lunedì 31 gennaio 2022

La strana e misteriosa stella pulsante - Luigi Bignami

 

La stella emette una gigantesca quantità di energia una volta ogni venti minuti, precisa come un orologio.

 

Un gruppo di astrofisici che sta mappando il cielo utilizzando le onde radio ha scoperto qualcosa di veramente insolito: un oggetto che sta rilasciando una gigantesca quantità di energia al ritmo di tre volte all'ora. Un fenomeno diverso da qualsiasi altro mai visto prima: gli astrofisici che l'hanno scoperto ipotizzano che possa essere una stella di neutroni o una nana bianca, ossia nuclei di stelle ormai morte e collassate su se stesse, che possiedono un campo magnetico ultra potente. Ruotando su se stesso nello Spazio, lo strano oggetto emette raggi di radiazioni che attraversano la nostra linea di vista e risulta essere, per un minuto ogni venti, una delle sorgenti radio più luminose del cielo. L'astrofisica Natasha Hurley-Walker, del Centro internazionale di ricerca in radioastronomia (ICRAR, Australia), a capo dello studio pubblicato su Nature, ha spiegato: «Durante le nostre osservazioni questo oggetto appariva e spariva nel giro di pochi minuti. Qualcosa del tutto inaspettato, e anche un po' inquietante per un astronomo, perché non c'è nulla di noto nel cielo che si comporta allo stesso modo. Ed è molto vicino a noi: a circa 4.000 anni luce di distanza, come dire nel nostro cortile galattico».

L'oggetto è stato scoperto da Tyrone O'Doherty, studente della Curtin University (Bentley, Australia occidentale), utilizzando il telescopio Murchison Widefield Array (MWA) con una nuova tecnica da lui sviluppata. «È fantastico che la fonte che ho identificato l'anno scorso si sia rivelata un oggetto così particolare», ha affermato O'Doherty: «l'ampio campo visivo e l'estrema sensibilità dell'MWA sono perfetti per studiare l'intero cielo e rilevare anche gli imprevisti.»


La Via Lattea vista dalla Terra -  il marcatore bianco sulla destra mostra la posizione da cui arrivano le pulsazioni cicliche. Natasha Hurley-Walker et all, 2022


I TRANSITORI. Gli oggetti che si accendono e si spengono nell'Universo sono chiamati transient (transitori), e non sono nuovi per gli astronomi. L'astrofisica e coautrice dello studio, Gemma Anderson (ICRAR), ha affermato che «quando si studiano i transitori si osserva solitamente la morte di una stella massiccia o l'attività dei resti che lascia dietro sé». Vi sono "transitori lenti", come le supernovae, che appaiono nel corso di pochi giorni e scompaiono dopo alcuni mesi, e vi sono "transitori veloci", come le stelle di neutroni chiamate pulsar, che si attivano e si spengono in pochi millisecondi o al più secondi. Ma in questo caso è qualcosa che si accende per un minuto ogni venti, ed è questa la stranezza.

L'oggetto misterioso è incredibilmente luminoso, ma doveva essere più piccolo del Sole; emette onde radio altamente polarizzate, ossia trasmesse su un piano ben preciso, e ciò suggerisce che debba avere un campo magnetico estremamente forte. Hurley-Walker ha affermato che le osservazioni corrispondono a un oggetto previsto dalle teorie astrofisiche, chiamato magnetar a periodo ultra lungo: «È un tipo di stella di neutroni che ruota lentamente e che è stato previsto esistere, ma nessuno si aspettava di rilevarne direttamente uno come questo perché non ci aspettavamo che fossero così brillanti. In qualche modo sta convertendo l'energia magnetica in onde radio in modo molto più efficace di qualsiasi altra cosa che abbiamo visto prima».

Non appena sarà possibile riposizionare il radiotelescopio in modo da osservare quella porzione di cielo, lo studio proseguirà per cercare di capire se le pulsazioni continuano o meno. «Se lo fa, ci sono telescopi nell'emisfero australe e anche in orbita che possono puntare direttamente in quella direzione», spiega Hurley-Walker, che si ripromette anche di rianalizzare il vasto archivio dell'MWA alla ricerca di segnali analoghi: «Un'analisi approfondita del materiale che già possediamo ci potrà dire se quanto osservato è un evento raro, una tantum, o una nuova popolazione di oggetti che non avevamo mai notato prima».

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Tutto (o quasi) quello che avreste voluto sapere sul caso Moro, ma non avete mai osato chiedere

 

 






Afghanistan (e altrove): che fare oggi? - Luciana Castellina

 

I Talebani governano Kabul, il paese è al collasso. Che cosa possiamo fare oggi? E come affrontiamo le tensioni tra Occidente e Russia sull’Ucraina? E le decine di altri conflitti in tutto il mondo? La prefazione dell’ebook ‘Afghanistan senza pace, 2001-2021’.

Che cosa fare oggi con l’Afghanistan riconsegnato ai Talebani? E con le nuove tensioni tra Occidente e Russia sull’Ucraina? E con le decine di altri conflitti, striscianti o violenti, in tutto il mondo? Torna alla mente uno degli slogan dei pacifisti degli anni ’80, un’importante verità che nell’Europa della nuova guerra fredda il movimento aveva affermato: “I patti non si fanno con gli amici, ma con i nemici”.

Voleva dire no all’arroccamento nell’Alleanza atlantica, sì al dialogo e alla ricerca di un compromesso con gli avversari. Ed era il corollario di un’altra verità: “la guerra è un retaggio del passato, la politica estera non può più affidarsi a soluzioni militari, la sicurezza va assicurata da strumenti politici”. 

Quando i potenti Stati Uniti annunciarono, ad agosto 2021, che dopo aver massacrato per 20 anni l’Afghanistan, avrebbero ordinato alle loro truppe e a quelle di noialtri alleati della Nato di abbandonare il paese, queste sagge considerazioni, che avevano ispirato la mobilitazione pacifista quarant’anni fa, sono tornate d’attualità. Generali, ministri, giornalisti per vent’anni hanno affermato di poter conquistare l’Afghanistan e trasformarlo, senza fare i conti con la realtà di quel paese. C’è stato anche chi ha pensato che i bombardamenti e i droni americani avrebbero potuto liberare le donne dal burka. Ahimè, non è stato così.

