La strage che diventa legge - Carlo Caprioglio, Tatiana Montella ed Enrica Rigo
(tratto da Jacobin Italia)
Il governo
vara un decreto che porta il nome del luogo in cui è avvenuto il naufragio di
Cutro: l’eccidio diviene costituente per colpire ancora con violenza migranti e
solidali.
L’immagine
di Giorgia Meloni che abbraccia i bambini di Addis Abeba e le parole di
Francesco Lollobrigida, ministro neonominato della «sovranità alimentare», che
invitano a fare figli per non piegarsi alla «sostituzione etnica» fanno da
sfondo, in questi giorni, alla discussione parlamentare per la conversione in
legge del cosiddetto decreto Cutro. Difficile pensare a immagini e parole più
efficaci per descrivere la saldatura in atto tra violenza neocoloniale e
patriarcale. Una violenza che non solo si fa legge ma che, in qualche modo,
rivendica di essere una legge sopra le altre. Diversamente da altri «pacchetti»
sulle migrazioni, che ricordiamo con il nome dei ministri dell’interno in
carica, da Maroni a Salvini passando per Minniti e Lamorgese, il decreto Cutro
porta il nome di un luogo. Proprio come le battaglie, che vengono ricordate con
il toponimo dei territori conquistati, o le città, che celebrano con il loro
nome i patti dei vincitori sui vinti, si tratta di un provvedimento con forza
di legge che verrà ricordato con il nome del luogo che il governo ha eletto a
sede di un Consiglio dei ministri tenutosi sul teatro di una strage. È il
portato di un eccidio che diventa legge; la violenza costituente della legge di
conquista, nel senso quasi letterale dell’unione di «ordine» e «localizzazione»
– verrebbe da dire, scomodando Carl Schmitt.
La criminalizzazione delle migrazioni
Ogni
analisi, politica o giuridica, delle disposizioni che stanno per passare al
vaglio del Parlamento non può che partire da questa matrice violenta e
autoritaria, che non si risolve certo sul piano simbolico. Nonostante la lotta
ai trafficanti sia la chiave retorica che ha legittimato la calata del governo
a Cutro, le disposizioni del decreto che innalzano le pene fino a trent’anni (e
oltre) per il favoreggiamento delle migrazioni irregolari sono quelle che meno
hanno suscitato dibattito politico, quasi a segnalare che la lotta ai
trafficanti mette tutti d’accordo. Eppure, basterebbe rammentare che sulla base
dell’art. 12 del Testo Unico immigrazione, sul quale interviene il decreto
introducendo una nuova fattispecie di reato aggravata, sono state messe sotto
accusa le reti di solidarietà e di supporto alla mobilità dei migranti. È,
infatti, configurando il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare che le
procure hanno incriminato le Ong del soccorso in mare, che in alcuni casi si
trovano ancora sotto processo o inchiesta, come nel caso dell’equipaggio della
Iuventa o di Mediterranea.
Quando a
finire sotto accusa sono i migranti che forniscono supporto o che prestano
solidarietà ai connazionali, il risultato è poi quasi sempre il carcere, come è
accaduto per 4 rifugiati eritrei, condannati in due diversi gradi di giudizio e
incarcerati per 21 mesi prima che la Cassazione li riconoscesse non colpevoli
all’esito di un processo durato sette anni 1. Lo stesso vale per chi, durante la traversata, si mette alla guida dell’imbarcazione e che ora rischia il carcere a
vita, anche a prescindere da qualsivoglia scopo di profitto o dal ruolo giocato
nell’organizzazione del viaggio.
Vale
tuttavia la pena chiarire che quelli che riguardano le Ong, gli attivisti o
semplicemente i connazionali che prestano aiuto ad altri migranti non sono
episodi di «mala giustizia», ed è oltremodo fuorviante la tendenza a
rappresentarli come tali. La costruzione del reato di favoreggiamento
dell’immigrazione irregolare come reato che protegge le frontiere – anche a
scapito dei diritti e della vita stessa delle e dei migranti – non è l’esito di
una rappresentazione «errata» dei fatti. Al contrario, è la rappresentazione
naturalizzata delle morti in mare alla stregua di «incidenti», la cui responsabilità
ricade in ultima istanza sui migranti che si sono fatti circuire da criminali
senza scrupoli, e che gioca un ruolo co-costitutivo nel processo di
criminalizzazione. Un dispositivo che colpisce indiscriminatamente chiunque
supporti la fuga dei migranti, che illegalizza la trasgressione dei confini in
quanto tale – anche quelli interni allo spazio europeo – mentre ne dissimula la
carica politica e trasformativa operando una semplificazione che divide i
migranti in vittime e carnefici e ne disconosce ogni protagonismo
politico.
