mercoledì 3 maggio 2023

furto di sanità

 




“Il sistema di cure per tutti è già finito. È un disastro sociale ed economico” - STEFANO CASELLI

 

Intervista a Nino Cartabellotta (Presidente della fondazione Gimbe)

 “La fine del Sistema sanitario nazionale pubblico e universalistico porterà a un disastro sociale ed economico senza precedenti. Ma temo che nessuno se ne renda conto”. Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, da anni misura la temperatura della sanità italiana. Che, inesorabilmente, continua a salire.

Cartabellotta, è davvero “in gioco il Sistema sanitario pubblico e universalistico” come ha denunciato ieri, incontrando il governo, Raffaele Donini, assessore in Emilia-Romagna?

Purtroppo sì. Il sistema è stato travolto dal Covid dopo un imponente definanziamento di circa € 37 miliardi negli anni 2010-2019. Il capitale umano si è ulteriormente depauperato; sono emersi nuovi bisogni di salute quali long-Covid e disturbi psicologici e psichiatrici; non si riescono a recuperare le prestazioni non erogate durante la pandemia. E gli investimenti 2020-2022, assorbiti dall’emergenza, non permettono alle Regioni di mantenere i conti in ordine. E difficilmente ci saranno margini per nuove risorse a breve termine.

Quanto tempo rimane?

Il tempo è già scaduto tra l’indifferenza di tutti i governi che continuano a ignorare tre concetti chiave. La sanità pubblica è una conquista sociale irrinunciabile. Il livello di salute e benessere della popolazione è una determinante per la crescita economica del Paese. Infine, che la perdita – lenta ma inesorabile – di un servizio sanitario pubblico e universalistico, oltre a compromettere la salute delle persone, porterà a un disastro sociale ed economico senza precedenti.

La pandemia non ci ha insegnato nulla?

Assolutamente no. Inizialmente il Ssn sembrava essere tornato al centro dell’agenda. Poi con la fine dell’emergenza tutto è rientrato nei ranghi. Nel Def 2022 (governo Draghi) il rapporto spesa sanitaria/Pil nel 2025 crolla al 6,1% e nella Nota di aggiornamento del Def (governo Meloni) viene ridotto al 6%; e la legge di Bilancio 2023 non ha previsto alcun rifinanziamento strutturale del Ssn, ma ha lasciato alla sanità solo briciole, in larga parte destinate a coprire i costi dell’energia.

Come affrontare la carenza cronica di medici e infermieri?

Stanziare consistenti investimenti per valorizzare e motivare la colonna portante del Ssn e programmare il fabbisogno di medici, specialisti e altri professionisti sanitari. In caso contrario, rischiamo lo svuotamento del Ssn da professionalità capaci di garantire la qualità dell’assistenza, affidando in parte la gestione delle risorse umane a società private senza alcun controllo e spendendo ingenti somme di denaro pubblico.

Di fatto, cosa rischia concretamente di non trovare più un cittadino se va avanti così?

Il diritto costituzionale alla tutela della salute. Sarà impossibile accedere in tempi ragionevoli a servizi e prestazioni necessarie, ricorrendo al privato se può pagare, oppure rinunciando. È il cosiddetto “universalismo selettivo” che non è affatto una minaccia incombente, ma una realtà quotidiana, soprattutto al Sud.

A che servono i soldi del Pnrr se non possono essere utilizzati per la spesa corrente?

Senza investimenti sulla spesa corrente solo a un costoso lifting.

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Sanità: Settore Pubblico sempre più in sofferenza -

 

Alla fine è arrivata pure la Corte dei Conti a denunciare, per bocca del procuratore generale Pio Silvetri [1], « le difficoltà in cui opera, a causa della mancanza di personale e di retribuzioni non sempre adeguate, il personale medico del servizio pubblico ».

Dai medici a gettone all’intramoenia, fino alla pensione a 72 anni: tutte le “non soluzioni” della destra ai problema della Sanità Pubblica

Nell’occasione la Corte ha annunciato di voler aprire un’indagine sul sistema dei “medici a gettone”, specie nei reparti di medicina d’urgenza.

« Il fenomeno – scrive il PG Silvetri – pone non solo problemi di qualità del servizio ma anche costi notevoli che vanno a gravare sul settore sanitario da sempre in forte sofferenza ».

E’ recente, in proposito, anche la denuncia di Medicina Democratica: « Le richieste di esami specialistici urgenti nel servizio sanitario pubblico finiscono in una misteriosa lista di galleggiamento: a pagamento, invece, quegli stessi esami in strutture pubbliche sono disponibili pressoché tutti i giorni. ci chiediamo quali siano i criteri in base ai quali si stabilisce, anche dentro gli ospedali pubblici, il numero di prestazioni in convenzione e quelle in regime privatistico. E ci chiediamo perché quelle private intramoenia siano così tante e invece quelle in convenzione pochissime e introvabili » [2].

D’altro canto il governo di destra continua nella sua opera corporativistica che ha solo la funzione di “prendere tempo”.

L’ultima è lo slittamento dell’età pensionabile dei medici fino a 72 anni.

« Se l’intento è quello di colmare la carenza di personale, è una misura inefficace », ha stroncato subito lo stesso Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici [3].

Anche se lo stesso Anelli, poi, da buon “governativo” mitiga la sua affermazione: « in ogni caso meglio un medico ultrasettantenne, ma abilitato e con esperienza, di un medico extracomunitario assunto senza certezza dei suoi titoli, della conoscenza della lingua italiana e non iscritto ai nostri Ordini » [3].

Le difficoltà, umane e logistiche, incontrate dalla Sanità italiana nell’affrontare la pandemia influenzale del 2020 dovevano rappresentare l’ultima sirena d’allarme per un Sistema Sanitario largamente inadeguato e insufficiente.

La politica e gli Organi della Verità hanno preferito occuparsi d’altro: da come fermare le ONG che sbarcano immigrati alla penalizzazione della Juventus per il caso “plusvalenze”, da Sanremo fino alla … “sfera di metallo trovata su una spiaggia in Giappone” [Open, 22 febbraio 2023, NdR].

