Il Sudafrica uscì definitivamente dall’apartheid organico e legale nel 1991, decenni di discriminazione razziale istituzionale di sapiens di incarnato più chiaro verso altri di incarnato più scuro, dopo secoli di schiavitù e poi almeno un secolo di apartheid sperimentale o di fatto dei colonizzatori provenienti da vari Stati europei, soprattutto gli attuali Paesi Bassi e Regno Unito. I rappresentanti di tutti i cittadini del nuovo Stato costituzionale democratico concordarono unitariamente nel 1995 di istituire una Truth and Reconciliation Commission (Commissione per la verità e la riconciliazione) con l’obiettivo di avere un’effettiva transizione congiunta (senza segreti e senza amnistie generiche), di far testimoniare sia le vittime che gli autori dei crimini contro i diritti umani commessi durante il regime segregazionista, di ricostruire quanto più precisamente possibile i fatti avvenuti, di richiedere e concedere (quando possibile) il perdono in modo pubblico e trasparente per tali azioni violente di origine ideologico-politica, esclusi dunque i reati comuni e le attività della criminalità organizzata.
Sarebbe da tempo necessario che i paesi che hanno avuto (e talora hanno
ancora) colonie nel mondo concordassero con tutti gli altri
paesi l’istituzione di una simile commissione presso l’Onu. Ciò
forse aiuterebbe ad aprire molti occhi e cuori in Europa e in Occidente,
consentirebbe di rimuovere almeno alcuni dei misfatti e crimini di
discriminazione razziale ancora in corso qua e là per il pianeta, costituirebbe
un patrimonio conoscitivo potenzialmente comune agli oltre otto miliardi di
attuali conviventi umani, toglierebbe senso o vigore alla cosiddetta cancel
culture nei gruppi sociali che hanno subito schiavitù e oppressioni
nei paesi colonizzati. Terribile ed esemplare, in tal senso, la triste
persistente vicenda delle Chagos nell’Oceano Indiano, di cui
si sta ancora dibattendo nelle Corti di giustizia internazionale. La storia
moderna è tutta coloniale: l’abitato arcipelago fu raggiunto dai portoghesi
all’inizio del Cinquecento e poi, per la gran parte dei secoli successivi, fu
controllato da Mauritius, che a sua volta era una colonia francese. Col trattato
di Parigi del 1814, la Francia cedette Mauritius e le sue dipendenze (comprese
le isole Chagos) al Regno Unito.
Si tratta di una sessantina di atolli corallini e piccole isole, almeno tre
anticamente abitate dai sapiens. Siamo nel bacino oceanico
Indiano, a est dell’Africa, a ovest del Pacifico, a sud delle Maldive, più
o meno alla stessa lunga distanza sia da India e Sri Lanka (a nord) che da
Madagascar e Mauritius (a sud-ovest). Esiste lì uno splendido minuscolo
arcipelago di fertili terre insulari, ampie in tutto soltanto 56 km²
(all’incirca come l’Asinara), da millenni antropizzato e da secoli considerato
“annesso” alle Mauritius, pure da due secoli come una colonia inglese, pur
trovandosi comunque a circa 2 mila chilometri (ovvero più che da Napoli sul
mediterraneo Tirreno fino ad Amburgo sull’atlantico mar del Nord, non via terra
poi, ma via mare) da quell’altro grande arcipelago di oltre 2000 km². Mauritius
è oggi una pacifica repubblica africana indipendente, Chagos fa ancora
parte del Regno Unito. Più che saggi o cronache, per capire leggete se vi
capita lo splendido recente romanzo di Caroline Laurent, Le rive
della collera, traduzione dal francese di Giuseppe Giovanni
Allegri, Edizioni e/o Roma, 2023 (orig. 2020), pag. 347
euro 20.
Ai fatti l’autrice aggiunge qualche fiction letteraria, inventa alcuni
personaggi e intrecci, iniziando a narrare dai primi mesi del 1967.