Dopo le grandi manifestazioni dei primi anni di guerra – raccontate negli articoli della prima parte di questo ebook – anche le nostre proteste sono cadute e i nostri democratici governi europei sono andati avanti tranquillamente con le operazioni militari nel quadro Nato al servizio della strategia americana. In Afghanistan per fortuna sono rimaste le Ong, a cominciare da Emergency, impegnate ad aiutare con scuole e ospedali la società civile del paese anziché ad armare le bande di altre fazioni.

“Fare accordi” con i nemici non vuol dire riconoscere il governo dei Talebani (non l’hanno del resto fatto nemmeno Russia e Cina). Vuol dire tenere aperto un confronto politico, dopo che per vent’anni a parlare sono state solo le armi. Vuol dire strappare qualche spazio per fare quanto non abbiamo fatto prima: aiutare la società civile afghana, le donne, i giovani a liberarsi di chi li opprime, maturando autonomia culturale e capacità di organizzarsi per diventare protagonisti della loro liberazione. E gli strumenti non sono missioni ufficialmente “umanitarie” sebbene portate avanti da militari armati fino ai denti. Sono gli aiuti per un paese alla fame, il sostegno all’azione delle Ong, la solidarietà. 

E serve davvero salvare chi ora rischia la vita – e sono in tanti – ottenendo vie d’uscita dal paese e l’impegno dei nostri paesi ad accogliere i fuggitivi. A Doha, nel negoziato promosso da Trump e poi proseguito da tutta la Nato, non c’è stata una trattativa sull’Afghanistan, ma solo sulle garanzie a favore dei militari Nato che se ne volevano andare, i soli per i quali è stata espressa preoccupazione dal presidente Biden: “Riportare a casa i nostri ragazzi”. E tanto peggio per quelli che vivono in un paese che i “nostri ragazzi” hanno massacrato in questi 20 anni, in nome della guerra come risolutrice dei conflitti.

Occuparci di Afghanistan oggi vuol dire anche occuparsi di Iran, dove ci sono migliaia di profughi afghani, e dove c’è un nuovo terreno di scontro con gli Stati Uniti e con Israele, sul nucleare e sulle strategie regionali. Vuol dire occuparsi di Medio Oriente: Israele, Palestina, Libano, Siria, Turchia, Arabia Saudita, Yemen, tutti posti dove i conflitti sembrano irrisolvibili, i diritti sono calpestati, la pace è introvabile. 

Vuol dire occuparsi di Europa, Ucraina, Bielorussia: a Bruxelles si insegue il progetto di esercito europeo e si finanzia la ricerca e produzione di nuove armi, in Ucraina si prepara un nuovo scontro militare est-ovest, alla frontiera tra Polonia e Bielorussia si ripete lo scandalo di un’Europa capace solo di alzare muri contro i profughi. E vuol dire occuparsi di Italia, dove le spese militari crescono al ritmo del 5%, più di ogni spesa corrente per il 2022, più della sanità nel mezzo della pandemia. I vent’anni trascorsi dalle torri gemelle alla ritirata Usa da Kabul ci ricordano che non possiamo non occuparci della pace.

 

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domenica 30 gennaio 2022

Sul razzismo è meglio capirsi - Annamaria Rivera

 

Come premessa, conviene rimarcare che il termine “razzismo”, al singolare, è preferibile a “razzismi”, se si vuole cogliere il carattere unitario del concetto, al di là delle variazioni storiche ed empiriche del fenomeno. Paradossalmente, per nominare un tale sistemasiamo costretti/e a usare un lemma la cui etimologia rimanda alla credenza nell’esistenza delle “razze”, criticata e poi abbandonata da una buona parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla. “Razza” è, infatti, una pseudocategoria tanto infondata quanto paradossale, essendo basata sul postulato che istituisce un rapporto deterministico fra caratteri somatici, fisici, genetici e caratteri psicologici, intellettivi, culturali, sociali.

In sintesi, il razzismo è definibile come un sistema di credenze, rappresentazioni, norme, discorsi, comportamenti, pratiche, atti politici e sociali, volti a svalorizzare, stigmatizzare, discriminare, inferiorizzare, subordinare, segregare, perseguitare categorie di persone alterizzate, e ciò fino alla strage e allo sterminio.

Scrivo alterizzate poiché nella realtà fattuale, il “colore” o l’effettiva distanza culturale e/o sociale dal noi sono alquanto irrilevanti nella scelta delle vittime, come comprova la tragica storia dell’antisemitismo. Lo stigma applicato a certe categorie di persone può prescindere da qualsiasi differenza somatica, fenotipica, culturale o relativa alla provenienza, essendo l’esito di un processo di costruzione sociale, simbolica, politica.

Basta dire che nella geometria variabile del razzismo italiano dei decenni più recenti, il ruolo di capri espiatori e di bersagli di campagne allarmistiche è stato attribuito, di volta in volta e fra gli altri e le altre, a persone migranti albanesi, “slave”, romene, delle quali, fino a prova contraria, non si può dire che siano “negri/e”, oppure che siano estranei/e alla storia e alla cultura europee.

Il razzismo diviene sistemico quando è direttamente o indirettamente incoraggiato o legittimato da istituzioni, nazionali e sovranazionali, nonché da mezzi di comunicazione. Quando l’intolleranza “spontanea” verso determinati gruppi o minoranze, diffusa nella società, è avallata e legittimata da istituzioni, anche europee, e da apparati dello Stato, nonché dalla propaganda e da una parte del sistema dell’informazione, è allora che s’innesca il circolo vizioso del razzismo.

Il sistema-razzismo è il più delle volte sorretto da dispositivi simbolici, comunicativi, linguistici, che sono in grado di agire sul sociale, producendo e riproducendo discriminazioni e ineguaglianze. Soprattutto esso è riprodotto, avvalorato, legittimato da un complesso di leggi, norme, procedure e pratiche routinarie: ciò che viene detto razzismo istituzionale, il quale finisce per generare non solo discriminazione, ma anche stratificazione di disuguaglianze in termini di accesso a risorse sociali, materiali, simboliche (status, cittadinanza, lavoro, servizi sociali, istruzione, conoscenza, informazione…).