Sanità: 9 temi che politica e Organi della Verità non affrontano

Le patologie di cui soffre la Sanità, eppure, sono note:

·         inadeguatezza delle campagne di prevenzione ( lotta all’alcolismo e all’obesità, alle condizioni predisponenti i tumori, le malattie respiratorie e quelle cardio-vascolari ),

·         assenza di adeguata assistenza “di filtro” territoriale di base,

·         medici di base “privati” e non dipendenti sanità pubblica ed inoltre ipercarichi di “assistiti”;

·         elevati ticket per esami clinici e strumentali che scoraggiano la prevenzione,

·         pronti soccorsi sovraffollati e con tempi di attesa inumani, 

·         carenza di posti letto ospedalieri,

·         lunghezza delle liste d’attesa per esami e visite nel sistema pubblico e sistema di prenotazione arcaico [potrebbe e dovrebbe essere curato direttamente online dallo stesso medico di base che prescrive esame, NdR],

·         disinvestimento dal settore pubblico a favore di quello privato,

·         doppia attività pubblico/privata dei sanitari,

·         numeri chiusi all’accesso delle professioni sanitarie.

Quando saranno affrontati?

Fonti e Note:

[1] Corte dei Conti, 24 febbraio 2023, scarica il PDF qui: “ Relazione del PG Pio Silvestri per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2023 ”.

[2] Medicina Democratica, 21 febbraio 2023, “Sanità lombarda: l’ospedale pubblico ti fa l’esame subito, ma solo se paghi!”.

[3] FNOMCEO, 23 gennaio 2023, “Medici in pensione a 72 anni? Anelli (FNOMCeO): Misura inefficace, ma male minore. Occorrono riforme strutturali, investire sui professionisti”.

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Sanità: liste d’attesa per visite ed esami: ecco perché sono sempre più lunghe - Milena Gabanelli e Simona Ravizza


In Italia da tempo indefinito la certezza di avere un esame o una visita medica in tempi rapidi ce l’ha solo chi può permettersi di pagare. Prima della pandemia, secondo il Censis, 19,6 milioni di italiani si sono visti negare almeno una prestazione dei livelli essenziali di assistenza in un anno e, presa visione della lunghezza della lista di attesa, hanno proceduto a farla di tasca propria: ogni 100 tentativi di prenotazione, 28 sono finiti nel privato (qui il documento). Dopo i due anni di picco del Covid (2020-2021) che cosa sta succedendo? Vale l’immagine che abbiamo utilizzato più volte: immaginate una lunga fila al binario che attende di salire sul treno a cui si sommano i passeggeri di oggi. Se al treno non vengono aggiunte altre carrozze, ci saranno sempre più passeggeri che dovranno rimandare quel viaggio, che in molti casi gli può salvare la vita, o in alternativa pagarsi un trasporto privato. È il motivo per cui recuperare velocemente le prestazioni sanitarie perse durante il Covid, a causa della paralisi dell’attività programmata, è per il Servizio sanitario nazionale una assoluta priorità. E per due ragioni: 1) la maggior parte della popolazione non può permettersi la sanità a pagamento; 2) il ritardo di una cura o di una diagnosi va ad aggravare sia il paziente che le casse pubbliche. Un’elaborazione di dati fatta per Dataroom dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) che fa capo al ministero della Salute ci permette di capire quanto è lunga quella coda e perché non si riesce ad accorciarla…

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Sanità lombarda, liste d’attesa record. Al San Raffaele per una cisti 1300 giorni, ma subito se paghi 7.500 euro: le piaghe del “sistema” - Thomas Mackinson


Infinite promesse elettorali che s’infrangono su due numeri: 1300 giorni d’attesa (col servizio sanitario nazionale), zero (pagando 7.500 euro). Giorni e soldi che separano la signora Aurelia da un intervento di colecistectomia al San Raffaele di Milano, l’ospedale forse più famoso della Lombardia, fiore all’occhiello del Gruppo San Donato, il più grande della sanità privata italiana. Sembrava un errore, un attesa oltre ogni immaginazione quel dato emerso da una telefonata in diretta a “37e2”, la trasmissione di Vittorio Agnoletto su Radio Popolare. Viene poi confermato dalla struttura sanitaria. Il racconto somiglia ad altri, a parte il computo dei giorni che polverizza i record precedente. “Ad agosto 2020 – racconta l’ascoltatrice – ho avuto il primo episodio di coliche biliari e sono andata al Pronto Soccorso del San Raffaele, ma per via della pandemia ad ottobre vengo messa in lista d’attesa, senza però una data precisa, per l’intervento di colecistectomia. I miei calcoli, di oltre un cm, non si possono sciogliere in nessun modo. Da allora ogni 6 mesi mi sottopongo a controlli, ma ancora nessuna data è prevista per l’intervento. Io continuo a stare male, continue fitte, dolori, nausee, vomito, nonostante il cambiamento di regime alimentare. Fino a quando a gennaio 2023 ho detto basta, non ce la faccio più: ho chiamato il San Raffaele e ho chiesto a che punto era la lista d’attesa, e mi hanno detto che c’era da aspettare ancora tantissimo tempo. Allora ho chiesto quanto era l’attesa per un intervento a pagamento: mi è stato risposto oralmente che i tempi di attesa a pagamento non ce ne sono e che il costo era di 7.500 euro! A quel punto mi sono fermata perché non è giusto che un cittadino onesto, che paga le tasse non abbia diritto a un servizio sanitario pubblico che funzioni”.

Agnoletto ne chiede conto all’assessore Guido Bertolaso invitandolo ad intervenire in trasmissione “ma nessuna risposta ci è arrivata, silenzio totale: ci chiediamo quali siano gli interventi urgenti e concreti che la Regione sta programmando per abbattere queste liste d’attesa assurde, causa di enormi disagi per la popolazione, visto che era un obiettivo posto al centro della campagna elettorale del presidente Fontana”. La domanda trae forza da un dato di fatto, che è la conferma poi arrivata dal San Raffaele. “La lista di attesa per l’intervento di colecistectomia (videolaparocolecistectomia o VLC) è riportata nelle tabelle pubbliche sul sito di Ospedale San Raffaele ed è al momento di 1300 giorni. Per questo specifico intervento, come per altri, la lista di attesa risente ancora dei ritardi causati dalla pandemia, che ha costretto l’Ospedale San Raffaele a interrompere per diversi mesi, tutti gli interventi in elezione. L’intervento di colecistectomia è un intervento programmabile che non ha carattere di urgenza. L’Ospedale San Raffaele fa presente che la lista di attesa dà sempre precedenza alle patologie che rivestono carattere di emergenza/urgenza”.

