In queste settimane, a Roma e Milano gli studenti fuorisede stanno dormendo in tende montate al di fuori degli edifici universitari. Protestano contro i prezzi impossibili dell’affitto anche di una sola stanza, affermando insieme il diritto all’abitare e alla città e quello allo studio. Le proteste degli studenti, in ogni angolo del mondo, hanno spesso innescato cambiamenti profondi e importanti, talvolta epocali. Non fu certo per caso che uno dei provvedimenti più significativi presi da Israele all’inizio della prima Intifada (1987) fu la chiusura delle università palestinesi. E non è, allo stesso modo, per caso che negli ultimi tre anni e mezzo le forze di occupazione abbiano arrestato oltre 200 studenti palestinesi. Ogni attività da parte delle organizzazioni studentesche, spiega tra le molte altre cose questo articolo di Pasquale Liguori, deve avere l’autorizzazione del governo militare occupante. Seguendo un disegno politico strategico, un ginepraio di norme e ostacoli burocratici è stato meticolosamente predisposto per trasformare l’educazione universitaria da processo di crescita, emancipazione e autodeterminazione a mero strumento di controllo, subordinazione e alienazione. Senza contare che, in un regime di apartheid come quello israeliano, l’espressione della sola opinione favorevole a certa iniziative politiche ritenuta ostili dalla potenza occupante è oggetto di feroce repressione per terrorismo. Comincia così il calvario degli studenti arrestati, che vengono classificati dall’Israel Prison Service e spogliati di ogni diritto politico e civile. La loro detenzione è fatta di isolamento, molto spesso con il divieto di visite da parte di parenti e coniugi, mentre viene loro proibita la consultazione di testi di storia, filosofia e politica. L’educazione e la cultura, si sa, minacciano la sicurezza
Di solito, li arrestano nottetempo. Come nel caso di Jihad Ahmed, strappato
al sonno e ai suoi affetti dalla furia devastante dei soldati israeliani
piombatigli in casa a Nablus per sbatterlo in galera con l’accusa di
affiliazione a gruppo terrorista. O anche in pieno giorno. Magari dopo
un’umiliante perquisizione al checkpoint in uscita dal villaggio per recarsi in
ateneo con la tipica ansia che precede un esame destinata a spegnersi nel buio
inopinato di una prigione. È accaduto a Shatwa Al-Taweel arrestata, malmenata,
derisa dalle sue aguzzine in divisa e costretta al panopticon di
una lugubre cella con latrina a vista.
Sono oltre 200 gli studenti universitari palestinesi tratti in arresto
negli ultimi tre anni e mezzo da parte delle forze di occupazione israeliane. A
denunciarlo è una recente indagine condotta dai giuristi di Law for Palestine. Gli autori della
ricerca si sono concentrati sugli arresti di studenti negli atenei in
Cisgiordania e, all’interno della Green Line, in territorio
israeliano.
Nei Territori Occupati i principali movimenti politici palestinesi sono
collegati a rispettive rappresentanze studentesche che operano
nell’organizzazione di eventi culturali, corsi e seminari di vario genere,
nonché di attività sindacali anche a supporto degli studenti economicamente più
bisognosi. In definitiva, si tratta di aggregazioni a difesa dei diritti sociali
e dello studio dei giovani palestinesi. Ebbene, qualsiasi attività da parte di
tali organizzazioni studentesche è consentita previa autorizzazione del governo
militare occupante.
Dal 1967, Israele ha formulato centinaia di ordinanze volte a reprimere
qualsiasi iniziativa a tutela dell’identità culturale e nazionale palestinese.
Ovviamente, la formazione universitaria non poteva esser trascurata da simile,
criminoso proposito. Un ginepraio di norme e ostacoli burocratici è stato
pertanto meticolosamente predisposto trasformando l’educazione universitaria da
quel processo di crescita, emancipazione e autodeterminazione che dovrebbe
essere a mero strumento di controllo, subordinazione e alienazione.