 

A tal proposito, esemplare è il caso della delegittimazione istituzionale, se non della criminalizzazione, non solo delle ONG che praticano ricerca e soccorso in mare, ma anche di chiunque, fosse pure individualmente, compia gesti di solidarietà verso persone profughe e migranti. Tutto ciò per non dire del contributo delle istituzioni italiane alla strage di persone profughe e migranti, del quale uno dei pilastri è costituito dal Memorandum d’intesa fra la Libia e l’Italia, la quale in tal modo legittima non solo le stragi nel Mediterraneo, ma anche gli orrori compiuti dalla cosiddetta Guardia costiera libica e quelli che si consumano nei “centri di accoglienza per migranti”, in realtà degli autentici lager.   

È indubbio che un tale esempio dall’alto non faccia che incoraggiare e legittimare intolleranza e razzismo “dal basso”. Per limitarci all’Italia, si potrebbero citare i numerosi episodi di barricate (reali o simboliche) contro l’arrivo di richiedenti-asilo; ma anche le sempre più numerose rivolte, dette spontanee, in quartieri popolari, contro l’assegnazione di alloggi a famiglie di origine immigrata. E’ ben noto: più che mai in tempi di crisi, ma anche allorché le rivendicazioni sociali e il conflitto di classe (come si diceva un tempo) non hanno più lingua e forme in cui esprimersi, accade che il disagio economico e sociale e il senso di abbandono da parte delle istituzioni alimentino risentimento e ricerca del capro espiatorio.

Tuttavia, in questi casi non potrebbe essere più impropria e ingannevole la formula “guerra tra poveri”, che, solo in apparenza non-razzista, finisce per rappresentare aggressori e aggrediti/e quali vittime simmetriche; e per fare delle persone indigenti “in guerra tra loro” gli attori unici o principali della scena razzista. In realtà, a socializzare, manipolare, deviare il rancore collettivo, istigando e talvolta perfino guidando tali rivolte, sono spesso militanti di gruppi di estrema destra. In tal caso, il circolo vizioso del razzismo non fa che produrre, se non il rafforzamento, comunque la legittimazione, per quanto possa essere implicita o involontaria, della destra neofascista.

Lo schema ideologico e narrativo che fa perno sulla locuzione “guerra tra poveri” è, in fondo, simmetrico o contiguo a quello che s’incentra sulle antitesi-chiave sicurezza/insicurezza, decoro/degradoE a proposito di circolo vizioso del razzismo, non è casuale che tali antitesi abbondino, in particolare, nel testo della legge Minniti del 18 aprile 2017, n. 48 («Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città»).

In fondo, tale legge non fa che tradurre e legittimare la percezione comune per la quale migranti, rifugiati/e, rom, senzatetto, marginali sarebbero importatori di degrado, insicurezza, disordine sociale. In definitiva, essa tematizza in termini di pericolosità sociale lo stile e le pratiche di vita, spesso imposte, di coloro che sono considerati/e “fuori norma”.

Per tentare di spezzare o almeno incrinare il circolo vizioso del razzismo occorrerebbe costruire un ampio movimento di massa antirazzista, degno di un’impresa così ardua. Attualmente siamo alquanto lontani/e da una simile prospettiva. 

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Pier Paolo Pasolini (Intervento al congresso del Partito radicale - novembre 1975)

 


Pubblichiamo il testo dell'intervento che Pier Paolo Pasolini avrebbe dovuto tenere al Congresso del Partito radicale del novembre 1975. Poté essere solo letto, davanti ad una platea sconvolta e muta, perché due giorni prima Pasolini moriva ucciso. C'è un grave pericolo - ci avverte il poeta e saggista - che incombe sul Partito radicale proprio per i grandi successi ottenuti nella conquista dei diritti civili. Un nuovo conformismo di sinistra si appresta ad appropriarsi della vostra battaglia per i diritti civili "creando un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo". Proprio la cultura radicale dei diritti civili, della Riforma, della difesa delle minoranze sarà usata dagli intellettuali del sistema come forza terroristica, violenta e oppressiva. Il potere insomma si accinge ad "assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici". La previsione di Pasolini si è avverata, non solo in Italia, ma nel resto della società occidentale dove, proprio in nome del progressismo e del modernismo, si è affermata una nuova classe di potere totalizzante e trasformista, di certo più pericolosa delle tradizionali classi conservatrici. "Contro tutto questo - concludeva Pasolini - voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticate subito i grandi successi e continuate imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare." 

[Il testo soprastante è tratto dal "Numero unico" pubblicato dal Partito radicale per il suo 35° Congresso, Budapest, aprile 1989: il testo dell'intervento pasoliniano risulta, in tale "Numero unico", riportato soltanto parzialmente, con alcuni "omissis". Qui di seguito tale intervento viene proposto nella sua versone integrale (da Meridiani Mondadori). L'intervento venne letto al Congresso del Partito radicale da Vincenzo Cerami]

* * *

Prima di tutto devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non sono qui come radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come progressista. Sono qui come marxista che vota per il Partito Comunista Italiano, e spera molto nella nuova generazione di comunisti. Spera nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali. Cioè con quel tanto di volontà e irrazionalità e magari arbitrio che permettono di spiazzare - magari con un occhio a Wittgenstein - la realtà, per ragionarci sopra liberamente. Per esempio: il Pci ufficiale dichiara di accettare ormai, e sine die, la prassi democratica. Allora io non devo aver dubbi: non è certo alla prassi democratica codificata e convenzionalizzata dall'uso di questi tre decenni che il Pci si riferisce: esso si riferisce indubbiamente alla prassi democratica intesa nella purezza originaria della sua forma, o, se vogliamo, del suo patto formale.

Alla religione laica della democrazia. Sarebbe un'autodegradazione sospettare che il Pci si riferisca alla democraticità dei democristiani; e non si può dunque intendere che il Pci si riferisca alla democraticità, per esempio, dei radicali.