Nella lista si possono infatti rintracciare altri record negativi, come i 1395 giorni per un ricovero di ortopedia pediatrica e fino ai 1700, quattro anni e sei mesi, per un intervento laser alla prostata. Ma sono numeri da prendere con le pinze, perché il sistema di prenotazione della Regione indica dove la prestazione viene garantita prima. E’ quando la si pretende da una struttura specifica, magari vicino a casa, che il rischio calende greche diventa certezza. E infatti, per legge, se le Ats di riferimento non garantiscono la prestazione entro i termini indicati sulla ricetta il cittadino ha diritto al trattamento in regime privato al solo costo del ticket: e chi lo ha mai sentito? E infatti il problema non si limita certo al San Raffaele, che fa sempre notizia e non solo per meriti propri ma anche perché avvengono pur sempre sotto la “cupola dello scandalo” , quello della politica lombarda che fa fiore la sanità privata desertificando quella pubblica. Ma se le liste d’attesa sono il metro, non è che altrove le cose vadano meglio: per una Tac al torace al Gaetano Pini, ad esempio, si deve attendere 243 giorni contro i 60 indicati come tempo medio, 180 se vai al Buzzi.

Lo scandalo, piuttosto, è allora (e ancora ) tutto politico. E’ nel diluvio di promesse che si sentono scrociare da decenni e ancora oggi. Il 24 gennaio Attilio Fontana, vale a dire a 16 giorni dal voto, si impegnava solennemente davanti agli elettori: “Il mio primo atto sarà ridurre le liste d’attesa”. Come non avesse avuto cinque anni di tempo per farlo, o il centrodestra di cui era ancora candidato ben 28, oltre un quarto di secolo, perché da tanto governa Regione Lombardia, dove la sanità è un mito di cartapesta, fatto di rotoli di liste d’attesa che anche Letizia Moratti, ex assessore e candidata civica col Terzo Polo, prometteva di sciogliere: “Il mio primo atto? Più risorse per tagliare le liste d’attesa”.

Ma il tema, lo sanno anche i sassi, non è solo di risorse ma anche di efficienza che resta appesa sulle bocche dei politici lombardi. Restiamo allora alle liste. Bertolaso, confermato nel ruolo di assessore alla Salute nella nuova giunta, a dicembre aveva annunciato che gli uffici dell’assessorato stavano lavorando a una piattaforma unica regionale che mettesse insieme tutte le agende di tuti gli enti, che siano strutture pubbliche o private in modo che il cittadino possa accedere e scegliere, ma anche controllare sforzi e risultati nel ridurre le loro attese. Perché, signori e signori, sembra incredibile ma nel 2023 ancora non c’è. L’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS) ha strutturato un database con le liste d’attesa delle strutture, ma spesso porta a risultati inesistenti: manca tra l’altro la pagina dell’Ospedale Niguarda, tra i più grandi d’Europa, che annuncia il monitoraggio ma non offre alcun documento, “il link attualmente non è censito” avverte la pagina del “Monzino”. Siamo “in attesa” delle liste d’attesa.

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Istat: le liste d’attesa infinite ingrassano la sanità privata - MARCO PALOMBI

 

Le mancanze del Servizio sanitario nazionale ingrassano la sanità privata, specialmente grazie alla spesa diretta delle famiglie (cosiddetta “out of pocket”) che aumenta da anni, escluso il 2020 dei lockdown, e che nel 2022 è stata spinta in particolare dalle lista d’attesa infinite. Questo, in estrema sintesi, il contenuto di un’audizione dell’Istat di ieri in Senato. È l’altra faccia della notizia che Il Fatto ha riportato sempre ieri, cioè l’allarme sul sistema sanitario lanciato al governo dalle Regioni: mancano medici, infermieri, strutture territoriali e ovviamente soldi, perché dopo un sotto-finanziamento durato un paio di decenni e lo choc del Covid l’universalità del Ssn e persino il suo funzionamento sono a rischio. Le Regioni chiedono subito le spese “pandemiche” non ripianate dallo Stato (circa 4 miliardi), ma anche un percorso pluriennali di aumento dei fondi sulla salute: non pare aria visto che l’Italia si è impegnata con l’Ue a riportare il bilancio in avanzo primario, impegno messo nero su bianco dal governo nella Nota di aggiornamento al Def.

E ora veniamo all’Istat: altri dataset possono dare numeri diversi, persino “peggiori” di quelli dell’Istituto statistico nazionale, ma è il trend che conta. Nel 2021, ultimo dato definitivo disponibile, la spesa sanitaria in Italia era complessivamente di circa 168 miliardi di euro: lo Stato ne finanziava il 75,6%, il resto – che in soldi fa 41 miliardi – era a carico delle famiglie, in gran parte mettendo direttamente mano al portafogli (35,6 miliardi di spesa “out of pocket”) e per una quota molto minore attraverso assicurazioni volontarie (4,5 miliardi). Il 2021, è bene tenerlo a mente, è uno dei due anni in cui la spesa sanitaria dello Stato è cresciuta per l’emergenza Covid: se prendiamo il periodo 2012-2019 (escludendo gli anni della pandemia) la spesa pubblica è salita dello 0,8% l’anno in media (meno dell’inflazione, il che si traduce in un taglio, tanto più che l’inflazione sanitaria normalmente è assai più alta di quella generale), la spesa diretta delle famiglie del 2,1% annuo e quella assicurativa del 4,3%. Cosa ci compravano le famiglie con quei soldi? Visite e cure ambulatoriali (36,5% del totale), farmaci (29,3%), degenza ospedaliera a lungo termine e apparecchi terapeutici da usare a casa (10,4% per ciascuna voce).