Nell’arcipelago delle Chagos, con poche altre migliaia di sapiens perlopiù
analfabeti, vive la carina 21enne Marie-Pierre Ladouceur, proprio a Diego
Garcia, l’agglomerato più grande. Lei ama girare arruffata a piedi nudi,
pelle nera dai riflessi dorati, ha una figlia Suzanne di quattro anni, risiede
nel villaggio con la madre, la sorella Josette 25enne in procinto di sposarsi
con Christian accanto ai loro figli, altri parenti e concittadini chagossiani
(o îlois, come si auto-definiscono). A marzo fa scalo lì da
Port-Louis (Mauritius) la Sir Jules (cinque giorni di
traversata), ognuna di quelle rare volte con l’approdo un intero regno si riversa
sulle loro spiagge, cibi oggetti e altri sogni.
In quell’occasione scende dalla nave anche un bel 18enne mauriziano,
longilineo ed elegante, duro e raffinato, colto e inesperto, Gabriel Neymorin.
Uno sguardo ricambiato (ma non sincronico) con Marie e via. Lui vorrebbe
fuggire in Inghilterra ma intanto lo hanno mandato lì ad aiutare
l’amministratore coloniale dell’isola, è imberbe (anche nelle relazioni
affettivo-sessuali, legato alla sorella 14enne rimasta col padre). Ben presto
nascerà un grande fertile complicato amore fra Gabriel e Marie,
proprio quando, con le elezioni e poi il referendum, sta maturando
l’indipendenza di Mauritius e sta per compiersi la crudele scelta inglese di
affittare le Chagos agli americani per una base navale militare (decenni
dopo vi decolleranno pure i famosi B52 per bombardare Afghanistan e Iraq).
Caroline Laurent (1 gennaio 1988) è un’accorta editrice francese, una
stimolante professoressa associata di Letteratura moderna alla Sorbona e una
bravissima scrittrice. La mamma e una relativa parte della famiglia sono di
origini mauriziane, “culla e rifugio fondanti”, fra gli ultimi ad aver visitato
liberamente le Chagos (dove trascorsero pure uno straordinario Natale). Così,
la vicenda del suo secondo mirabile pluripremiato romanzo le fu raccontata
proprio dalla madre, “una tragedia insulare”. Il fatto che gli inglesi
abbiano martoriato l’arcipelago (deportando gli abitanti e dicendolo
disabitato) “venduendo” in questo modo della povera gente, inoltre, è terribile
storia, Laurent l’ha ricostruita con ricerche e testimonianze.
La narrazione alterna la voce in prima persona del figlio
Joséphin di Marie (e Gabriel), brevi inserti sul suo volo verso Parigi e sul
suo arrivo all’Aja per alcune udienze della Corte internazionale di giustizia
del 2019 (l’autrice fu associata alla delegazione chagossiana),
all’appassionato sguardo in terza persona sui due protagonisti
del contrastato amore, Marie e Gabriel, dettagliatamente e liricamente
descritti nei loro contesti geograficamente naturali (compreso un ciclone),
storicamente culturali (emergono pure nel bel glossario finale),
relazionalmente emotivi (simili a tutti noi), con capitoli datati fra il marzo
1967 e l’agosto 1975. Toccanti l’immagine di copertina e il titolo. La motivata
collera li riguarda tutti: risanare, tornare.
Le rive della collera ci riguardano, il romanzo è da leggere e meditare,
approfondendo l’insieme dell’opera triste e vitale dell’autrice: “il meticciato
è sempre troppo oppure troppo poco. Non c’è equilibrio. Non c’è ricetta, né
dosaggio. Qualunque cosa tu faccia, ti considerano per quello che non sei”.
Segnalo ovviamente che: non sempre le prigioni sono armate di
sbarre; nel 1967 le cinque celle della prigione di Diego Garcia erano vuote;
sulle Chagos furono per secoli deportati prigionieri, schiavi dal
Madagascar (una tratta qui descritta per esempio) e forse terroristi dopo l’11 settembre 2001.