Paragrafo primo

A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti.  
B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano.  
C) Sono abbastanza simpatiche anche quelle persone che lottano per i diritti degli altri (soprattutto per coloro che non sanno di averli).  
D) Ci sono, nella nostra società, degli sfruttati e degli sfruttatori. Ebbene, tanto peggio per gli sfruttatori.  
E) Ci sono degli intellettuali, gli intellettuali impegnati, che considerano dovere proprio e altrui far sapere alle persone adorabili, che non lo sanno, che hanno dei diritti; incitare le persone adorabili, che sanno di avere dei diritti ma ci rinunciano, a non rinunciare; spingere tutti a sentire lo storico impulso a lottare per i diritti degli altri; e considerare, infine, incontrovertibile e fuori da ogni discussione il fatto che, tra gli sfruttati e gli sfruttatori, gli infelici sono gli sfruttati. 
Tra questi intellettuali che da più di un secolo si sono assunti un simile ruolo, negli ultimi anni si sono chiaramente distinti dei gruppi particolarmente accaniti a fare di tale ruolo un ruolo estremistico. Dunque mi riferisco agli estremisti, giovani, e ai loro adulatori anziani.  
Tali estremisti (voglio occuparmi soltanto dei migliori) si pongono come obiettivo primo e fondamentale quello di diffondere tra la gente direi, apostolicamente, la coscienza dei propri diritti. Lo fanno con determinazione, rabbia, disperazione, ottimistica pazienza o dinamitarda impazienza, secondo i casi. E dato che non si tratta solo di suscitare (negli adorabili ignari) la coscienza dei propri diritti, ma anche la volontà di ottenerli, la propaganda non può non essere soprattutto pragmatica.

Paragrafo secondo

Disobbedendo alla distorta volontà degli storici e dei politici di mestiere, oltre che a quella delle femministe romane - volontà che mi vorrebbe confinato in Elicona esattamente come i mafiosi a Ustica - ho partecipato una sera di questa estate a un dibattito politico in una città del Nord. Come sempre poi succede, un gruppo di giovani ha voluto continuare il dibattito anche per strada, nella serata calda e piena di canti. Tra questi giovani c'era un greco. Che era, appunto, uno di quegli estremisti marxisti "simpatici" di cui parlavo.  
Sul suo fondo di piena simpatia, si innestavano però manifestamente tutti i più vistosi difetti della retorica e anche della sottocultura estremistica. Era un "adolescente" un po' laido nel vestire; magari anche addirittura un po' scugnizzo: ma, nel tempo stesso, aveva una barba di vero e proprio pensatore, qualcosa tra Menippo e Aramis; ma i capelli , lunghi fino alle spalle, correggevano l'eventuale funzione gestuale e magniloquente della barba, con qualcosa di esotico e irrazionale: un'allusione alla filosofia braminica, all'ingenua alterigia dei gurumparampara.  
Il giovane greco viveva questa sua retorica nella più completa assenza di autocritica: non sapeva di averli, questi suoi segni così vistosi, e in questo era adorabile esattamente come coloro che non sanno di avere diritti...  
Tra i suoi difetti vissuti così candidamente, il più grave era certamente la vocazione a diffondere tra la gente ("un po' alla volta", diceva: per lui la vita era una cosa lunga, quasi senza fine) la coscienza dei propri diritti e la volontà di lottare per essi.  
Ebbene; ecco l'enormità, come l'ho capita in quello studente greco, incarnata nella sua persona inconsapevole.  
Attraverso il marxismo, l'apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese - l'apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di realizzarli - altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese vecchio, del borghese impotente contro il borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese grande.  
E' un'inconscia guerra civile - mascherata da lotta di classe - dentro l'inferno della coscienza borghese. (Si ricordi bene: sto parlando di estremisti, non di comunisti). Le persone adorabili che non sanno di avere diritti, oppure le persone adorabili che lo sanno ma ci rinunciano - in questa guerra civile mascherata - rivestono una ben nota e antica funzione: quella di essere carne da macello.  
Con inconscia ipocrisia, essi sono utilizzati, in primo luogo, come soggetti di un transfert che libera la coscienza dal peso dell'invidia e del rancore economico; e, in secondo luogo, sono lanciati dai borghesi giovani, poveri, incerti e fanatici, come un esercito di paria "puri", in una lotta inconsapevolmente impura, appunto contro i borghesi vecchi, ricchi, certi e fascisti. 
Intendiamoci: lo studente greco che qui ho preso a simbolo era a tutti gli effetti (salvo rispetto a una feroce verità) un "puro" anche lui, come i poveri. E questa "purezza" ad altro non era dovuta che al "radicalismo" che era in lui.

Paragrafo terzo

Perché è ora di dirlo: i diritti di cui qui sto parlando sono i "diritti civili" che, fuori da un contesto strettamente democratico, come poteva essere un'ideale democrazia puritana in Inghilterra o negli Stati Uniti - oppure laica in Francia - hanno assunto una colorazione classista. L'italianizzazione socialista dei "diritti civili" non poteva fatalmente (storicamente) che volgarizzarsi. Infatti: l'estremista che insegna agli altri ad avere dei diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha gli identici diritti di chi comanda. L'estremista che insegna agli altri a lottare per ottenere i propri diritti, che cosa insegna? Insegna che bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L'estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l'identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione: cioè nel caso migliore una democratizzazione in senso borghese. La tragedia degli estremisti consiste così nell'aver fatto regredire una lotta che essi verbalmente definiscono rivoluzionaria marxista-leninista, in una lotta civile vecchia come la borghesia: essenziale alla stessa esistenza della borghesia. La realizzazione dei propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di borghese.

Paragrafo quarto

In che senso la coscienza di classe non ha niente a che fare con la coscienza dei diritti civili marxistizzati? In che senso il Pci non ha niente a che fare con gli estremisti (anche se alle volte, per via della vecchia diplomazia burocratica, li chiama a sé: tanto, per esempio, da aver già codificato il Sessantotto sulla linea della Resistenza)? E' abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i diritti civili marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di una identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i comunisti, invece, lottano per i diritti civili in nome di una alterità. Alterità (non semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude ogni possibile assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori. La lotta di classe è stata finora anche una lotta per la prevalenza di un'altra forma di vita (per citare ancora Wittgenstein potenziale antropologo), cioè di un'altra cultura. Tanto è vero che le due classi in lotta erano anche - come dire? - razzialmente diverse. E in realtà, in sostanza, ancora lo sono. In piena età dei Consumi.

