giovedì 4 maggio 2023

Racconti dalla prigione - Imran Hakeem

 

Imran Hakeem, attivista baloch rifugiato in Olanda, racconta una storia come tante, la sua

 

Il Belucistan (in inglese Baluchistan o Balochistan) è una regione dell’Asia occidentale a cavallo tra gli stati del Pakistan, Iran e Afghanistan. Solo in Pakistan, la popolazione di lingua baloch comprende oltre 12 milioni di persone, che abitano la più vasta – e la più povera, nonostante le grandi risorse naturali – provincia del paese. Una storia analoga a quella curda: dal 27 marzo 1948, tradite le promesse di indipendenza della potenza coloniale britannica, la popolazione e le terre del Belucistan sono occupate dall’esercito pakistano.

Da 75 anni si perpetua un vero e proprio genocidio ad opera dello stato pakistano, che solo negli ultimi 10 anni ha fatto sparire nel nulla (le cosiddette enforced disappearances) circa 50 mila persone: attivisti per la liberazione del Belucistan, familiari e amici. Genocidio che valica i confini ed arriva anche nei paesi occidentali, attraverso i sofisticati servizi segreti del Pakistan. Come nel caso di Karima Baloch, attivista trovata morta a Toronto nel 2020, in Canada, dove aveva ottenuto la protezione internazionale. O di Sajid Hussain, giornalista e professore in Svezia, sparito e poi trovato morto lungo un fiume vicino a Stoccolma. Nonostante ciò, nelle montagne e nelle città del Belucistan, così come nelle comunità in diaspora, continua una quotidiana resistenza – anche armata ed organizzata – contro l’occupazione militare pakistana, l’estrattivismo e le grandi opere, finanziate oggi dal governo cinese nell’ambito della Nuova Via della Seta.

Imran Hakeem, giovane attivista rifugiato in Olanda, ha scritto per Melting Pot questo breve racconto del suo rapimento da parte delle forze armate pakistane. Rompere il silenzio della comunità internazionale sulla questione del Belucistan e sui crimini dello Stato pakistano è necessario anche per garantire il riconoscimento delle richieste di protezione in Italia e in Europa da parte degli esuli.

La traduzione è curata da Giovanni Marenda.

Erano circa le 8 del 17 marzo 2017 e stavo dormendo nella mia stanza a Parom, nel distretto di Panjgoor. All’improvviso ho sentito qualcuno che urlava il mio nome per svegliarmi. Non appena ho aperto gli occhi, mia sorella maggiore mi urlava di svegliarmi e di scappare il prima possibile, perché i militari avevano assediato l’intero villaggio. Purtroppo, prima che potessi vestirmi e andarmene, i militari erano già entrati in casa nostra e avevano iniziato a trafugare tutto quello che trovavano.

Quando sono uscito dalla mia stanza, ho visto i militari minacciare i miei familiari e saccheggiare gli oggetti di casa più costosi. Si sono precipitati verso di me e mi hanno afferrato, trascinandomi con la forza fuori di casa. Fuori c’era un’auto con i vetri oscurati.

Ho visto che c’erano già diversi giovani del mio villaggio in fila bendati. Dopo poco tempo uno degli addetti ha indicato un ufficiale in uniforme che doveva interrogarmi.

Prima mi hanno perquisito, poi hanno chiesto il mio nome. Hanno iniziato a interrogarmi ponendomi una serie di domande irrilevanti, come la mia affiliazione a partiti politici Baloch o a gruppi separatisti e armati Baloch, i loro dettagli, dove si trovavano i loro campi e chi li sosteneva, la posizione e i nascondigli dei loro amici e simpatizzanti.

L’ufficiale ha poi affermato che dovevo essere a conoscenza del recente agguato teso dai separatisti al personale militare. La mia unica risposta è stata che non sapevo nulla. Ho tirato fuori dalla tasca la mia tessera di studente e ho detto che studiavo a Gwadar e che ero a casa per le vacanze. Da quel momento hanno iniziato a picchiarmi e a mettermi con la faccia contro il muro.

Dopo poco l’ufficiale ha parlato con i suoi colleghi, uno di loro si è avvicinato a me e mi ha bendato, prima di mettermi sul retro della loro auto e partire. Dopo 10-15 minuti di viaggio, le auto si sono fermate. Ho sentito dei rumori di persone che urlavano disperatamente. Ho pensato che si fossero fermati in un villaggio vicino, forse per un’altra ondata di rapimenti.

Dopo 15-20 minuti hanno lasciato il villaggio, per fermarsi poi nuovamente. Mi hanno scaricato dall’auto e mi hanno tolto la benda. Ho visto che c’erano altre quattro persone rapite con la forza insieme a me. Ci è stato ordinato di sederci a terra di fronte ad un muro. Ci hanno perquisito le tasche ancora una volta. Ci hanno preso i portafogli e altre cose, hanno scritto i nostri nomi e la lista degli oggetti rubati.