La musica del romanzo è il mare; si beve di tutto, importato, rum e birra, vino
rosso e whisky.
Rive della collera esistono in tutti i paesi colonizzati, appartengano a
oceani, mari, fiumi, laghi dove vivevano sapiens di vario
incarnato da molto prima che arrivassimo noi di incarnato più chiaro, con armi,
acciaio e malattie. Alle Chagos la ferita è ancora aperta,
sanguinante, sovrasta la stessa collera. Periodicamente, in questi anni e mesi
la questione è tornata alla ribalta degli organismi internazionali e degli
organi di informazione. Come raccontato da Laurent, la disputa territoriale va
avanti da decenni, l’arcipelago è riconosciuto come proprio territorio ed è
rivendicato dalla Repubblica di Mauritius, che ha ora chiesto più volte che ci
si adegui al parere della Corte internazionale di giustizia dell’Aia del 2019 e
al successivo voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
A febbraio 2022 vi è stata la spedizione simbolica di una delegazione di ex
residenti su uno degli atolli delle Chagos, discendenti di quei circa duemila
abitanti autoctoni, deportati nel 1972 a Mauritius o alle Seychelles per
permettere la costruzione della base militare “Diego Garcia”. Anche dopo
l’indipendenza di Mauritius e l’affitto delle Chagos, il Regno Unito non ha
smesso mai di esercitare il proprio controllo (pur con opinioni diverse nei
parlamenti inglese e scozzese e lavorando gli scienziati a una riserva marina
come qui accennato:). Mauritius continuò, invece, a
considerarlo come un territorio di propria competenza per ragioni storiche e
culturali (non mancando peraltro problemi ambientali).
Nel febbraio 2019 la Corte internazionale di giustizia respinse
all’Aja la richiesta di sovranità del Regno Unito sull’arcipelago, pochi
mesi dopo anche l’Assemblea Generale dell’ONU diede ragione ai chagossiani e a
Mauritius, sostenendo che il territorio fosse stato separato “illegalmente”.
Sebbene con una mozione non vincolante, l’Onu diede al Regno Unito sei mesi di
tempo per restituire le isole a Mauritius: condizione che non è
stata finora mai rispettata. Il governo di Mauritius ha anche chiesto nel
gennaio 2020 di modificare la dicitura che indica l’arcipelago su Google
Mapse lo descrive come Territorio Britannico dell’Oceano Indiano (in
inglese British Indian Ocean Territory, o BIOT) “a metà strada tra
l’Africa e l’Indonesia”. Ho visitato il sito i primi giorni di maggio
2023 e la dizione è ancora quella, sbagliata secondo l’Onu.
In questi giorni della primavera 2023 sta uscendo anche la traduzione
italiana del libro dell’avvocato britannico (e professore di diritto a Londra) Philippe
Sands The Last Colony: A Tale of Exile, Justice and Britain's Colonial
Legacy (“L’ultima colonia”, Guanda Milano, pag. 285 euro 19, traduzione di
Elisa Banfi, orig. 2022), dedicato proprio alle Chagos, alle atrocità del
colonialismo e all’ipocrisia dei Paesi occidentali. Sands fece testimoniare
all’Aja una chagossiana deportata dagli inglesi per consentire l’affitto
dell’isola dove viveva. Davanti alla Corte Madame Liseby Elysé,
analfabeta, parlò nel 2019 solo per tre minuti e quarantasette secondi. La sua
dichiarazione testimoniale, il coraggio, la dignità e l’integrità mostrati,
furono un elemento chiave del processo.