Paragrafo quinto

Tutti sanno che gli "sfruttatori" quando (attraverso gli "sfruttati") produconomerce, producono in realtà umanità (rapporti sociali).  
Gli "sfruttatori" della seconda rivoluzione industriale (chiamata altrimenti consumismo: cioè grande quantità, beni superflui, funzione edonistica) producono nuova merce: sicché producono nuova umanità (nuovi rapporti sociali).  
Ora, durante i due secoli circa della sua storia, la prima rivoluzione industriale ha prodotto sempre rapporti sociali modificabili. La prova? La prova è data dalla sostanziale certezza della modificabilità dei rapporti sociali in coloro che lottavano in nome dell'alterità rivoluzionaria. Essi non hanno mai opposto all'economia e alla cultura del capitalismo un'alternativa, ma, appunto, un'alterità. Alterità che avrebbe dovuto modificare radicalmente i rapporti sociali esistenti: ossia, detta antropologicamente, la cultura esistente.  
In fondo il "rapporto sociale" che si incarnava nel rapporto tra servo della gleba e feudatario, non era poi molto diverso da quello che si incarnava nel rapporto tra operaio e padrone dell'industria: e comunque si tratta di "rapporti sociali" che si sono dimostrati ugualmente modificabili.  
Ma se la seconda rivoluzione industriale - attraverso le nuove immense possibilità che si è data - producesse da ora in poi dei "rapporti sociali"immodificabili? Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia.  
Da questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d'uomo: ma l'umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei "rapporti sociali" immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo), sia, com'è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili.  
In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all'utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova.

Paragrafo sesto.

Caro Pannella, caro Spadaccia, cari amici radicali, pazienti con tutti come santi, e quindi anche con me: l'alterità non è solo nella coscienza di classe e nella lotta rivoluzionaria marxista. L'alterità esiste anche di per sé nell'entropia capitalistica. Quivi essa gode (o per meglio dire, patisce, e spesso orribilmente patisce) la sua concretezza, la sua fattualità. Ciò che è, e l'altro che è in esso, sono due dati culturali. Tra tali due dati esiste un rapporto di prevaricazione, spesso, appunto, orribile. Trasformare il loro rapporto in un rapporto dialettico è appunto la funzione, fino a oggi, del marxismo: rapporto dialettico tra la cultura della classe dominante e la cultura della classe dominata. Tale rapporto dialettico non sarebbe dunque più possibile là dove la cultura della classe dominata fosse scomparsa, eliminata, abrogata, come dite voi. Dunque, bisogna lottare per la conservazione di tutte le forme, alterne e subalterne, di cultura. E' ciò che avete fatto voi in tutti questi anni, specialmente negli ultimi. E siete riusciti a trovare forme alterne e subalterne di cultura dappertutto: al centro della città, e negli angoli più lontani, più morti, più infrequentabili. Non avete avuto alcun rispetto umano, nessuna falsa dignità, e non siete soggiaciuti ad alcun ricatto. Non avete avuto paura né di meretrici né di pubblicani, e neanche - ed è tutto dire - di fascisti.

Paragrafo settimo

I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri. Ora, dire alterità è enunciare un concetto quasi illimitato. Nella vostra mitezza e nella vostra intransigenza, voi non avete fatto distinzioni. Vi siete compromessi fino in fondo per ogni alterità possibile. Ma una osservazione va fatta. C'è un'alterità che riguarda la maggioranza e un'alterità che riguarda le minoranze. Il problema che riguarda la distruzione della cultura della classe dominata, come eliminazione di una alterità dialettica e dunque minacciosa, è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema del divorzio è un problema che riguarda la maggioranza. Il problema dell'aborto è un problema che riguarda la maggioranza. Infatti gli operai e i contadini, i mariti e le mogli, i padri e le madri costituiscono la maggioranza. A proposito della difesa generica dell'alterità, a proposito del divorzio, a proposito dell'aborto, avete ottenuto dei grandi successi. Ciò - e voi lo sapete benissimo - costituisce un grande pericolo. Per voi - e voi sapete benissimo come reagire - ma anche per tutto il paese che invece, specialmente ai livelli culturali che dovrebbero essere più alti, reagisce regolarmente male.  
Cosa voglio dire con questo?  
Attraverso l'adozione marxistizzata dei diritti civili da parte degli estremisti - di cui ho parlato nei primi paragrafi di questo mio intervento - i diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede progressista. Non parlo dei vostri simpatizzanti. Non parlo di coloro che avete raggiunto nei luoghi più lontani e diversi: fatto di cui siete giustamente orgogliosi. Parlo degli intellettuali socialisti, degli intellettuali comunisti, degli intellettuali cattolici di sinistra, degli intellettuali generici, sic et simpliciter: in questa massa di intellettuali - attraverso i vostri successi - la vostra passione irregolare per la libertà, si è codificata, ha acquistato la certezza del conformismo, e addirittura (attraverso un "modello" imitato sempre dai giovani estremisti) del terrorismo e della demagogia. 

Paragrafo ottavo

So che sto dicendo delle cose gravissime. D'altra parte era inevitabile. Se no cosa sarei venuto a fare qui? Io vi prospetto - in un momento di giusta euforia delle sinistre - quello che per me è il maggiore e peggiore pericolo che attende specialmente noi intellettuali nel prossimo futuro. Una nuova trahison des clercs: una nuova accettazione; una nuova adesione; un nuovo cedimento al fatto compiuto; un nuovo regime sia pure ancora soltanto come nuova cultura e nuova qualità di vita.  
Vi richiamo a quanto dicevo alla fine del paragrafo quinto: il consumismo può rendere immodificabili i nuovi rapporti sociali espressi dal nuovo modo di produzione "creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili".  
Ora, la massa degli intellettuali che ha mutuato da voi, attraverso una marxizzazione pragmatica di estremisti, la lotta per i diritti civili rendendola così nel proprio codice progressista, o conformismo di sinistra, altro non fa che il gioco del potere: tanto più un intellettuale progressista è fanaticamente convinto delle bontà del proprio contributo alla realizzazione dei diritti civili, tanto più, in sostanza, egli accetta la funzione socialdemocratica che il potere gli impone abrogando, attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili, ogni reale alterità. Dunque tale potere si accinge di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile adesione intascando una invisibile tessera.  
Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare. 

https://www.maurizioturco.it/bddb/1975-11-intervento-al-congr.html

I FIGLI COSTRETTI - Soumaila Diawara

 

Soumaila Diawara
poeta in esilio (Bamako – Mali, 4 febbraio 1988)


I FIGLI COSTRETTI
(Tratto da “I sogni di un uomo”)