Il trend, secondo i dati preliminari comunicati dall’Istat in Parlamento, è proseguito nel 2022 probabilmente peggiorando: la percentuale di cittadini che hanno rinunciato alle cure è tornata ai livelli pre-Covid (il 7% contro l’11,1% del 2021 e però il 4% del 2008), ma con diversa composizione geografica (aumenta il peso del Nord) e sociale (sale la quota dei benestanti). Questa l’interpretazione di Istat: “Nel confronto tra il 2022 e gli anni pregressi della pandemia, emerge un’inequivocabile barriera all’accesso costituita dalle lunghe liste di attesa, che nel 2022 diventa il motivo più frequente” di rinuncia alla prestazione medica, persino più dei motivi economici (il 4,2% della popolazione contro il 3,2).

Questo comporterà, quando avremo i dati definitivi, un probabile corposo aumento della spesa privata diretta: “Un altro aspetto che potrebbe evidenziare una maggiore difficoltà di accesso alle cure è che per soddisfare il bisogno di prestazioni sanitarie è stato necessario un maggior ricorso all’“out of pocket” o a spese sanitarie garantite da copertura assicurativa”.

L’anno scorso, dice Istat, la composizione della spesa per visite e accertamenti “si sposta di alcuni punti percentuali da prestazioni a carico del Ssn o gratuite a quelle pagate di tasca propria o con rimborso parziale o totale da parte delle assicurazioni private o aziendali”: nel 2019 il 37% degli intervistati dichiarava di aver pagato del tutto privatamente una visita specialistica, l’anno scorso erano il 41,8%; stesso discorso per gli accertamenti diagnostici (dal 23 al 27,6%). Prestazioni tra le più colpite dalle infinite liste d’attesa nella sanità pubblica che diventano sempre più profitto privato: da notare che la quota del campione coperta da un’assicurazione è un residuo 5% e che – specie per il “welfare aziendale” – si parla della parte più ricca dei lavoratori (il quinto col reddito più basso vale il 2,5% della spesa).

 

Sanità, ultimatum Regioni al Governo: “4 miliardi o è crac” - NATASCIA RONCHETTI

Ieri mattina, Raffaele Donini, coordinatore della commissione Sanità della Conferenza delle Regioni, ha pubblicato un post su Facebook: “È in gioco il sistema sanitario pubblico e universalistico. Lo devono capire”. Un invito al governo Meloni a comprendere fino in fondo la profondità del baratro nel quale sta precipitando il Servizio sanitario nazionale. Ed è stato con i numeri alla mano che Donini si è presentato nel pomeriggio, alla guida di una delegazione di assessori regionali alla Salute (insieme a lui anche il presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga) all’incontro con il ministro dell’Economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti, e con il titolare del dicastero della Salute, Orazio Schillaci. Il tempo è scaduto. “Dobbiamo intervenire subito e nel modo più appropriato – ha esordito Donini –. Perché non vorremmo trovarci nella condizione di affermare che l’operazione è riuscita ma il paziente è morto”. Subito significa proprio subito per le Regioni: con l’attivazione immediata di un tavolo di lavoro che entro e non oltre la fine di aprile, cioè tra meno di due mesi, individui gli “interventi urgenti e risolutivi di ordine finanziario e legislativo attraverso i quali consentire alle Regioni di non interrompere la programmazione sanitaria ed evitare la riduzione dei servizi”. D’altronde il sistema è quasi al collasso. “Siamo alla canna del gas”, ammette Luigi Icardi, che guida l’assessorato alla Salute del Piemonte.

Sì, perché tutti i nodi sono venuti tragicamente al pettine. Lo storico sotto-finanziamento del servizio sanitario nazionale; il mancato rimborso di una buona parte delle spese sostenute per combattere la pandemia (mancano all’appello 3,8 miliardi); la continua fuga dei medici dagli ospedali – un esodo che sta facendo della gravissima carenza di specialisti una voragine: ne mancano più di 15 mila –; la necessità di arrestare questa fuga con riconoscimenti economici e professionali. “Da tre anni chiudiamo i bilanci con nostre risorse straordinarie e per questo in molti casi irripetibili – osserva Donini –. Non è accettabile essere sottoposti a un piano di rientro, che significa taglio dei servizi e tasse in più, a causa del sotto-finanziamento e dei mancati rimborsi. I soldi si devono trovare. Saltano fuori per le armi e invece non si spendono per il servizio sanitario, che deve al contrario essere la priorità”. È vero, Giorgetti e Schillaci hanno promesso un immediato tavolo di confronto. Altrettanto, però, non hanno fatto per quanto riguarda l’incremento della dote finanziaria. “Solo che se non si trovano subito i finanziamenti e non si interviene rapidamente anche sul piano legislativo il sistema non reggerà”, dice Icardi.

Lo scenario del resto è drammatico, il confronto con gli altri Paesi europei (per spesa sanitaria in rapporto al Pil) è impietoso. In pratica, dicono le Regioni, se si volessero raggiungere i livelli del Regno Unito servirebbero circa 20 miliardi in più all’anno, addirittura 40 per stare al passo con Germania e Francia. Invece è stata addirittura innestata la retromarcia: la nota di aggiornamento al Def (rivista e aggiornata il 4 novembre 2022), prevede una spesa sanitaria per il 2025 pari al 6% del Pil (nel 2019 era al 6,4%). Un arretramento nel contesto di un sistema ospedaliero che era già stato ampiamente spolpato prima della pandemia: in dieci anni sono stati tagliati 35 mila posti letto.

“Ormai anche le Regioni benchmark, come Emilia-Romagna, Toscana, Veneto sono in forte difficoltà”, avverte Pierino di Silverio, segretario nazionale di Anaao, sindacato dei medici ospedalieri. Tanto che lo storico confronto tra Nord e Sud su questo punto potrebbe ormai avere anche poco senso. Mancano gli infermieri (circa 60 mila) e mancano gli specialisti. La mappa sulle gravi carenze di medici ospedalieri, redatta sempre da Anaao qualche tempo, fa spiega che la Sicilia ha un deficit superiore ai 60 medici in quasi tutte le principali specialità (11 su 13). Proprio come la Toscana. La Puglia non ce la fa in nove specialità, nessuna regione ha un organico adeguato. Solo che questa mappa è già persino preistoria, ampiamente approssimativa, oggi, per difetto.