A contare in
questo dispositivo di criminalizzazione non è affatto che si arrivi a condanna,
ma è bensì la disgregazione delle reti e dei legami comunitari e lo
smantellamento della logistica del movimento dei migranti, così come mostrano
le inchieste sulle Ong che, indipendentemente dall’esito dei processi, hanno
già raggiunto il risultato di fermare le navi e ostacolare i
soccorsi.
Qualcosa di
simile si può dire per la detenzione amministrativa nei centri di rimpatrio
(Cpr), che il decreto Cutro torna a estendere sia in riferimento ai termini
massimi di trattenimento che alle circostanze in cui possono essere trattenuti
i richiedenti asilo, oltre che i migranti in attesa di rimpatrio. Quando lo
scopo diventa la criminalizzazione come tale delle migrazioni, a poco valgono
le critiche che denunciano l’incongruità dei fini dichiarati della detenzione
amministrativa nell’accrescere le prospettive di rimpatrio e che, anzi, non
fanno che confermare le linee di continuità dei diversi governi nella gestione
delle migrazioni. Da questo punto di vista, così come in generale sulle
politiche di frontiera, è indiscutibile che l’opposizione parlamentare
all’attuale governo sia in debito di credibilità. Salvo riconoscere che in
epoca di fascistizzazione la simbologia del potere acquisisce una materialità
pregnante: se è infatti innegabile che la decisione di aprire un centro di
rimpatrio per ogni regione fosse originariamente del ministro Minniti, attuarla
con un decreto che porta il nome di una strage ha un sapore lugubre. Ancora una
volta, come le pedine di un risiko, i Cpr, gli hotspot e gli altri luoghi di
confinamento dei migranti segnalano nuovi territori conquistati, nuove linee di
demarcazione che allargano il perimetro degli spazi assoggettati a una legge il
cui scopo è la subordinazione tramite la violenza.
La logica dell’abrogazione della protezione speciale
Dietro la
retorica della lotta ai trafficanti il decreto Cutro persegue però anche un
altro obiettivo radicale. Il fulcro della riforma in discussione alla Camera è,
infatti, l’abrogazione di quella parte dell’art. 19 del Testo Unico
Immigrazione che prevedeva il riconoscimento della protezione speciale sulla
base dei legami relazionali, affettivi, e dell’inserimento lavorativo e sociale
delle persone migranti in Italia. Un intervento che, come segnalato da più
parti in queste settimane, pone due ordini di problemi diversi. Il primo, di
carattere prettamente giuridico, dato dal contrasto con l’art. 10 della
Costituzione che impone all’Italia di conformarsi ai trattati internazionali,
da cui discende l’obbligo di tutelare il diritto alla vita privata e familiare
delle persone migranti. Il secondo, rappresentato dall’impatto sociale che la
riforma avrà nel costringere decine di migliaia di persone all’irregolarità, la
maggior parte delle quali lavoratori e lavoratrici, a causa anche della
contestuale stretta sulle ipotesi di convertibilità dei permessi di
soggiorno.
A rimanere
assente dal dibattito che in queste settimane ha denunciato l’illegittimità e
gli effetti perversi della riforma è tuttavia il contesto di più lungo corso,
che ci ricorda che la protezione speciale di cui si parla altro non è che
l’esito delle varie riforme della protezione umanitaria, abrogata nel 2018 dal
ministro Salvini come istituto di carattere generale e nuovamente ridefinita
nel 2020 dal Decreto della ministra Lamorgese sotto il nome di protezione
speciale. L’istituto, pur rispondendo a nomi diversi, ha rappresentato negli
ultimi 15 anni uno dei principali strumenti di gestione delle migrazioni in
assenza di vie di accesso legali. A partire dalla crisi economica del
2007/2008, alla tendenziale chiusura dei flussi di ingresso per motivi di
lavoro è infatti corrisposto, in modo quasi speculare, un costante aumento dei
permessi rilasciati per motivi di protezione internazionale e umanitaria.
Nell’arco del decennio tra il 2007 e il 2017, il rapporto tra permessi per
lavoro e per protezione internazionale e umanitaria si è invertito: se i
permessi per lavoro sono passati dal 56,1% del 2007 al 4,6% nel 2017, la
percentuale di quelli rilasciati per protezione è aumentata dal 3,7 al 38,5%.