L’occidente costringe i figli dell’Africa
a scegliere tra tre viaggi.
Il più veloce e sicuro.
Quello provocato dalle pallottole micidiali
e dalle bombe fabbricate da mani straniere.
Poi quello lento ed asfissiante
della fame e della malattia.
Che lascia la pelle sulle ossa.
E rende anche i raggi del sole
un peso sulle spalle.
Infine c’é il deserto e il mare.
Dove le probabilità,
un poco
sono più alte.

da qui

sabato 29 gennaio 2022

Green Pass più profilazione di massa: verso un sistema di punteggio sociale alla cinese - Matteo Navacci

  

Ancor più dell’obbligo vaccinale, la vera notizia del decreto 1/2022 è che sarà l’Agenzia delle Entrate a irrogare le sanzioni in caso di violazione: è il campanello d’allarme di un grave rischio democratico per il nostro Paese

Sembra che sarà l’Agenzia delle Entrate (AdE) ad irrogare le sanzioni in caso di violazione dell’obbligo vaccinale Covid-19, entrato in vigore per gli over 50 con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Legge 1/2022. Una notizia che passerà sicuramente in secondo piano rispetto al dibattito intorno all’obbligo vaccinale, ma che certamente farà storcere il naso alle persone più attente ai dettagli. Credo invece che sia questa la vera notizia, ancor più dell’obbligo vaccinale, e che dovrebbe essere esaminata e valutata per quello che è: un grave rischio democratico per il nostro Paese.

* * * *

Prima di tutto, l’Agenzia delle Entrate è un ente pubblico le cui competenze sono stabilite per legge (Decreto Legislativo del 30/07/1999 n. 30):

“All’agenzia delle entrate sono attribuite tutte le funzioni concernenti le entrate tributarie erariali che non sono assegnate alla competenze di altre agenzie, amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, enti od organi, con il compito di perseguire il massimo livello di adempimento degli obblighi fiscali sia attraverso l’assistenza ai contribuenti, sia attraverso i controlli diretti a contrastare gli inadempimenti e l’evasione fiscale.”

In sostanza, l’Agenzia delle Entrate è competente per tutto ciò che riguarda i controlli fiscali, gli accertamenti e la gestione dei tributi, e il recupero dell’evasione fiscale. Che questo ente possa comminare sanzioni per la violazione di un obbligo sanitario, è molto peculiare (per usare un eufemismo), considerando che tale funzione esula dalle sue competenze.

Le sanzioni relative alla violazione di altri obblighi vaccinali in Italia sono infatti irrogate a seguito di contestazione da parte della ASL territorialmente competente, secondo un meccanismo orizzontale, e non invece verticale – dall’alto verso il basso – come in questo caso.

Per quale motivo allora è stata scelta l’Agenzia delle Entrate per irrogare le sanzioni? Il motivo, a mio avviso, è che l’AdE è probabilmente l’ente statale che ad oggi ha gli strumenti informativi migliori per trattare in tempo reale i dati di ogni cittadino italiano e determinare, attraverso l’incrocio dei dati sanitari, chi si è vaccinato e chi no, e quindi emettere una sanzione.

Come funzionerà? – Il Decreto Legge 1/2022 non descrive nello specifico come funzionerà il trattamento dei dati necessari a irrogare le sanzioni, né prevede un rinvio a successivi atti amministrativi attuativi. E questo è già un grave problema.

La normativa europea (GDPR), come anche quella italiana (Codice Privacy) prevedono che per trattare dati particolari, come quelli sanitari, da parte degli enti pubblici, sia necessario specificare attraverso legge o atto amministrativo generale:

  • i tipi di dati che saranno trattati
  • le operazioni eseguibili
  • le misure specifiche e appropriate per tutelare i diritti fondamentali delle persone

Tutto questo manca nel DL, che si limita invece a dire che sarà il Ministero della salute a fornire all’Agenzia delle Entrate i dati necessari, anche attraverso il sistema della Tessera Sanitaria, che è autorizzato a trattare i dati vaccinali. La norma, così scritta, sarebbe già in violazione di una legge di rango superiore (GDPR).

Ma quindi possono farlo? – Tecnicamente sì (tralasciando i profili di violazione di legge scritti sopra), grazie al Decreto Capienze (DL 139/2021), che a ottobre 2021 ha inaspettatamente riformato il Codice Privacy italiano.

Con questa riforma la pubblica amministrazione adesso è sempre legittimata a trattare, comunicare e diffondere dati personali anche senza che questo sia espressamente previsto da un atto di legge. Sarà sufficiente un atto amministrativo generale. Quindi pur non essendo il DL 1/2022 un’adeguata base giuridica, mancando dei requisiti necessari, il Ministero potrà riparare ex post con un atto amministrativo generale, che però non è una fonte di legge.

Questo aumenta a dismisura il potere informativo della pubblica amministrazione, che ora non dovrà più perder tempo dietro a noiose e complesse leggi per tutelare la privacy e i diritti delle persone.

E infatti, non credo che ci sarà mai alcuna legge specifica per disciplinare accuratamente questo nuovo trattamento da parte dell’AdE. Vedremo se avranno l’accortezza di emettere almeno un atto amministrativo generale, ma ho i miei dubbi.

Oltre l’Agenzia delle Entrate – Ma c’è di più. Il DL Capienze ha anche modificato il DL “rilancio” (34/2020), aprendo la strada a preoccupanti scenari di profilazione di massa della popolazione italiana, che riporto come immagine per comodità:

(DL 34/2020 modificato dal DL 139/2021)

In pratica, il Ministero della salute è oggi autorizzato a incrociare dati, anche non relativi alla salute per finalità di programmazione tecnico-sanitaria e per il conseguimento della missione 6 del PNRR. Ma lo stesso può dirsi per le altre amministrazioni pubbliche, che potranno trattare e incrociare anche dati relativi alla salute, grazie alla modifica dell’art. 2-sexies del Codice Privacy. Ciliegina sulla torta: la stessa prerogativa è stata estesa alle forze armate per finalità di sicurezza pubblica.

Insomma, il panorama italiano oggi è che lo Stato vede e può tutto, e che non c’è più alcuna barriera legale tra la comunicazione e diffusione di dati tra enti e istituzioni.

Il DL Capienze è stato duramente criticato da me e da chi come me si interessa della materia, con tanto di audizioni in Commissione Affari costituzionali del Senato, per evidenziare i gravi problemi che derivano da questa deriva malsana della normativa italiana sulla privacy. Purtroppo non siamo stati ascoltati. Qui un approfondimento.