Mentre le liste d’attesa per accedere alle prestazioni appaiono aumentano i medici specialisti continuano a fuggire dal pubblico. Si chiamano dimissioni inattese. “Sette al giorno solo nel 2020 e nel 2021”, rammenta Di Silverio. C’è poi la questione dei Pronto soccorso, la più grave, come rilevato dalle stesse Regioni, che chiedono anche una revisione del tetto di spesa al personale, con “una metodologia che ne definisca il fabbisogno effettivo”. L’indennità aggiuntiva riconosciuta dal ministro Schillaci a medici e infermieri dell’emergenza-urgenza non basta. Tanti continuano a scappare, stremati da turni massacranti mentre le scuole di specialità vedono andare a vuoto i contratti di formazione: tra il 2021 e il 2022 non ne sono stati assegnati quasi il 55%. Risultato, concludono le Regioni, “occorre rendere esigibile il principio secondo il quale nessuna Regione debba sottoporsi a piani di rientro o di riduzione dei servizi o di aumento della fiscalità a causa del mancato riconoscimento dell’attuale criticità finanziaria. In caso contrario sarebbe irrimediabilmente compromesso il sistema sanitario universalistico”.

Già due anni fa la spesa sanitaria privata, che continua a crescere, aveva superato la soglia del 25% di quella annua complessiva: oltre 40 miliardi. Chi può, infatti, si rivolge ai privati. Cosa che approfondisce il solco che separa il Settentrione (più ricco) dalle regioni del Sud (più povere). Per esempio: nel 2021 la spesa privata pro-capite a livello nazionale è stata di 623 euro. Ma le differenze tra le varie aree del Paese si sono rivelate macroscopiche: si passa da 849 euro a 335. E la stessa cosa si rileva nella sanità integrativa. Quattro anni fa, hanno avvertito ancora una volta le Regioni, le persone assicurate erano 13,9 milioni, per il 43% concentrate nel Centro-Nord, per il 9% nel Meridione. Con buona pace dell’equità nell’accesso alle cure.

da qui

 

 

La sanità di tutti, intervista a Tina Anselmi, su Raiplay

 

 

La sanità italiana tra rinunce, ricorso alle strutture private e “pellegrinaggi” - Giovanni Caprio


Nel 2021 la spesa sanitaria direttamente a carico delle famiglie è stata pari a 36,5 miliardi di euro, con un aumento in media annua dell’1,7% osservato nel periodo 2012-2021 (+2,1% dal 2012 al 2019). Le principali spese sanitarie sostenute direttamente dalle famiglie riguardano l’assistenza ambulatoriale per cura e riabilitazione (il 36,5%), l’acquisto di prodotti farmaceutici e altri presidi medici non durevoli (29,3%), l’assistenza (sanitaria) ospedaliera a lungo termine e l’acquisto di apparecchi terapeutici ed altri presidi medici durevoli (per entrambe queste ultime due voci l’incidenza è pari al 10,4%). E’ quanto ha rappresentato Cristina Freguja, direttrice della Direzione centrale per le statistiche sociali e il welfare dell’Istat, durante l’audizione in Commissione Affari Sociali e Sanità del Senato dell’8 marzo scorso.

Ma ciò che più colpisce dall’analisi dei dati dell’ISTAT riguarda la rinuncia a curarsi: nel confronto tra il 2022 e gli anni pregressi della pandemia, emerge un’inequivocabile barriera all’accesso costituita dalle lunghe liste di attesa, che nel 2022 diventa il motivo più frequente (il 4,2% della popolazione), a fronte di una riduzione della quota di chi rinuncia per motivi economici (era 4,9% nel 2019 e scende al 3,2% nel 2022). “Nel 2022 – ha sottolineato Freguja – le prestazioni sanitarie fruite sono, inoltre, più contenute rispetto al periodo pre-pandemico. Dalle indagini Istat sulla popolazione, si rileva infatti una riduzione – diffusa a tutte le ripartizioni – della quota di persone che ha effettuato visite specialistiche (dal 42,3% nel 2019 al 38,8% nel 2022) o accertamenti diagnostici (dal 35,7% al 32,0%). Nel Mezzogiorno quest’ultima riduzione raggiunge i 5 punti percentuali. La flessione riguarda tutte le fasce d’età, ma è maggiore nelle età anziane, con riduzioni di 6 punti per le donne, e comunque anche tra i minori che ricorrono a visite specialistiche (-6 p.p.) o tra le donne adulte per gli accertamenti”.

Quindi, nel 2022 i livelli di prestazioni sanitarie pre-pandemia non sono stati recuperati ed emerge nel contempo il maggior peso della rinuncia a prestazioni per lunghe liste di attesa. Rispetto al 2019 aumenta soprattutto la quota di persone che dichiara di aver pagato interamente a sue spese sia per le visite specialistiche (dal 37% al 41,8% nel 2022) sia per gli accertamenti diagnostici (dal 23% al 27,6% nel 2022).

Di seguito il testo completo dell’audizione al Senato della Dott.ssa Cristina Freguja dell’ISTAT: https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg19/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/425/781/ISTAT.pdf.

Quanto poi alla mobilità sanitaria interregionale in Italia nel 2020 ha raggiunto un valore di € 3,33 miliardi, con saldi estremamente variabili tra le Regioni del Nord e quelle del Sud. Lo rileva un dossier di Gimbe dal quale emerge come Emilia-RomagnaLombardia e Veneto raccolgono il 94,1% del saldo attivo, mentre l’83,4% del saldo passivo si concentra in CampaniaLazioSiciliaPugliaAbruzzo e Basilicata. E la mobilità sanitaria tra i tanti “mali” della nostra sanità rappresenta senz’altro uno di quelli che maggiormente riflette le grandi diseguaglianze nell’offerta di servizi sanitari tra le varie Regioni e, soprattutto, tra il Nord e il Sud del Paese. Infatti, le Regioni con maggiore capacità attrattiva si trovano ai primi posti nei punteggi LEA, mentre gli ultimi posti sono occupati da quelle con mobilità passiva più elevata.

