avvenuto è insieme coraggioso e degno quanto politico.

Queste donne sono consapevoli di rompere tabù come donne gitane, vale a dire in quanto donne e in quanto gitane. Non bisogna dimenticare che è una costruzione diversa essere gitano o gitana.

Da Philomena Franz, che nelle sue memorie parla da donna sinti, cioè da gitana tedesca, fino ad altre donne gitane che, nel parlare delle violenze anche sessuali esercitate su di loro, tutte sanno di star rompendo dei tabù sessuali. In ogni occasione, queste donne sopravvissute dicono di parlare a proprio nome e per se stesse nella speranza che il loro sforzo serva per tutti. In nessun momento si attribuiscono la voce dell’intera comunità, perché rispettano molto le altre donne, soprattutto le più anziane, che non hanno voluto rompere il velo del silenzio che è stato imposto in seguito. Per me questo è un esercizio molto coraggioso di femminismo, se così vogliamo chiamarlo, che si trova all’intersezione di una doppia persecuzione. La questione dell’essere donna e quella di essere parte di un gruppo stigmatizzato da un punto di vista razzista.

Nel tuo libro parli molto del brodo di coltura che ha aperto la via alle politiche naziste e che ha giustificato il fatto che molte persone rimanessero in silenzio guardando da un’altra parte di fronte a tante persecuzioni e violenze. Pensi che l’incitamento all’odio di oggi stia creando un nuovo pericoloso terreno fertile? E quali pensi siano le chiavi affinché il passato non si ripeta? Detto in altre parole, come possiamo riuscire a creare una preoccupazione pubblica ampia per questo rischio?
È una domanda interessante e molto importante, proprio come chiusura della nostra conversazione, perché il fatto che ci sia una possibile connessione tra passato e presente riprende quanto si diceva nella prima domanda. Trovo particolarmente inquietante che alcune tradizioni dell’immaginario, profondamente intrise nella cultura occidentale fatta di stereotipi che non siamo stati in grado di smantellare né di decostruire, siano ancora vive e possano essere il fondamento per giustificare azioni contro qualsiasi tipo di gruppo collettivo umano. Alcuni di questi stereotipi, infatti, oggi, senza cessare di essere applicati al popolo gitano, vengono trasferiti e applicati a nuove minoranze vulnerabili, come le persone migranti di diverso tipo. Quindi è ovvio che c’è una connessione tra l’incitamento all’odio del passato e qiello del presente. Sì, c’è un pericolo reale, soprattutto perché quei discorsi oggi hanno piattaforme su cui vengono diffusi e una possibilità di estensione in molteplici reti sociali che non c’erano nel passato.

Cosa possiamo fare? C’è molto da fare, ognuna e ognuno nel suo ambito. Io, ad esempio, sono uscita anche dai binari classici della mia professione per provare a fare qualche cosa in più. Credo sia necessario uscire dall’ambito accademico e che la battaglia vada condotta negli spazi della divulgazione, del trasferimento del sapere dalla ricerca scientifica alla strada, a ciò che la società gestisce come conoscenza comune. Abbiamo girato un documentario basato sulle interviste a Philomena Franz, intitolato “Mi Holocausto”, proprio per mettere in prima persona la sofferenza causata dagli stereotipi. È disponibile liberamente per tutti a questo link .

Credo sia del tutto possibile collegare la ricerca universitaria con l’inquietudine sociale. Quello che dobbiamo fare è cercare format che siano interessanti e accessibili a un vasto pubblico. Con il libro Holocausto Gitano sono rimasta piacevolmente sorpresa dal fatto che sia riuscito a uscire dall’Accademia, dagli studenti, dall’università e che viene letto da persone con preoccupazioni simili. Ad ogni modo, voglio lasciar da parte il mio lavoro personale, che è solo una piccola goccia in tutto ciò che possiamo fare, per non sembrare poi così ottimista.

Penso che ci sia ancora moltissimo da fare e le associazioni romaní, sono le principali attiviste. Ci sono giornate della memoria, ci sono musei o spazi museali che fanno interventi su questi temi. C’è già il cinema, che è molto importante, ci sono i cineasti gitani e poi la letteratura. Sono tutti modi per entrare nel senso sociale, nel senso comune della società. Senso comune è un’espressione che utilizziamo dall’antropologia e dalla storia per parlare di ciò che una società ha assunto come naturale. Il senso comune è ciò che consideriamo vero senza doverci chiedere nulla ed è lì si infiltra lo stereotipo anti-gitano. C’è da svolgere un compito contro-narrativo molto lungo che arrivi a quegli spazi potenti nella creazione del senso comune sociale. E penso che sia nella letteratura, nel cinema, nella divulgazione in generale, nei luoghi della memoria e nei musei che bisogna entrare.