Quali sono i problemi? – I problemi di questo libero arbitrio sul trattamento dei dati sono diversi e vanno oltre il contesto specifico dell’Agenzia delle Entrate. Sicuramente c’è un problema di trasparenza e di processo democratico: senza legge non c’è dibattito politico. Senza trasparenza e senza dibattito politico crollano i principi democratici e l’attività della pubblica amministrazione diventa autoritaria by default. D’altronde, il DL 1/2022 è stato pubblicato nella notte – perfino retrodatandolo.

E allora come può il cittadino difendersi dal potere informativo dello Stato e dell’Agenzia delle Entrate se non c’è neanche una legge che prevede le dovute tutele contro questo libero arbitrio? Quali sono le garanzie in caso di errore? Se il trattamento è automatizzato, quali sono i rimedi previsti per ottenere l’intervento umano?

Come può la persona mantenere il controllo dei propri dati che adesso rimbalzeranno da un ente all’altro e saranno incrociati tra loro per creare nuovi dataset e database senza alcuna trasparenza? Quali sono le garanzie contro gli effetti della profilazione di massa che potrà essere portata avanti dal Ministero della salute ai sensi dell’art. 7 del DL 34/2020?

Come possiamo semplicemente fidarci di enti come l’Agenzia delle Entrate, capitanati da persone che negli scorsi mesi si sono fatti espressamente portatori di una insensata guerra contro la privacy?

(Una dichiarazione di Ruffini, da un mio altro articolo su Agenda Digitale)

Ricordo, ad esempio, che nel 2020 il Garante Privacy si era espresso molto duramente sui provvedimenti attuativi della fatturazione elettronica proposti dal direttore dell’AdE, paragonandoli a un regime di sorveglianza di massa della totalità dei cittadini italiani. Il rischio, in sostanza, è di creare un sistema di sorveglianza globale passiva, in grado di rivelare i suoi effetti ogni volta che il governo in carica ne abbia necessità. Senza alcun paletto e limite.

Un passo in più: le possibili interazioni con il Green Pass – E che dire allora delle possibili interazioni con il sistema del Green Pass di questo nuovo ecosistema tecno-legale creato con il DL Capienze? Lo Stato italiano ha oggi il potere informativo per trasformare il Green Pass in un sistema di punteggio sociale (social scoring) in grado di permeare ogni singolo aspetto della vita di ognuno di noi.

È proprio col DL 1/2022 che si è stabilito l’obbligo di esibire il Green Pass per qualsiasi attività economica e sociale – salvo (per ora) per alcuni servizi essenziali che dovranno essere indicati con Dpcm. Ora sarà necessario esibire il Green Pass base (tampone/guarigione/vaccino) anche per entrare nei pubblici uffici, nei servizi postali e bancari. Questo significa che il Green Pass è oggi diventato un vero e proprio gateway per lo svolgimento di ogni attività sociale, economica e civile. Perfino i diritti fondamentali come il diritto di voto sono subordinati al possesso di Green Pass.

Il possesso del Green Pass è quindi condizione necessaria per essere cittadini. Chi non è in possesso del documento è un non-cittadino, in condizioni anche peggiori di un immigrato irregolare, perché almeno loro non pagano le tasse.

Nei fatti, il Green Pass è già un sistema di controllo della popolazione e delle imprese che può essere equiparato a un grezzo sistema di punteggio sociale.

E allora, cosa vieta al governo italiano di unire la tecnologia del Green Pass con l’enorme potere informativo che sta accumulando, per creare una sovrastruttura che possa subordinare l’accesso a beni e servizi sulla base del possesso di determinati requisiti?

Come ho già avuto modo di spiegare qui,i sistemi di social scoring non sono altro che mezzi per guidare il comportamento della “società” attraverso la manipolazione del comportamento degli individui.

Come arrivare a farlo? Attraverso un sistema di incentivi e sanzioni, che in Cina danno vita a “redlist” e “blacklist”.

E lo scopo del Green Pass, attraverso incentivi e sanzioni, è esattamente questo: incentivare un comportamento individuale per ottenere una modificazione del comportamento della società verso i fini e gli ideali dello Stato.

In Italia abbiamo oggi tutti gli strumenti per mettere in campo un sistema del genere:

  • Un’app di stato (IO) con cui accedere a servizi pubblici, collegata con il Green Pass
  • Un sistema di gatekeeping (Green Pass) che ricopre virtualmente ogni attività umana in modo capillare e pervasivo
  • La capacità di interconnessione di sistemi informativi e dati attraverso tutti gli enti della pubblica amministrazione, con l’Agenzia delle Entrate all’apice del sistema sanzionatorio
  • Un sistema già avviato di incentivi e sanzioni subordinato al rispetto di un requisito di legge (vaccino/tampone), che può essere facilmente esteso a ogni altro ambito
  • La volontà politica di accentrare tutto il potere informativo e diminuire la frammentazione tra sistemi

Cosa manca per trasformare il Green Pass in un vero e proprio sistema di punteggio sociale? A ben vedere, niente. Se ci fosse la volontà politica (leggi: consenso da parte della popolazione) sarebbe possibile anche già da domani.

E quindi? – E quindi, la notizia dell’Agenzia delle Entrate che sanzionerà in caso di violazione dell’obbligo vaccinale si porta dietro tutta una serie di considerazioni che vanno ben oltre il caso specifico.

Non è un caso che la riforma del Codice Privacy, così inaspettata e “casuale” sia arrivata in realtà in un momento in cui il governo italiano si dimostra uno dei più autoritari di sempre. Il “whatever it takes” di Draghi.

È molto pericoloso accettare passivamente tutto questo, perché sono i primi passi verso una “cinesizzazione” dell’Italia e dell’Unione europea (le stesse cose che stanno accadendo in Italia, sono replicate anche a livello europeo). Non è un caso che per la prima volta nella storia europea un atto normativo dell’Ue, ancora in fase di discussione, parli espressamente di sistemi di punteggio sociale (IA ACT).

La privacy, intesa come controllo sui dati da parte delle persone, minimizzazione del loro uso e protezione dell’anonimato, è letteralmente l’unica difesa contro l’ingerenza arbitraria da parte dello Stato, sempre più incentivato a controllare, sorvegliare e manipolare le persone e le informazioni. E questo è il motivo per cui in Italia e in Europa, nonostante i bei proclami, la privacy valga sempre meno.