Complessivamente, l’85,8% del valore della mobilità sanitaria riguarda i ricoveri ordinari e in day hospital (69,6%) e le prestazioni di specialistica ambulatoriale (16,2%). Il 9,3% è relativo alla somministrazione diretta di farmaci e il rimanente 4,9% alle altre prestazioni. In particolare, Emerge inoltre che più della metà del valore della mobilità sanitaria per ricoveri e prestazioni specialistiche è erogata da strutture private, per un valore di € 1.422,2 milioni (52,6%), rispetto ai € 1.278,9 milioni (47,4%) delle strutture pubbliche. In particolare, per i ricoveri ordinari e in day hospital le strutture private hanno incassato € 1.173,1 milioni, mentre quelle pubbliche € 1.019,8 milioni. Per quanto riguarda le prestazioni di specialistica ambulatoriale in mobilità, il valore erogato dal privato è di € 249,1 milioni, mentre quello pubblico è di € 259,1 milioni.

I dati di Gimbe dimostrano in definitiva che tantissimi cittadini sono costretti a umilianti “pellegrinaggi” da Sud a Nord per cercare di curarsi, che –di conseguenza– i flussi economici della mobilità sanitaria scorrono prevalentemente da Sud a Nord, in particolare verso le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi con il Governo per la richiesta di maggiori autonomie. E che oltre la metà delle prestazioni di ricovero e specialistica ambulatoriale finisce nelle casse delle strutture private, ulteriore segnale d’indebolimento della sanità pubblica. In ogni caso, è impossibile stimare l’impatto economico complessivo della mobilità sanitaria che include sia i costi sostenuti da pazienti e familiari per gli spostamenti, sia i costi indiretti (assenze dal lavoro di familiari, permessi retribuiti), sia quelli intangibili che conseguono alla non esigibilità di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione.

QUI il Report dell’ Osservatorio GIMBE 2/2023 La mobilità sanitaria interregionale nel 2020”:


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“La sanità pubblica lavorerà per le cliniche private” - Stefano Rossi

Regione Lazio, il governatore Rocca: “Il tema delle liste d’attesa è un problema ormai nazionale legato anche alla carenza del personale sanitario, ma sicuramente noi abbiamo il tema nel nostro ReCup dove c’è soltanto l’agenda pubblica. Noi invece intendiamo riappropriarci di tutte le prestazioni del privato e dare noi l’agenda al privato e non subirla”.

Tradotto, chi chiamerà al telefono il ReCup per fissare una visita medica troverà non solo i presidi pubblici ma anche quelli privati. E non sapremo a chi daranno la precedenza.

E’ pazzesco che un servizio pubblico, con dipendenti pubblici, finanziato ovviamente con soldi pubblici lavorerà per le cliniche private.

Finora, tutti i partiti che hanno governato negli ultimi trent’anni hanno favorito la sanità privata massacrando quella pubblica (il caso Formigoni docet).

Ho il sospetto che quel “non subirla” si debba leggere esattamente al contrario.

Ma poi, sul piano giuridico, il danno erariale si configura proprio quando il dipendente pubblico, in violazione dei suoi obblighi di servizio, causa un danno economico all’ufficio.

Qui si vuole legalizzare l’illegalità manifesta: siccome abbiamo distrutto il servizio pubblico con un altro servizio pubblico lavoreremo per far lavorare i servizi privati.

Quando si tratta di storpiare la logica umana e giuridica ci sono persone e partiti che raggiungono livelli sopraffini.

E niente, sono troppo avanti!

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Quarant’anni di sanità e welfare in Italia - Gaspare Jean

Il Quaderno di Gaspare Jean è una vera e propria storia critica della sanità pubblica in Italia negli ultimi quarant’anni, ovvero dalla approvazione della legge di Riforma Sanitaria (1978) ad oggi. Una lettura che ci aiuta a riflettere su come il servizio sanitario nazionale si è evoluto (e deteriorato) negli ultimi anni, ma soprattutto a impegnarci nella lotta per la sua difesa, ora che ipotesi di autonomia regionale differenziata, di flat tax e di finanziamento assicurativo minacciano la sua universalità ed esigibilità ancora più di quanto è accaduto finora attraverso il sottofinanziamento cronico.


Questo testo è stato preparato nell’agosto del 2019 come contributo al lavoro collettivo di “Ideeinformazione” da Gaspare Jean, pochi giorni prima della sua scomparsa.
Gaspare Jean, medico, è stato primario in diversi ospedali milanesi e dirigente ospedaliero. Per oltre quarant’anni si è molto impegnato per il recupero degli alcool-dipendenti ed era fiduciario medico nazionale dell’associazione Alcoolisti Anonimi. Questa sua attenzione per gli aspetti sociali della medicina è tra le motivazioni del conferimento, nel 2008, dell’Ambrogino d’oro del Comune di Milano. Storico attivista della sinistra milanese e dirigente dell’ANPI (era iscritto alla sezione XXV Aprile) era sempre presente dove c’era bisogno del suo impegno. 

Scarica o sfoglia il Quaderno 8

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7 aprile 2023. Giornata europea contro la commercializzazione della salute.

 

Come ogni anno, il 7 aprile, World Health Day per l’OMS, la Rete europea contro la commercializzazione della salute (https://europe-health-network.net/), ripropone di “festeggiare” trasformando questa giornata denunciando come la salute e la sanità siano sempre più ridotte a merce e sempre più ritenute un nuovo business da cui trarre i maggiori profitti per i grandi gruppi. Ne fanno le spese, ovviamente, le persone, i malati poichè aumentano in modo esponenziale le diseguaglianze in accesso ai servizi e questi ultimi diventano sempre meno universalistici.