L’intervista di Melissa è uscita in precedenza anche sul quotidiano El Salto in lingua castigliana e si può leggere qui

La traduzione per Comune-info è di marco calabria

 

Nota terminologica tratta da wikipedia

(1) Rom sta ad indicare un determinato popolo romaní, ed è il termine con il quale molti non-romaní oggi usano indicare (in maniera inesatta) tutti i gruppi romaní. I documenti del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea utilizzano il termine plurale Roma come termine generico per indicare tutti i popoli romanì nel loro insieme.

Spesso, per indicare i popoli romaní, vengono usati anche altri termini: ad esempio, in italiano “zingari” (o “zingani” o “zigani”) e “gitani”; in inglese gypsies e travellers (“viandanti”); in francese gens du voyage (“viaggiatori”), tsiganesgitans e manouches; in spagnolo e in catalano gitanos; in tedesco Zigeuner; in ungherese cigány; in polacco cyganie, ecc. Tali termini, usati per indicare le popolazioni romaní da parte di chi non ne fa parte (esonimi), sono percepiti da gran parte delle persone romaní come dispregiativi e offensivi,[2] oltre che negativamente connotati nella gran parte delle lingue.

Secondo diversi studiosi, il termine corretto da utilizzare sarebbe quello proprio dell’etnia o, più in generale, la locuzione popolazione romaní, sostituendo quindi i termini zingaro/zingari, laddove usati come aggettivi, con i corrispondenti aggettivi romanó/romaní.[2][3] In Italia, tuttavia, in documenti di emanazione ministeriale come ad esempio gli studi del Ministero dell’Interno,[4] si continua a utilizzare il termine “zingari” per indicare l’insieme delle etnie e l’aggettivo “romaní” viene utilizzato solo in relazione alla lingua propria dei rom e sinti.

Sulla parola zingarozingano o zigano esistono diverse ipotesi etimologiche. La parola è chiaramente imparentata con il francese tsigane, il portoghese cigano, il rumeno țigan, l’ungherese cigány e il tedesco Zigeuner. Fino all’inizio del XX secolo molti studiosi collegavano “zingaro” ad Athingan, una popolazione mista siraetiope e nubiana, che si sarebbe stabilita in Tracia in seguito alle vittorie dell’imperatore Costantino V, e che sarebbe stata poi dispersa dalle invasioni turche (è l’opinione fra gli altri di Ottorino Pianigiani, autore del Dizionario etimologico italiano del 1907).[5] Attualmente, gli studiosi fanno risalire la parola dal greco medievale (Α)τσίγγανοι (A)tsínganoi (greco moderno Τσιγγάνοι, Tsingáni), tribù dell’Anatolia.[6][7] Non è escluso che l’etimo originario sia indo-arioatzigan.[8] La stessa parola greca Ατσίγγανος viene collegata da alcuni studiosi[9] ad Αθίγγανοι Athínganoi, “intoccabili”, nome di gruppi eretici stanziati nelle regioni anatoliche di Frigia e Licaonia, che imponevano di non toccare le persone considerate impure. Il significato “intoccabili” però ha fatto pensare anche alla quinta casta indiana, i paria, considerati appunto impuri ed intoccabili. Questo ha indotto molti a immaginare che la connotazione della parola sia sempre stata negativa.

Altri ancora ritengono invece che la connotazione del significato fosse positiva, portando a sostegno di ciò un documento del 1387 di Nauplia, in Grecia, dove i veneziani confermarono i privilegi agli zingari concessi a loro dai bizantini.[10] Privilegi che ritroviamo per questi popoli in diversi documenti per un centinaio di anni in diversi luoghi dell’Europa, come quella, per esempio, del 1423:

«Noi Sigismundo, per grazia di Dio sempre Augusto Re dei RomaniRe d’Ungheria, di Boemia, di Dalmazia, di Croazia… Per la quale cosa dovunque il detto Ladislao Voivoda e la sua gente giungano nei nostri domini, città e castella, con la presente lettera comandiamo e ordiniamo alle nostre fedeltà che il medesimo L.V. e gli zingari i suoi sudditi, tolto ogni impedimento e difficoltà debbano essere favoriti e protetti e difesi da ogni attacco e offesa. Se poi tra loro stessi sarà sorta qualche zizzania o contesa, allora né voi, né nessun altro di voi, ma lo stesso Ladislao Voivoda, abbia facoltà di giudicare e liberare.»

(da Jean-Paul Clébert, Les Tziganes)

Intorno al XVI secolo il termine avrebbe assunto la connotazione – negativa – che troviamo ancora oggi.

