Imran Hakeem, attivista baloch rifugiato in Olanda, racconta una storia come tante, la sua
Il
Belucistan (in inglese Baluchistan o Balochistan) è una regione dell’Asia
occidentale a cavallo tra gli stati del Pakistan, Iran e Afghanistan. Solo in
Pakistan, la popolazione di lingua baloch comprende oltre 12 milioni di
persone, che abitano la più vasta – e la più povera, nonostante le grandi
risorse naturali – provincia del paese. Una storia analoga a quella curda: dal
27 marzo 1948, tradite le promesse di indipendenza della potenza coloniale
britannica, la popolazione e le terre del Belucistan sono occupate
dall’esercito pakistano.
Da 75 anni
si perpetua un vero e proprio genocidio ad opera dello stato pakistano, che solo negli ultimi 10 anni ha
fatto sparire
nel nulla (le cosiddette enforced disappearances) circa
50 mila persone: attivisti per la liberazione del Belucistan, familiari e
amici. Genocidio che valica i confini ed arriva anche nei paesi occidentali,
attraverso i sofisticati servizi segreti del Pakistan. Come nel caso di Karima Baloch,
attivista trovata morta a Toronto nel 2020, in Canada, dove aveva ottenuto la
protezione internazionale. O di Sajid Hussain,
giornalista e professore in Svezia, sparito e poi trovato morto lungo un fiume
vicino a Stoccolma. Nonostante ciò, nelle montagne e nelle città del
Belucistan, così come nelle comunità in diaspora, continua una quotidiana
resistenza – anche armata ed organizzata – contro l’occupazione militare
pakistana, l’estrattivismo e le grandi opere, finanziate oggi dal
governo cinese nell’ambito della Nuova Via della Seta.
Imran
Hakeem, giovane attivista rifugiato in Olanda, ha scritto per Melting Pot
questo breve racconto del suo rapimento da parte delle forze armate pakistane.
Rompere il silenzio della comunità internazionale sulla questione del
Belucistan e sui crimini dello Stato pakistano è necessario anche per garantire
il riconoscimento delle richieste di protezione in Italia e in Europa da parte
degli esuli.
La
traduzione è curata da Giovanni Marenda.
Erano circa
le 8 del 17 marzo 2017 e stavo dormendo nella mia stanza a Parom, nel distretto
di Panjgoor. All’improvviso ho sentito qualcuno che urlava il mio nome per
svegliarmi. Non appena ho aperto gli occhi, mia sorella maggiore mi urlava di
svegliarmi e di scappare il prima possibile, perché i militari avevano
assediato l’intero villaggio. Purtroppo, prima che potessi vestirmi e
andarmene, i militari erano già entrati in casa nostra e avevano iniziato a
trafugare tutto quello che trovavano.
Quando sono uscito
dalla mia stanza, ho visto i militari minacciare i miei familiari e
saccheggiare gli oggetti di casa più costosi. Si sono precipitati verso di me e
mi hanno afferrato, trascinandomi con la forza fuori di casa. Fuori c’era
un’auto con i vetri oscurati.
Ho visto che
c’erano già diversi giovani del mio villaggio in fila bendati. Dopo poco tempo
uno degli addetti ha indicato un ufficiale in uniforme che doveva interrogarmi.
Prima mi
hanno perquisito, poi hanno chiesto il mio nome. Hanno iniziato a interrogarmi
ponendomi una serie di domande irrilevanti, come la mia affiliazione a partiti
politici Baloch o a gruppi separatisti e armati Baloch, i loro dettagli, dove
si trovavano i loro campi e chi li sosteneva, la posizione e i nascondigli dei
loro amici e simpatizzanti.
L’ufficiale
ha poi affermato che dovevo essere a conoscenza del recente agguato teso dai
separatisti al personale militare. La mia unica risposta è stata che non sapevo
nulla. Ho tirato fuori dalla tasca la mia tessera di studente e ho detto che
studiavo a Gwadar e che ero a casa per le vacanze. Da quel momento hanno
iniziato a picchiarmi e a mettermi con la faccia contro il muro.
Dopo poco
l’ufficiale ha parlato con i suoi colleghi, uno di loro si è avvicinato a me e
mi ha bendato, prima di mettermi sul retro della loro auto e partire. Dopo
10-15 minuti di viaggio, le auto si sono fermate. Ho sentito dei rumori di
persone che urlavano disperatamente. Ho pensato che si fossero fermati in un
villaggio vicino, forse per un’altra ondata di rapimenti.
Dopo 15-20
minuti hanno lasciato il villaggio, per fermarsi poi nuovamente. Mi hanno
scaricato dall’auto e mi hanno tolto la benda. Ho visto che c’erano altre
quattro persone rapite con la forza insieme a me. Ci è stato ordinato di
sederci a terra di fronte ad un muro. Ci hanno perquisito le tasche ancora una
volta. Ci hanno preso i portafogli e altre cose, hanno scritto i nostri nomi e
la lista degli oggetti rubati.
Dopo poco
tempo ci hanno bendato di nuovo e ci hanno caricato sulle auto, ma questa volta
in macchine diverse. Hanno guidato per circa due ore prima di fermarsi. Ho
sentito le voci borbottanti dei militari che parlavano tra loro. “Qui siamo
a Pullabad Bazar, c’è già stata un’operazione militare, ma nessuno è stato
rapito“. Poi hanno lasciato anche Pullabad Bazar.