Viene colpito in ogni paese il DIRITTO ALLA SALUTE E ALLA SANITA’. Ne fanno le spese maggiori i Servizi Sanitari Nazionali pubblici ancora una volta considerati dai vari governi e dalle istituzioni europee come semplici “costi” se non trasformati in mercato. Nulla è cambiato per non disturbare i grandi capitali in sanità, nonostante la “lezione” della pandemia Covid-19.

Negli ultimi mesi pare che vi sia un risveglio che vuole contrastare queste politiche: le manifestazioni di piazza in Spagna e nel Regno Unito, in particolare, per la salvaguardia ed il rilancio della sanità pubblica sembrano essere un buon segnale che deve essere raccolta anche dagli altri paesi in Europa e non solo.

In Italia, quest’anno abbiamo provato a verificare l’attenzione con la manifestazione tenuta a Milano lo scorso 1° aprile “Sani come un pesce?” che si inseriva proprio nell’ambito delle iniziative per la giornata del 7 aprile. La partecipazione è stata molto promettente. Solleveremo ancora la questione anche nelle prossime settimane.


Video, interventi e documenti sulla manifestazione del 1 aprile a Milano

https://www.medicinademocratica.org/wp/?p=14311

 

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Il dado è tratto nella sanità pubblica italiana - Paolo Caruso

Con l’avvento della Meloni al governo, il Paese sembra sia stato catapultato verso una politica del “fare” esclusivamente tesa a tutelare il “manovratore”, le lobby, i poteri forti, le classi economicamente privilegiate, a discapito dei veri interessi dei cittadini. Con questa destra si assiste sempre più all’apoteosi del neoliberismo anche in ambito sanitario, e proprio questo “nuovo” che avanza sembra dare un ulteriore colpo mortale alla già fragile Sanità pubblica fiaccata da anni di continui ridimensionamenti finanziari, flussi di denaro pubblico dirottati a favore del privato. Una maschera del “nuovo” arrembante che nasconde le insidie del modo di gestire la salute pubblica. Cosa c’è sotto questa operazione di maquillage dell’universo Salute è facilmente comprensibile e ricalca tutti i temi cari alla destra, cioè la privatizzazione. La rabbia e la frustrazione di un popolo sono già abbastanza grandi nel constatare il netto declino del SSN, di una sanità pubblica sempre più marginalizzata e del venir meno di un diritto costituzionale fondamentale quale è la salute. La classe politica della destra più conservatrice e meno presentabile arroccata nei Palazzi delle Istituzioni rimane sorda ai bisogni della gente e fa aprire gli occhi anche a coloro che l’hanno votata. Destra e sinistra per certi aspetti rappresentano un falso storico contemporaneo, le due facce della stessa medaglia, entrambe fautrici di logiche neoliberiste. Nessun governo, compreso quello dei “migliori”,  ha mai  ammesso di volere ridurre i finanziamenti al Servizio sanitario pubblico anzi…. In effetti il finanziamento al Ssn cresce solo sulla carta essendo legato al Pil e già dal 2022 agli anni a venire è in forte calo, un ritorno al periodo pre-pandemia, un abisso rapportato a quello di Germania, Francia e Regno Unito. Il bilancio delle regioni alla voce sanità risulta in rosso, anche di quelle cosiddette virtuose, e con l’ulteriore riduzione dei finanziamenti da parte dello Stato molte di esse saranno costrette a tagliare i servizi sanitari, le prestazioni, aumentando anche il contributo economico dei cittadini. Esistono già forti criticità sia per quanto riguarda le liste d’attesa, lunghe e interminabili, sia per il sovraffollamento delle aree di emergenza che scoppiano presentandosi come dei veri lazzaretti e anche i ricoveri e gli interventi chirurgici rappresentano per molti una chimera. Chi può si rifugia nelle strutture private con il conseguente aumento della spesa sanitaria e con il risultato di veder aumentare le diseguaglianze già esistenti e la sperequazione tra le regioni del nord e le regioni del sud. Malgrado ciò il governo Meloni tende a nascondere la verità e non fa nulla per invertire questa deriva che sta portando ad abbassare il livello delle prestazioni, al mancato ammodernamento del patrimonio strutturale e tecnologico, al crescere dei tempi delle lista di attesa. Un governo guerrafondaio che incrementa le spese militari tagliando i denari alla sanità pubblica di certo non è segno di buona politica orientata al bene comune. La stessa Costituzione infatti sancisce la tutela della salute come diritto fondamentale e gratuito. Dopo anni di tagli alla spesa sanitaria pubblica, il ridimensionamento delle piante organiche, la soppressione di reparti, la chiusura di interi ospedali,  la cieca gestione del numero programmato alle professioni sanitarie e alle specializzazioni, fanno emergere tutti gli errori del passato. La riduzione di medici specialisti soprattutto di alcune branche, di infermieri e di personale sanitario in genere rappresenta un grave vulnus al Ssn, un depotenziamento della sanità pubblica che non riesce più a essere attrattiva, concorrenziale a quella privata. Nessuno incentivo alla professionalità, stipendi non adeguati, e la fuga dal pubblico sono il frutto di una politica deficitaria e di gravi responsabilità sindacali, e non sarà sicuramente l’ultima genialata del governo con la liberalizzazione del lavoro degli infermieri e dei sanitari all’esterno della struttura pubblica, come opera caritatevole di incremento dei guadagni, a far cambiare la tendenza. L’attenzione della politica verso il Ssn nel periodo pandemico e le promesse post covid sono deflagrate con i governi che si sono succeduti al Conte 2. Anche la medicina del territorio, le case di comunità e gli ospedali di comunità segnano il passo prive di una congrua dotazione di personale e lo sviluppo della telemedicina è di là da venire. La stessa medicina generale soffre al pari delle altre specialità di un numero ridotto di medici generalisti e del mancato adeguamento alle richieste del territorio. In questo, la figura del medico di base svilita da anni di imperdonabile abbandono, costretto ad abdicare alla sua professionalità e a districarsi tra burocrazia, restrizioni prescrittive causa di rapporti conflittuali con il paziente, risulta fondamentale e va rivalutata. Soltanto abbandonando il regime privatistico tanto caro alla destra e le logiche affaristiche della sanità pubblica, con un crescente impegno finanziario e un serio coinvolgimento della politica si potrà assistere alla ripresa di quello che fu il fiore all’occhiello dell’assistenza sanitaria pubblica in Italia. Il dado è tratto! O si gettano le basi ad un nuovo progetto di sanità pubblica, o il declino sarà inarrestabile e questa destra non potrà che scrivere la parola fine al Ssn, consentendo agli Andreucci e ai vari Ras della sanità privata di arricchirsi sulla pelle dei cittadini. 

