Dal 2010, quando WikiLeaks ha
rivelato i documenti segreti del governo americano sui crimini di guerre e
torture, il suo fondatore, Julian Assange, non ha più conosciuto la libertà. E,
negli ultimi due anni, il lavoro dell’organizzazione è stato risucchiato dal
tentativo di salvargli la vita: chissà quante rivelazioni avrebbero potuto
farci sulla guerra in Ucraina e, più in generale, sul complesso
militare-industriale, che non risponde a un controllo democratico perché spesso
le informazioni sono coperte da segreto e avvolte in una fitta coltre di
disinformazione.
Il giornalista islandese Kristinn Hrafnsson è il direttore di WikiLeaks. Il Fatto lo ha
intervistato mentre è in Italia, per la conferenza internazionale su pace,
guerra e informazione, che si tiene oggi al comune di Assisi, organizzata da
Beppe Giulietti e dalla Federazione Nazionale della Stampa, dalla Tavola della
Pace di Flavio Lotti e da Articolo 21.
Dal 2010 Assange non sa più che cosa è la libertà.
Crede che ci siamo fidati troppo delle democrazie occidentali e del sistema dei
media?
Avevo l’impressione che, come WikiLeaks, ci avrebbero sostenuto a
sufficienza, soprattutto considerando che lavoravamo in collaborazione con
media partner che erano tra i giornali più potenti del mondo. È stata una
grande delusione vedere il fallimento del mainstream su
tutti i fronti. Avevo già maturato diffidenza nei confronti dei media mainstream, soprattutto dopo l’11 settembre e nei dieci
anni che ne erano seguiti.
In particolare a cosa si riferisce?
Avevo visto le loro complicità nel coprire crimini orrendi durante le
guerre; la loro mancanza di spirito critico nei confronti del potere, soprattutto
della superpotenza, gli Stati Uniti; avevo visto cosa era accaduto con la
guerra in Iraq, quando la maggior parte di loro aveva ripetuto le assurde
falsità usate per giustificare l’invasione. La spirale discendente del mainstream era continuata e non abbiamo ancora
avviato un processo di recupero, questo è preoccupante.
È in questo contesto che è stata creata WikiLeaks.
Che cosa state facendo ora?
In questi ultimi due anni non abbiamo pubblicato, ma il governo degli Stati
Uniti è deciso a silenziare e fare a pezzi WikiLeaks perché
odia l’ideale di una verità che non può abbattere. È quello che teme di più:
per il potere è troppo importante controllare il flusso delle informazioni.
Lei lavora per WikiLeaks dal 2010,
dopo aver lavorato per molti anni per la tv pubblica islandese. Si è mai
pentito?
Assolutamente no. E mi considero fortunato, anche se è stata dura,
soprattutto per Julian Assange, ovviamente, ma anche per gli altri che sono
parte del progetto.
Lei ha fatto visita a Julian Assange in carcere di
recente. Come sta?
Ha una grande resistenza, ma c’è un limite: la sua incarcerazione deve
finire subito. L’unica ragione per cui sopravvive è la convinzione di essere
detenuto per un motivo ingiusto e di combattere una battaglia per una causa più
grande della sua vita. Negli ultimi mesi abbiamo visto i media partner
originali (New York Times, Guardian, Der Spiegel, Le Monde, El Pais, ndr) pubblicare una
dichiarazione congiunta in suo favore. Abbiamo visto l’Attorney General degli
Stati Uniti, Garland, introdurre nuove linee guida per i media, che lo
esonererebbero dalle accuse. È assurdo che, nonostante ciò, il caso vada
avanti. Ho incontrato cinque presidenti in America Latina: quelli di Messico,
Colombia, Brasile, Bolivia, Argentina. Tutti hanno capito benissimo
l’importanza del caso e chiesto la liberazione di Julian. Il primo ministro
dell’Australia, Albanese, ha fatto dichiarazioni pubbliche di recente, dopo
averne discusso di persona con il presidente Biden, e si è detto molto
contrariato per il fatto che non ci siano progressi. Julian deve essere
liberato. La resistenza contro la sua liberazione è impressionante e porta a
chiedersi: chi beneficia della sua incarcerazione? È chiaro che
l’amministrazione Biden vorrebbe porvi fine, perché la danneggerebbe, se
dovesse andare avanti. Anche membri del Congresso del Partito democratico di
Biden, come Alexandria Ocasio-Cortez e Rashida Tlaib, ne hanno chiesto la fine.
Possiamo solo presumere che le forze oscure siano così forti che il caso non è
stato risolto. Mi riferisco alle agenzie di intelligence degli
Stati Uniti. Queste sono le forze che ci troviamo contro, come anche l’establishment militare. Ma non possiamo lasciare
che vincano.
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