Dopo poco tempo ci hanno bendato di nuovo e ci hanno caricato sulle auto, ma questa volta in macchine diverse. Hanno guidato per circa due ore prima di fermarsi. Ho sentito le voci borbottanti dei militari che parlavano tra loro. “Qui siamo a Pullabad Bazar, c’è già stata un’operazione militare, ma nessuno è stato rapito“. Poi hanno lasciato anche Pullabad Bazar.

I veicoli hanno proceduto per quasi mezz’ora e sono entrati in un complesso dove sentivo persone urlare e parlare tra loro in urdu. Mi hanno fatto scendere e qualcuno mi ha tenuto per mano; dopo aver fatto qualche passo su per le scale, ho sentito una porta che si apriva e sono stato buttato in una stanza insieme ad un paio di altre persone. Ci è stato detto di stare in silenzio, siamo rimasti bendati.

Dopo circa mezz’ora, alcune persone sono entrate nella nostra stanza. Tra loro c’era un uomo locale che parlava balochi. Ci indicava toccandoci le spalle, accusandoci di essere terroristi, sostenendo che i nostri amici e familiari fossero coinvolti in attacchi terroristici contro il personale militare e i loro campi. Ci ha accusato di molte altre cose, poi se ne sono andati.

Per tutto il giorno non ci è stato dato cibo. Più tardi, qualcuno è venuto nella nostra cella, ci ha tolto le bende e ci ha portato in un bagno. Ci ha detto che avremmo avuto solo cinque minuti per usare il bagno. Dopo cinque minuti, siamo stati nuovamente bendati e portati nella nostra stanza. Ci hanno intimato di non parlare tra di noi. Se avessimo parlato, saremmo stati puniti. Poco dopo ci hanno portato delle coperte vecchie e sporche.

Il secondo giorno ci hanno dato una bottiglietta d’acqua, cinque piccole fette di pane e alcune verdure.

Era la notte del secondo giorno quando ci hanno portato in un’altra stanza per l’interrogatorio. Qui hanno iniziato a farci una serie di domande: dove si trovano i nostri campi, chi sostiene il nostro movimento, chi è responsabile di fornirci cibo e altre cose, da quanto tempo siamo associati a quale partito, se eravamo tra gli aggressori in quel particolare giorno in cui il loro personale è stato preso di mira e ucciso. Io, innocentemente e in preda ad un’immensa paura, ho risposto che ero solo uno studente. Dopo aver sentito questo, mi hanno torturato, appeso a testa in giù e picchiato per diverse ore.

Mi hanno riportato nella mia cella. Hanno continuato a fare la stessa routine di interrogatori e torture per quasi cinque giorni di seguito. Durante quei giorni mi hanno detto che se non avessi confessato quello che pensavano avessi fatto, sarei stato ucciso e il mio corpo sarebbe stato lasciato in pasto agli insetti.

Il sesto giorno, quando mi hanno appeso a testa in giù, ho iniziato a sanguinare dal naso. Ho perso i sensi e sono rimasto a terra per qualche ora. Poi mi hanno ributtato in cella. La cella era piccola, con circa due metri di lunghezza e un metro e mezzo di larghezza, dove avevano messo altri quattro rapiti, in modo che non potessimo allungare i piedi per trovare un po’ di conforto per i nostri corpi doloranti.

Dopo quella notte, quando sanguinavo, non mi hanno più prelevato per l’interrogatorio nei successivi due giorni. Il nono giorno, la sera, qualcuno è venuto da me e mi ha chiesto di alzarmi in una lingua straniera; mi sono alzato con gli occhi bendati, mi hanno portato in un’altra stanza. Mi hanno presentato un foglio e mi hanno chiesto di firmarlo, poi mi hanno chiesto di lavorare per loro. Mi hanno fatto alcuni nomi e mi hanno chiesto di ucciderli. Ho risposto che non avrei ucciso nessuno e che non ero un assassino.

Poi mi hanno detto che mi avrebbero rilasciato se li avessi informati dei movimenti dei combattenti per la libertà Baloch, ogni volta che li avessi visti nei pressi del nostro villaggio. Mi hanno minacciato dicendo che se non avessi accettato di farlo, non mi avrebbero rilasciato. Ero impotente e ho accettato la loro richiesta. Allora, mi hanno chiesto quali fossero i miei effetti personali al momento del rapimento. Ho risposto che c’erano un paio di auricolari, del denaro, un orologio da polso e la mia tessera studentesca. L’ufficiale ha chiesto ad un soldato di andare a prendere i miei effetti personali. Circa cinque minuti dopo, il soldato è tornato e ha detto che non riusciva a trovarli.

L’ufficiale ha detto che forse le mie cose si trovavano in un campo della mia città natale, Parom. Mi hanno bendato ancora una volta e mi hanno gettato in un veicolo, proprio come avevano fatto nove giorni prima quando ci avevano rapito. Mi hanno detto che mi avrebbero ucciso. Tuttavia, dopo un viaggio di circa 20 minuti, si sono fermati e mi hanno lasciato lì. Mi hanno detto di non togliere la benda per i successivi dieci minuti e se ne sono andati. Dopo molto tempo, per la paura, mi sono tolto la benda e ho capito che ero stato lasciato vicino a Panjgoor, a circa 80 chilometri da casa mia.

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