Sin dalle primissime ordinanze emesse, consolidatesi nel tempo in senso
sempre più restrittivo e repressivo, l’accesso allo studio e la carriera
universitaria sono divenuti oggetto di preventiva autorizzazione del governo
militare. Oltretutto, ogni università palestinese è tenuta a rinnovare in base
a obbligate scadenze la licenza abilitante all’istituzione di corsi di laurea.
In altre parole, tutto il processo educativo e formativo universitario è a
discrezione della gestione militare con conseguente difficoltà di iscrizione
alle varie facoltà laddove regola è divenuta invece una barriera d’accesso agli
studi stessi.
In tale contesto, l’attivismo studentesco risulta pesantemente
inibito: la pubblicazione di notiziari, documenti, risorse grafiche, atti a
contenuto politico, finanche il pubblico sventolio di bandiere nazionali sono
proibiti senza autorizzazioni avaramente concesse dal comando militare.
Sono molto comuni gli arresti per possesso di opere letterarie ritenute
illegali e pesante è l’interferenza sull’uso studentesco dei più diffusi
social: la pubblicazione di parole di simpatia o sostegno a organizzazioni
politiche ritenute ostili a Israele può costare fino a dieci anni di
reclusione.
La convocazione spontanea di assemblee o raduni universitari a sfondo
politico è considerata illecita e i mandati di arresto a carico degli studenti
palestinesi vanno a costituire un frequente evento complementare al piano di
studi prescelto.
Contravvenendo a quanto disposto dalle norme di diritto internazionale a
tutela dei diritti civili e politici e dalla Quarta Convenzione di Ginevra, le
misure coercitive adottate dal comando occupante non sono quasi mai divulgate
adeguatamente e perlopiù redatte in lingua ebraica, sfuggono alla comprensione
della maggioranza degli studenti. Allo studente raggiunto da un provvedimento
detentivo viene molto spesso negato l’accesso a un avvocato difensore, sicché
non è raro che il capo d’accusa sia poi notificato al malcapitato direttamente
in fase di giudizio dal tribunale militare incaricato della sentenza.
Oltretutto, il diritto internazionale sancisce che i processi si tengano
nel territorio del Paese occupato: nella maggior parte dei casi invece gli
studenti palestinesi sono processati da tribunali militari in territorio
israeliano. Quasi sempre, la pena detentiva irrogata sarà poi scontata in
prigioni situate in territorio israeliano anche qui in spregio di basilari
normative internazionali.
L’insieme di queste trame manipolative, ostruttive, sanzionatorie sono
frutto di una violenta politica a lungo termine finalizzata alla paralisi
sistematica di ogni iniziativa collettiva e a impedire alla gioventù
palestinese di acquisire e consolidare quella responsabilità sociale,
collettiva e resiliente di cui tanto necessita il popolo del loro Paese
colonizzato.
Già nel 1985, con l’accusa di contiguità a organizzazioni politiche
terroriste invise al regime israeliano, circa metà delle detenzioni hanno
riguardato studenti. Vaste operazioni con arresti di massa a loro carico sono
state pianificate ed eseguite all’epoca della prima Intifada e,
successivamente, nel 2006 in occasione delle elezioni palestinesi. Con tali
iniziative la potenza occupante avrebbe a suo dire scongiurato l’accesso
all’università di “pericolosi piantagrane in erba” palestinesi.
L’intensificazione di campagne detentive segue dunque un disegno politico
generale non ascrivibile ad atti punitivi riguardanti singoli e casuali reati.
Mentre nei campus di tutto il mondo un genuino attivismo studentesco è in
genere accettato e rispettato, ai giovani Palestinesi viene del tutto precluso.
Presi di mira dalla pressione militare, a essi viene iniettato un sentimento di
vita assediata, di scarsa o nulla libertà, di un futuro isolato, privato di
senso comune e collettiva condivisione.