I veicoli
hanno proceduto per quasi mezz’ora e sono entrati in un complesso dove sentivo
persone urlare e parlare tra loro in urdu. Mi hanno fatto scendere e qualcuno
mi ha tenuto per mano; dopo aver fatto qualche passo su per le scale, ho
sentito una porta che si apriva e sono stato buttato in una stanza insieme ad
un paio di altre persone. Ci è stato detto di stare in silenzio, siamo rimasti
bendati.
Dopo circa
mezz’ora, alcune persone sono entrate nella nostra stanza. Tra loro c’era un
uomo locale che parlava balochi. Ci indicava toccandoci le spalle, accusandoci
di essere terroristi, sostenendo che i nostri amici e familiari fossero
coinvolti in attacchi terroristici contro il personale militare e i loro campi.
Ci ha accusato di molte altre cose, poi se ne sono andati.
Per tutto il
giorno non ci è stato dato cibo. Più tardi, qualcuno è venuto nella nostra
cella, ci ha tolto le bende e ci ha portato in un bagno. Ci ha detto che
avremmo avuto solo cinque minuti per usare il bagno. Dopo cinque minuti, siamo
stati nuovamente bendati e portati nella nostra stanza. Ci hanno intimato di
non parlare tra di noi. Se avessimo parlato, saremmo stati puniti. Poco dopo ci
hanno portato delle coperte vecchie e sporche.
Il secondo
giorno ci hanno dato una bottiglietta d’acqua, cinque piccole fette di pane e
alcune verdure.
Era la notte
del secondo giorno quando ci hanno portato in un’altra stanza per
l’interrogatorio. Qui hanno iniziato a farci una serie di domande: dove si
trovano i nostri campi, chi sostiene il nostro movimento, chi è responsabile di
fornirci cibo e altre cose, da quanto tempo siamo associati a quale partito, se
eravamo tra gli aggressori in quel particolare giorno in cui il loro personale
è stato preso di mira e ucciso. Io, innocentemente e in preda ad un’immensa
paura, ho risposto che ero solo uno studente. Dopo aver sentito questo, mi
hanno torturato, appeso a testa in giù e picchiato per diverse ore.
Mi hanno
riportato nella mia cella. Hanno continuato a fare la stessa routine di
interrogatori e torture per quasi cinque giorni di seguito. Durante quei giorni
mi hanno detto che se non avessi confessato quello che pensavano avessi fatto,
sarei stato ucciso e il mio corpo sarebbe stato lasciato in pasto agli insetti.
Il sesto
giorno, quando mi hanno appeso a testa in giù, ho iniziato a sanguinare dal
naso. Ho perso i sensi e sono rimasto a terra per qualche ora. Poi mi hanno
ributtato in cella. La cella era piccola, con circa due metri di lunghezza e un
metro e mezzo di larghezza, dove avevano messo altri quattro rapiti, in modo
che non potessimo allungare i piedi per trovare un po’ di conforto per i nostri
corpi doloranti.
Dopo quella
notte, quando sanguinavo, non mi hanno più prelevato per l’interrogatorio nei
successivi due giorni. Il nono giorno, la sera, qualcuno è venuto da me e mi ha
chiesto di alzarmi in una lingua straniera; mi sono alzato con gli occhi
bendati, mi hanno portato in un’altra stanza. Mi hanno presentato un foglio e
mi hanno chiesto di firmarlo, poi mi hanno chiesto di lavorare per loro. Mi
hanno fatto alcuni nomi e mi hanno chiesto di ucciderli. Ho risposto che non
avrei ucciso nessuno e che non ero un assassino.
Poi mi hanno
detto che mi avrebbero rilasciato se li avessi informati dei movimenti dei
combattenti per la libertà Baloch, ogni volta che li avessi visti nei pressi
del nostro villaggio. Mi hanno minacciato dicendo che se non avessi accettato
di farlo, non mi avrebbero rilasciato. Ero impotente e ho accettato la loro
richiesta. Allora, mi hanno chiesto quali fossero i miei effetti personali al
momento del rapimento. Ho risposto che c’erano un paio di auricolari, del
denaro, un orologio da polso e la mia tessera studentesca. L’ufficiale ha
chiesto ad un soldato di andare a prendere i miei effetti personali. Circa
cinque minuti dopo, il soldato è tornato e ha detto che non riusciva a
trovarli.
L’ufficiale
ha detto che forse le mie cose si trovavano in un campo della mia città natale,
Parom. Mi hanno bendato ancora una volta e mi hanno gettato in un veicolo,
proprio come avevano fatto nove giorni prima quando ci avevano rapito. Mi hanno
detto che mi avrebbero ucciso. Tuttavia, dopo un viaggio di circa 20 minuti, si
sono fermati e mi hanno lasciato lì. Mi hanno detto di non togliere la benda
per i successivi dieci minuti e se ne sono andati. Dopo molto tempo, per la
paura, mi sono tolto la benda e ho capito che ero stato lasciato vicino a
Panjgoor, a circa 80 chilometri da casa mia.
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