Un processo avvenuto rapidamente che, con la cosiddetta crisi dei rifugiati del
2015, ha subito un’accelerazione decisiva: nel solo biennio 2014-2015, infatti,
si è avuta una contrazione di oltre il 60% dei permessi per lavoro, seguita poi
da un ulteriore calo del 41% l’anno successivo.
In questo
quadro, la protezione umanitaria (oggi speciale), se sul piano giuridico ha
fornito attuazione all’asilo costituzionale, come più volte ribadito dalla
Cassazione, su quello politico è stata lo strumento di governo di fenomeni
sociali diversi. Nel 2011, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza per
la situazione in Nord Africa, il rilascio di permessi per motivi umanitari ha
consentito di gestire i crescenti movimenti migratori innescati dalle
rivoluzioni arabe. In quegli stessi anni, la protezione umanitaria veniva
tuttavia già utilizzata per regolarizzare i braccianti migranti, a partire da
quelli che avevano animato la rivolta di Rosarno del dicembre 2010, per
proseguire negli anni successivi con la cosiddetta sanatoria delle campagne in
risposta alle mobilitazioni dei lavoratori in diverse zone del sud. Di nuovo,
la protezione umanitaria è stata largamente utilizzata nel 2014 per riconoscere
uno status alle donne ucraine già presenti in Italia e impiegate come
lavoratrici domestiche. In altre parole, la protezione umanitaria è stata lo
strumento di una sorta di sanatoria a «bassa intensità», che ha consentito di
ottenere un permesso di soggiorno a lavoratori migranti in diversi settori,
dall’agricoltura al lavoro domestico e di cura, fino alla logistica,
intrecciandosi alla gestione del mercato del lavoro in ambiti sociali
caratterizzati da una conflittualità strutturale.
Due le
principali conseguenze di questa modalità di governance. Se da un
lato, è stata il terreno di negoziazione che ha permesso a centinaia di
migliaia di migranti di regolarizzare la propria posizione sul territorio;
dall’altro, ha precarizzato l’accesso ai diritti di cittadinanza che passa per
l’acquisizione di uno status giuridico stabile, come il permesso di soggiorno
di lungo periodo, e che, agevolando il ricongiungimento familiare, consente il
radicamento sul territorio. La gestione delle migrazioni e della forza lavoro
attraverso il dispositivo umanitario ha, inoltre, determinato una commistione
tra politiche dell’asilo e politiche del lavoro, che ha avuto come effetto, tra
gli altri, di disgregare le reti di autorganizzazione dei migranti,
sparpagliati sul territorio nazionale e costretti nelle dinamiche di mobilità/immobilità
imposte dal sistema di accoglienza. In alcuni casi, i centri di ricezione del
sistema asilo si sono trasformati in centri di reclutamento di manodopera a
basso costo, soprattutto in produzioni stagionali come l’agricoltura e il
turismo. Infine, il riconoscimento della protezione umanitaria è stato in larga
parte rimesso ai Tribunali di merito, anche in conseguenza dell’approccio
restrittivo delle Commissioni Territoriali, organi, questi ultimi, che
dipendono dal Ministero dell’Interno e dunque vincolati alle direttive
governative. La delega ai giudici di una questione che interseca gestione delle
migrazioni, mercato del lavoro e processi riproduttivi ha determinato una
giurisdizionalizzazione di fatto dell’antagonismo sociale, nel senso della sua
riconduzione all’interno di un sistema che per definizione istituzionalizza e
proceduralizza il conflitto.
Uno sguardo
di contesto sull’abrogazione della protezione speciale consente dunque di
mettere a fuoco come sia stata uno strumento di gestione della conflittualità
sociale: utilizzata come risposta parziale alle istanze di chi arrivava o era
già presente sul territorio, la governance umanitaria delle
migrazioni ha raggiunto altresì lo scopo di prevenire e limitare le forme di
autorganizzazione dei migranti che, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila,
si erano mobilitati soprattutto per ottenere il permesso di soggiorno. Non è
forse un caso che la violenza materiale e simbolica che il governo ha esibito
in risposta alla strage di Cutro abbia innescato nuove risposte di piazza. Al
presidio organizzato dalle associazioni e dalla società civile il 18 aprile
scorso, in corrispondenza della discussione del decreto Cutro al Senato, i
movimenti dei migranti hanno fatto seguire una chiamata per una manifestazione
nazionale che si terrà il 28 aprile a
piazza dell’Esquilino a Roma. Quello che sembra riaprirsi è dunque un nuovo
spazio di conflittualità e mobilitazione sociale.