La parola gitano, come l’inglese gypsy e il francese gitan deriva dallo spagnolo gitano a sua volta derivato dal latino *aegypt(i)anus, “egiziano” (aggettivo derivato da Aegyptus, “Egitto“). Questo appellativo è sicuramente collegato alla leggenda di una provenienza dei Romaní dall’Antico Egitto: secondo il mito, i Romaní sarebbero discendenti da Ismaele, figlio che Abramo ebbe dalla sua schiava Agar[senza fonte]

Piero Colacicchi[11] sostiene che “nomade“, riferito ai Rom, è un termine ottocentesco, usato non tanto per indicare lo stile di vita di questi quanto piuttosto con intento discriminatorio verso coloro che ritenevano “uomini inferiori” poiché “pigri, vagabondi, caratterialmente instabili”, in contrapposizione a quello dell’uomo eletto, amante della patria, posato e seguace della morale. Il termine è peraltro in contraddizione con le effettive condizioni sociali della popolazione romaní, che almeno in Italia è in gran prevalenza stanziale.

da qui

500 persone catturate in mare. Malta ha coordinato per procura un criminale respingimento collettivo in Libia - Sea Watch

 

Dichiarazione congiunta di Alarm Phone, Sea-Watch, Mediterranea Saving Humans ed EMERGENCY.

“Sono fuggiti da guerre e prigioni in Siria e ora, purtroppo, sono stati riportati in Libia”.
(Un parente delle persone a bordo, che ha raccontato la cattura ad Alarm Phone)

Nel pomeriggio del 23 maggio 2023 la rete Alarm Phone è stata contattata da un gruppo di circa 500 persone in pericolo, fuggite da Tobruk in Libia. Alcune provenivano da Siria, Egitto, Bangladesh e Pakistan, oltre a 55 bambini e 45 donne. Il motore del peschereccio a doppio ponte aveva smesso di funzionare e l’imbarcazione era alla deriva. La posizione GPS che hanno condiviso li indicava a più di 30 miglia nautiche all’interno della zona di ricerca e soccorso (SAR) maltese, dove le autorità di Malta hanno la responsabilità di coordinare le operazioni di soccorso.

Meno di un’ora dopo la prima chiamata delle persone in pericolo, Alarm Phone ha allertato l’RCC di Malta e l’MRCC di Roma in Italia, così come diverse navi della flotta civile, che erano operative al largo delle coste della Libia occidentale. Nelle ore successive, la situazione delle 500 persone in pericolo è ulteriormente peggiorata: nell’imbarcazione entrava sempre più acqua e quelle che si trovavano sul ponte inferiore sono dovute fuggire su quello superiore, come hanno riferito ad Alarm Phone. Diverse navi mercantili sono transitate in lontananza e non si sono fermate a intervenire per soccorrere le persone in difficoltà. A un certo punto della notte tra il 23 e il 24 maggio, le persone a bordo hanno riferito ad Alarm Phone che una nave mercantile era quasi entrata in collisione con loro. Questi fatti dimostrano che RCC Malta non ha informato le navi presenti in zona della barca alla deriva, con 500 persone in pericolo.

Per tutta la notte, Alarm Phone è rimasta in continuo contatto con il gruppo. L’ultima volta che Alarm Phone è riuscita a parlare con le persone a bordo è stato alle ore 6:20 CEST del 24 maggio. Queste hanno riferito una situazione invariata, con l’imbarcazione ancora alla deriva. L’autorità responsabile della zona di ricerca e soccorso maltese – RCC Malta – ha continuato a non rispondere alle richieste di aiuto.

Alle 11:44 CEST, come indicato dal credito telefonico satellitare monitorato da Alarm Phone, i naufraghi hanno usato il loro telefono satellitare per effettuare un’ultima chiamata – ma non è chiaro a chi si siano rivolti. In seguito, né i parenti e gli amici delle persone a bordo che avevano contattato Alarm Phone, né Alarm Phone stessa sono stati in grado di riconnettersi con le persone in pericolo. Nelle ore successive, sempre più persone hanno iniziato a contattare Alarm Phone, chiedendo informazioni sulla sorte dei loro cari.

Alle 13:45 CEST l’aereo Seabird 2 della Sea-Watch è arrivato nell’area dell’ultima posizione nota e ha cercato la barca in difficoltà. L’equipaggio non è riuscito a individuare il grande peschereccio con circa 500 persone a bordo. Come è potuto scomparire nel nulla?

Nella notte tra il 24 e il 25 maggio, la nave Life Support della ong EMERGENCY, la Ocean Viking di SOS Mèditerranèe e la Humanity 1 hanno raggiunto l’area e hanno iniziato a cercare l’imbarcazione scomparsa, proseguendo per tutto il giorno successivo. Nessuna nave militare governativa ha contribuito alle ricerche. Le autorità hanno invece mantenuto il silenzio sulla sorte del gruppo. Il 25 maggio l’aereo Seabird 2 ha cercato nuovamente l’imbarcazione scomparsa, coprendo un’area di ricerca più ampia rispetto al giorno precedente. Nel frattempo, le capacità delle navi delle Ong avrebbero potuto essere utilizzate per soccorrere vite umane altrove, invece di essere sprecate in una ricerca che si sapeva già essere inutile.