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L’OCSE ci è arrivata, la Meloni no: l’austerità uccide la sanità pubblica - coniarerivolta

Sono serviti quasi sette milioni di morti dovuti al Covid affinché l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) riconoscesse che i sistemi sanitari di tutti i Paesi membri – che sono sostanzialmente tutte le economie avanzate capitaliste del pianeta – si sono fatti trovare drammaticamente impreparati e sottofinanziati all’appuntamento con la pandemia. Dopo decenni passati a predicare l’austerità e la riduzione del ruolo dello Stato nell’amministrazione della cosa pubblica, l’OCSE è così costretta a mettere nero su bianco che lo Stato deve mettere soldi, tanti soldi, per evitare che la salute della popolazione si deteriori in maniera inesorabile nei prossimi anni. È quello che si può leggere in un recente rapporto, intitolato Ready for the Next Crisis? Investing in Health System Resilience. Le criticità individuate sono note a chiunque abbia avuto la sfortuna di avere bisogno di assistenza medica negli ultimi anni: personale gravemente sottodimensionato, investimenti in strutture e macchinari sempre più carenti, spese in prevenzione totalmente insufficienti e tutto il campionario degli orrori con cui si confronta chi entra oggi in un ospedale pubblico.

In uno scenario che, se si guarda alla situazione media di tutti i paesi OCSE (i paesi più ‘avanzati’ del mondo), è sconfortante, l’Italia spicca e lo fa per le ragioni sbagliate. Non può essere una novità, d’altronde. Nei primissimi giorni della pandemia provammo a tracciare un bilancio degli effetti dell’austerità sulla sanità italiana: spesa pubblica corrente nella sanità (che include gli stipendi dei lavoratori del settore) diminuita in termini reali del 12% tra il 2009 e il 2018; investimenti pubblici in sanità, quali ad esempio l’acquisto di strutture e macchinari, che nello stesso periodo soffrono un taglio del 44%; carenze d’organico ad ogni livello, dai medici fino agli infermieri. Una serie di numeri che possono apparire astratti, ma che hanno un riflesso drammaticamente tangibile nella nostra vita quotidiana e che mostrano tutta la loro violenza quando andiamo a vedere come il numero di posti letto ospedalieri ogni mille abitanti fosse, nel 2020, un terzo di quello che avevamo nel 1980 (3,19 posti letto ogni 1000 abitanti nel 2020, 9,61 nel 1980, secondo dati OCSE).

 

Che fare per arrestare questo sfacelo? Una risposta sicuramente prudenziale la fornisce lo stesso Rapporto dell’OCSE di cui parlavamo all’inizio di questo articolo: aumentare sostanzialmente la spesa in sanità fino a portarla al 10.1% del PIL di ciascun Paese membro. Arrivati a questo punto, può essere utile confrontare queste prescrizioni con quanto sta concretamente facendo in merito il Governo Meloni. Anche qui, purtroppo, siamo costretti a tornare su quanto già detto e ridetto: nell’ultima Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, licenziata a novembre 2022, si può notare come la spesa sanitaria in rapporto al PIL sia prevista al ribasso per gli anni a venire, partendo dal 7,2% del 2021 per poi scendere al 7%, 6.6%, 6.2% e 6% negli anni fino al 2025 (come si può leggere nel documento approvato dal Governo qui, Tavola I.3B). Un provvedimento rivendicato con orgoglio e senza alcuna vergogna dal Presidente del Consiglio nella conferenza stampa di fine anno: leggere l’ultima domanda nella trascrizione dell’intervista per credere.

Detto in parole povere, il Governo Meloni, in totale e perfetta continuità con gli esecutivi che l’hanno preceduto, persevera senza esitazione nel progetto pluriennale di distruzione del sistema sanitario nazionale, un progetto che è un attentato diretto alla salute delle milioni di persone che non hanno i soldi per curarsi nella sanità privata e che possono solo sperare di non ammalarsi per evitare di dover iniziare un percorso che unisce alla disgrazia della malattia anche la beffa di liste d’attesa chilometriche, strutture fatiscenti e personale sanitario sfinito da turni massacranti. Non è retorica, purtroppo, ma ciò che ci dice l’OCSE e che ci dicono i dati sugli oltre 4 milioni di italiani che hanno rifiutato le cure per via delle liste d’attesa troppo lunghe. È inoltre ciò che, in spregio del ridicolo, ci dicono le Regioni, governate dalle stesse forze politiche che a livello di Governo centrale devastano la sanità pubblica: “Se davvero il livello di finanziamento del SSN per i prossimi anni dovrà assestarsi al 6% del PIL, prospettiva che le regioni chiedono che venga assolutamente scongiurata, occorrerà allora adoperare un linguaggio di verità con i cittadini, affinché vengano ricalibrate al ribasso le loro aspettative nei confronti del SSN. Saranno necessarie scelte dolorose, ma non più procrastinabili, al fine di evitare che le mancate scelte producano nel sistema iniquità ancora più gravi di quelle già presenti”.

Il Governo Meloni ha il pregio indiscutibile di essere totalmente trasparente e privo di qualsiasi pudore riguardo alle sue priorità: la salute e il benessere della popolazione sono un orpello da sacrificare sull’altare della fedeltà al dogma dell’austerità fiscale e un boccone da offrire in pasto a chi macina milioni su milioni di profitti con la sanità privata. Forte e spietato con i deboli, che siano i pazienti in attesa di essere curati o i migranti lasciati morire in mare senza batter ciglio, debolissimo e servile contro i forti, che siano i guardiani europei della disciplina di bilancio o il padronato nostrano che richiede manodopera da sfruttare.

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