Quando sono stati deportati gli chagossiani erano circa duemila. Oggi si
stima che la loro comunità conti quattromila persone (compresi nuovi “meticci”,
poiché ci sono stati matrimoni con mauriziani, seicellesi e a volte inglesi),
divise tra Mauritius, Seychelles e Londra. Le nuove generazioni non combattono
più per la terra, hanno un altro passaporto e hanno visto i loro genitori
esaurirsi nella giusta rivendicazione. Fra l’altro, sanno bene che il loro
arcipelago si trova in cima a una gigantesca depressione concava nell’oceano,
profonda quasi cento metri. Con il mare al suo livello potenziale, se non fosse
per l’enorme anomalia gravitazionale che mantiene aperta quella “scodella”, le
isole Chagos sarebbero tutte in fondo al bacino oceanico. Ciò non toglie che
loro vi abitavano, è terra loro e a loro è stata rubata. E il 30 aprile 2023 nella Polinesia
Francese ha vinto per la prima volta le elezioni territoriali il
partito indipendentista, di sinistra e antinucleare, con il 44,29% dei voti si
sono aggiudicati 38 dei 57 seggi (ne avevano 8) battendo due formazioni
autonomiste di centro-destra (la maggiore legata a Macron), con la prospettiva
di un prossimo referendum sull’indipendenza.
La decolonizzazione nel pensiero e nella pratica non è stata completata. Il
colonialismo è una pagina nera della nostra storia europea e, nel caso delle
Chagos, del presente del nuovo re del Regno Unito. La verità storica e la
riconciliazione sociale servono ai nostri diritti, per quanto sia poi ardua e
conflittuale la coesistenza pacifica. Lo è anche nel nuovo Sudafrica
democratico, è noto. Ero in Sudafrica da parlamentare militante anti-apartheid
quando fu ucciso il leader del Partito Comunista Sudafricano Chris Hani (28
giugno 1942 - 10 aprile 1993) e il Presidente De Klerk chiamò Nelson Mandela a
parlare in televisione in prima serata per evitare i disordini e forse la
guerra civile. Ero in Sudafrica da osservatore elettorale Onu quando milioni
di sapiens neri si mettevano in fila alle 5 del mattino (per
alcuni di loro fu anche considerato il primo censimento anagrafico) in vista
del primo voto free and fair ed elessero Mandela Presidente. Ero in Sudafrica la primavera successiva
(il loro autunno) quando il Parlamento discuteva della commissione. Vi sono
tornato ancora e seguo con rispetto e trepidazione il travaglio democratico, il
confronto e le leggi, i tentativi e gli errori, le risse e la corruzione, le
persistenti povertà e previlegi, tanti altri fenomeni economici e sociali non sconosciuti dalle nostre parti. Verità e riconciliazione su
schiavitù e apartheid sono premesse indispensabili che noi europei dobbiamo
all’umanità intera, non soluzioni a tutto.
Quella specie sudafricana di tribunale non penale venne presieduto da Desmond
Tutu (andai al incontrarlo presso la residenza-vescovado dietro Table
Mountain), si articolò in tre comitati specifici (violazioni, riparazioni,
amnistia) ed ebbe una vasta eco nazionale e internazionale, morale e culturale:
molte udienze furono trasmesse in televisore, oppressi e oppressori poterono
ascoltare e riconoscere i misfatti subiti e praticati, vi sono stati girati
sopra vari film, tanti sudafricani conobbero per la prima volta quel che era
accaduto davvero per decenni nel loro paese a proprio nome. I risultati della
commissione furono pubblicati tre anni dopo, il 28 ottobre 1998. Le
testimonianze e le indagini portarono alla luce i crimini commessi dal governo
dell'apartheid, dalla polizia e dall'esercito, ma anche dall'ANC e da altre
organizzazioni paramilitari che si opponevano al governo. L'amnistia
individuale fu concessa nei casi in cui gli abusi perpetrati si potevano
considerare "politicamente motivati" e "proporzionati" ed
erano stati confessati pienamente dai colpevoli. L'amnistia fu
concessa a 849 persone e negata a 5392, su un totale di 7.112 richieste totali
(ci furono diverse categorie aggiuntive, quali le "richieste
ritirate"). La commissione aveva pecche e limiti, non ha certo risolto
l’insieme dei problemi sociali e civili, ha solo garantito un po’ più di verità
e una parziale riconciliazione, ovvero quel che ancora manca istituzionalmente
a molti nostri misfatti coloniali.
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