Alarm Phone, EMERGENCY, SOS Méditerranée e Humanity 1 hanno ripetutamente contattato le autorità italiane e maltesi per chiedere informazioni sulla sorte dell’imbarcazione scomparsa. Il timore che le 500 persone potessero essere state intercettate e rimpatriate con la forza in Libia ha cominciato a crescere. Questi timori sono stati confermati la mattina del giorno successivo: le 500 persone non erano state soccorse! Al contrario, erano state trainate a rimorchio – per oltre 160 miglia nautiche, ovvero più 300 chilometri – fino al porto libico di Bengasi. Un respingimento illegale, una vera e propria deportazione, coordinata da RCC Malta. Secondo i parenti, le 500 persone sono state condotte in una prigione di Bengasi.

Invece di soccorrere e sbarcare in un luogo sicuro, le persone che hanno cercato di fuggire dalle violenze estreme che subiscono i migranti in Libia, l’autorità di uno Stato membro dell’Unione Europea – ovvero RCC Malta – ha deciso di organizzare per procura un respingimento collettivo in mare, costringendo 500 persone ad attraversare oltre 300 km per arrivare in una prigione libica. Inoltre, essendo la sistematica omissione di assistenza in mare da parte di Malta, all’interno della zona SAR di propria competenza, nota da tempo, le autorità italiane avrebbero dovuto mobilitare i soccorsi per proteggere 500 vite e garantire il loro sbarco in un luogo sicuro.

Chiediamo risposte:

·         Perché RCC Malta non ha coordinato il soccorso di questa imbarcazione in pericolo come autorità responsabile nella zona SAR maltese, organizzando invece un respingimento per procura? Perché le Forze Armate di Malta non sono state inviate immediatamente ad assistere l’imbarcazione in pericolo, mettendo così a rischio 500 vite? Perché RCC di Malta non ha ordinato a nessuna delle numerose navi mercantili presenti nelle vicinanze di assistere l’imbarcazione in pericolo?

·         Consapevole delle politiche e delle prassi di Malta di non prestare sistematicamente soccorso e, informato del caso di pericolo, perché il Centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano non ha inviato mezzi di soccorso adeguati per assistere l’imbarcazione in pericolo?

·         L’aereo “Seagull” dell’operazione europea EUNAVFOR MED Irini volava nell’area dell’ultima posizione nota dell’imbarcazione in pericolo tra le 13:31 e le 14:12 CEST del 24 maggio, lo stesso momento in cui si è perso il contatto con le persone a bordo dell’imbarcazione alla deriva. Anche la nave militare tedesca “FGS Bonn” dell’operazione EUNAVFOR MED Iri si trovava a soli 100 km dall’imbarcazione in difficoltà. Perché non hanno soccorso le persone in pericolo?

·         Qual è la vera identità dell’imbarcazione libica che ha effettuato il respingimento? L’equipaggio dell’imbarcazione che ha sequestrato il gruppo in pericolo, sotto il coordinamento di RCC Malta, ha mentito alle persone dichiarando che le avrebbe soccorse e portate in Europa?

·         Che ruolo ha avuto la nave TAREQ BIN ZEYAD (IMO 9889930), che è stata rintracciata in posizione 34°51 N – 019°46 E alle ore 6:10 CEST del 24 maggio, vicino alla barca alla deriva, e il cui tracciato è poco dopo scomparso? La TAREQ BIN ZEYAD è normalmente in servizio solo nell’area del porto di Bengasi. Questa nave prende il nome da una nota milizia libica che opera in quella zona ed è nota per aver commesso numerosi crimini di guerra e violazioni dei diritti umani fondamentali.

Chiediamo:

·         All’RCC maltese di adempiere ai suoi doveri di diritto marittimo internazionale e di assicurare che le persone in pericolo in mare siano soccorse con il successivo sbarco in un luogo sicuro in Europa;

·         Agli attori statali europei, compresi i centri di coordinamento dei soccorsi e l’EUNAVFOR MED Irini, di condividere tutte le informazioni rilevanti sui casi di pericolo con gli attori civili per garantire che le persone in pericolo in mare siano soccorse senza alcun ritardo;

·         Alle autorità maltesi e italiane di comunicare in modo trasparente tutte le informazioni in loro possesso sia sull’imbarcazione in difficoltà, sia sull’unità non identificata che ha effettuato il respingimento illegale, sia sulla nave TAREQ BIN ZEYAD, e su quale sia stato il coinvolgimento degli RCC maltese e italiano nel respingimento forzato delle 500 persone in pericolo.

da qui