Gli studenti arrestati vengono classificati dall’Israel Prison Service quali
prigionieri “per motivi di sicurezza”, formalmente spogliandoli di ogni diritto
politico e civile. In tale fattispecie, a differenza di chi commette comuni
reati, si applicano speciali restrizioni. Tocca loro una detenzione fatta di
isolamento, divieto di visite di parenti e coniugi, di telefonate e preclusione
di eventuali concessioni di libertà anticipata. È a loro proibita la
consultazione di testi di storia, filosofia, politica con particolare e
specifico divieto di lettura dell’opera di Antonio Gramsci.
Ricattati dal peso di una durissima detenzione e dalla rinuncia a un futuro
di studi e crescita personale, i giovani studenti palestinesi sono spesso
indotti a patteggiare la pena ammettendo colpe per reati non commessi,
collocati quindi fuori gioco da un possibile percorso di leadership politica e
sociale. Il tribunale, dunque, capolinea della resistenza.
La Corte Suprema israeliana ha stabilito che attività civili e iniziative
di resistenza militare intraprese dalle formazioni politiche palestinesi si
alimentano a vicenda e, come tali, non sono tra esse distinguibili. In questo
contesto, la sola opinione favorevole a una data iniziativa politica ritenuta
ostile dalla potenza occupante è oggetto di feroce repressione per terrorismo.
Eppure, mancando evidenza di atti puramente criminosi, la Convenzione di
Ginevra è chiara nel proibire l’arresto di studenti in quanto civili. Quella
della Corte Suprema israeliana è perciò una determina apertamente criticata da
organizzazioni in difesa dei diritti umanitari come Amnesty International
poiché mina il “principio di distinzione” per cui semplici simpatizzanti, ad esempio,
di Hamas, non coinvolti nell’esecuzione di atti di chiara ostilità vadano
considerati alla stregua di semplici civili, come tali non passibili di
repressione legale e militare.
Sono dunque palesi le violazioni israeliane di quanto espresso in Codici,
Patti e Convenzioni internazionali e, con esse, il formidabile ostacolo opposto
al diritto all’istruzione dei giovani palestinesi e alla loro libertà di
associazione ed espressione. Un quadro che, unito al divieto di professare un
determinato credo politico e al violato rispetto degli standard minimi delle
norme penitenziarie e alla perpetrazione di torture configurano un quadro di
chiari crimini contro l’umanità.
Con il pretesto della sicurezza dello Stato israeliano, le migliaia di
ordinanze costituiscono nient’altro che uno strumento di apartheid e
sottomissione a un regime di insediamento coloniale che mira a utilizzare la
misura detentiva su larga scala anche contro gli studenti palestinesi per
smantellarne la coscienza collettiva e cancellare ogni loro velleità di
identità nazionale e politica.
Nel documento già citato, gli esperti di Law for Palestine hanno
raccolto evidenza di tutto ciò sottomettendolo all’attenzione della Commissione
ONU incaricata di inchiesta sulla Palestina Occupata e alla giurista Francesca
Albanese, Relatrice Speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei
Territori Palestinesi Occupati, anch’essa non casualmente al
centro di una strumentale campagna di aggressione che l’accusa del tutto
ingiustificatamente di aver adottato metodi e linguaggio antisemiti.
Nel rapporto di Law for Palestine viene fatta esplicita
richiesta allo Stato di Israele di fermare la detenzione arbitraria di studenti
universitari palestinesi, di abolire regolamenti militari che considerino
illegali i movimenti studenteschi e i simboli di identità palestinesi e di
trattare tutti i sottoposti a detenzione secondo criteri umanitari e a garanzia
dei diritti civili.
È ovvio che senza la decisa condanna della comunità internazionale di
simili pratiche attuate dal regime di occupazione e apartheid israeliano,
analisi e rapporti di denuncia rischiano la rarefazione nel collaudato
dimenticatoio della complicità, quest’ultima potente sostegno a politiche
discriminatorie e antagoniste dell’autodeterminazione palestinese.
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