*Carlo
Caprioglio è assegnista di ricerca e docente a contratto di Clinica legale
all’Università Roma Tre.
* Tatiana
Montella avvocata, femminista, si occupa di diritto penale, di diritto
dell’immigrazione e di violenza di genere e ha fatto parte del team di avvocate
del processo ai sei giovani eritrei.
* Enrica
Rigo insegna Filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, dove ha fondato
la Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza, ed è autrice
di La straniera. Migrazioni, asilo e sfruttamento in una prospettiva
di genere (Carocci, 2022).
Nessuna persona è illegale. No al decreto Cutro
Domenica 7 maggio 2023 alle 15,30 - Piazza Oberdan, Milano
Le migrazioni non sono un’emergenza, ma un fenomeno sociale che riguarda da
sempre la storia dell’umanità. Quello che cambia, spesso in peggio, sono le
condizioni e le cause per cui le persone si spostano e l’accoglienza che
ricevono nei luoghi che attraversano e in cui arrivano.
A partire dagli anni ’70 l’Italia si è trasformata in un paese di
immigrazione e non solo di emigrazione, in cui la popolazione anziana è in
progressivo aumento, mentre molti giovani continuano a lasciare il Paese in cerca
di opportunità migliori. Altri giovani, invece, si muovono verso l’Europa anche
a causa di crisi geopolitiche e di crisi climatiche, oltre che dell’assenza di
politiche di pace e di adeguati investimenti nella cooperazione allo sviluppo.
Di fronte a tali sfide, negli ultimi decenni l’Italia e l’Europa hanno
scelto di usare i confini come uno strumento di esclusione, producendo
discriminazioni e disuguaglianza attraverso muri, hot spot, fili spinati,
applicazione selettiva delle direttive, accordi secretati con Stati
antidemocratici, codici capestro per le ONG a cui viene impedito di fatto di
contribuire al soccorso dei naufraghi in mare.
Anche la nostra Milano produce confini, come è accaduto fino al mese scorso
in Via Cagni con le ricorrenti violenze ai danni di persone richiedenti asilo;
con il problema tuttora presente delle lunghissime attese per fare domanda
d’asilo, anche a causa della difficoltà di accesso al sistema di prenotazione;
con l’assenza di un intervento decisivo rispetto all’attesa lunga tre anni per
l’emersione di lavoratori e lavoratrici immigrate; con la carenza di centri di
accoglienza dignitosi per le persone in transito; o l’espressa volontà di non
chiudere il Centro di Permanenza per il Rimpatrio di via Corelli, nonostante
continue violazioni e abusi e l’oggettiva incompatibilità stessa dell’istituto
della detenzione amministrativa con il rispetto dei diritti umani e della
dignità della persona.
Assistiamo oggi a proposte sempre più regressive, nel nome del mito della
“razza” e della nazione, proposte che minacciano la coesione sociale in città
già meticce e sui territori, tolgono diritti invece che estenderli e al
contrario di quanto dichiarano, togliendo tutele e possibilità di ottenere
documenti regolari, alimentano l’insicurezza per tutt*.
Il decreto Cutro, orribilmente denominato proprio con il toponimo del luogo
della recente strage nel Mediterraneo, si propone di rinforzare i confini
interni, di moltiplicare i CPR invece di chiuderli definitivamente, di
legittimare le violazioni dei diritti. Oggi per le persone senza la
cittadinanza, domani per tutt*. Per questo saremo in piazza per dire Non in
nostro nome, nessuna persona è illegale.
ASSEMBLEA BASTA MORTI IN MARE E AI CONFINI
Prime adesioni:
Acli Milano, Naga, I Sentinelli, Comunità di Sant’Egidio, Rete Scuole Senza
Permesso, Asgi Milano, Centro Fil. Buonarroti/Scuola binari, Cambio passo, CGIL
Milano, Comunità Nuova, Emergency Volontari Milano, La Comune, Mai più lager/No
CPR, Mediterranea Saving Humans Milano, Milano Prossima, RESQ People, Cub
Milano, Rifondazione Comunista, Volt, Diem, Sinistra Italiana, Giovani
Democratici, Amnesty International, Fondazione Arché, Amnesty International,
Avvocati per niente, 6000 Sardine, Casa della Carità, Laboratorio Giambellino –
Lorenteggio, Milano in Comune, Mamme a scuola ETS, Cooperativa Lotta Sontro
l’emarginazione, Osservatorio democratico sulle nuove destre.
Con il supporto di Radio Popolare.
Per adesioni scrivere a bastamortiaiconfini@gmail.com
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