È una questione di autodeterminazione e di libertà, intesa come possesso del proprio corpo e della propria identità (fisica e digitale), contro qualsiasi manipolazione e ingerenza da parte di uno stato sempre più grande e virtualmente senza limiti.

da qui

Umbria - Nino Savarese

 

 

entrando nelle città dell’Umbria si sente l’urto di una pietra dura ed ostile. I centri abitati, eccetto quelli in piano che non sono molti, sembrano scavati nella roccia o ne sono fasciati, con inusitata dovizia. Dalla campagna, così piena di grazia e soffusa di candore, gli uomini si separano con precauzioni terribili, e quando essa appare, dalle strade scure, dentro le occhiaie profonde degli archi poderosi, o dagli spiragli tra le case scoscese, sembra lontana ed irraggiungibile. 

 

Pietre e tenerezze dell’Umbria 

 

Le pietre dell’Umbria 

Terra verde, ma pietrosa; coperta di alberi dal piano ai monti, ma di alberi bassi, stentati. Agricoltura industriosissima, oggi largamente tecnica, ma fertilità limitata. Gli ulivi, minati dalla carie, hanno il tronco biforcato dalle continue amputazioni e sono poveri di rami: nani, al confronto di quelli di altre regioni; la vite pesantemente aggrappata all’acero, a canestro, ha nodosità nere che sembrano pietrificate. 

Sui monti, il ligustro, l’albero di Giuda, il frassino, l’elce, il ginepro, il caprifoglio, il corbezzolo, tutta, insomma, la flora appenninica è ridotta di sviluppo, ingentilita nelle linee, si direbbe umile.

Terra ricca di acque, ma che non scorrono tutte alla superficie, anzi, per gran parte scompaiono in buche e inghiottitori, creando una complicata idrografia sotterranea. Brevi pianure, e subito fermate da monti, da dolci creste, o da burroni o da acropoli naturali. 

La terra sempre presente, non sfuggente verso l’orizzonte, ma rilevata e ferma come un volto da guardare. Silenzi pieni di stupore, ma senza canto di uccelli, che sono piuttosto rari. Tale è la terra dell’Umbria. 

Ma tutti questi limiti, che sembrano contrastare ad ogni suo aspetto, sono la ragione principale della sua misteriosa bellezza, fatta di misura e di difficoltà. Il suo fascino nasce da questi ostacoli, da questi pentimenti: l’opposto di questo rigore è il cieco ed eccessivo rigoglio della vegetazione e della fauna dei paesi tropicali. 

In certe plaghe, sotto certa luce, ha qualche cosa di innocente e di nuovo, quasi per una infanzia della vegetazione. Pensando che in geologia l’unità di misura è il secolo, si fa l’ipotesi che questa sia una terra agraria recente, che qui la pietra, nel suo disfacimento, provi le sue prime tenerezze materne; che sia alle prime stagioni, al confronto delle zolle esauste dalle millenarie fruttificazioni. Perciò i colori dei prati ed i tenui vapori che li accarezzano avrebbero questa ineffabile freschezza, questa nuova innocenza. 

Qualche cosa di simile si osserva nella gente e nella vita di questa regione, specie in certi punti di essa, e, più precisamente, tra Perugia, Gubbio e Assisi. Gli occhi delle persone, sereni e un po’ trasognati, annunciano qualche novità sociale. Si avverte che certe barriere della convivenza sono cadute: gli incontri sono più semplici, gli sguardi senza sottintesi; le donne parlano poco al senso, e sviano l’attenzione con l’aria lontana e l’aspetto un po’ malato: le parole sono più discrete, i sorrisi più schietti; fiducia e semplicità illuminano i rapporti tra gli uomini. 

Ma entrando nelle città dell’Umbria si sente l’urto di una pietra dura ed ostile. I centri abitati, eccetto quelli in piano che non sono molti, sembrano scavati nella roccia o ne sono fasciati, con inusitata dovizia. Dalla campagna, così piena di grazia e soffusa di candore, gli uomini si separano con precauzioni terribili, e quando essa appare, dalle strade scure, dentro le occhiaie profonde degli archi poderosi, o dagli spiragli tra le case scoscese, sembra lontana ed irraggiungibile. 

Paeselli, che altrove accoglierebbero l’invito di una così bella natura a porte aperte, allungandovi incontro davanzali fioriti, terrazzi e ballatoi, qui vi levano contro aspre muraglie. 

Una simile osservazione, una volta fatta, non abbandona più, visitando l’Umbria, e sempre più chiaramente appare lo strano contrasto tra la pietra e la vegetazione; tra una campagna gentile ed adorna, e una pietra fredda e dura che vi si oppone e quasi la respinge. 

Una pietra sulla quale il tempo ha fatto presa più che altrove. La storia vi sta scritta sopra con cruda evidenza, perché essa non ha ceduto, non cede, e il ricordo perciò non si affievolisce. Certi paesi, Gubbio ad esempio, sembrano ammalati di nostalgia: fermi e fedeli al loro primo amore con la storia: nelle strade deserte, i pochi passanti vanno rasente i muri, per dar luogo alle ombre che ancora vi si aggirano, e il selciato e la pietra delle gradinate sono vivi ed intatti. Il Palazzo dei Consoli è sospeso nel tempo, come è sospeso sui suoi agili archi che sembrano fatti per preservarlo da ogni corruzione: è lontano ed intangibile come le altissime rocce che ha alle spalle sulla via di Scheggia, e dalle quali sembra uscito con una grazia di cosa naturale. I ragazzi non vi giuocano intorno: la vita che è venuta dopo è passata al largo e non lo ha toccato. 

Allorché si fa buio, tutta questa pietra dei castelli, delle mura, delle case dell’Umbria rientra nel fondo del tempo: ritrova una più giusta ambientazione, come se, ogni sera, dai monti bruni che la chiudono, tornasse su questa terra un’aria di altri tempi. 

I monti, tra le macchie verdi, scoprono le ossa delle loro rocce; certuni, ricchi di vegetazione alla base, non riescono a coprirsene le spalle, e pare che ne soffrano; come Monte Acuto, che si allontana freddoloso, tra monte e monte, nel suo mantello sbiadito e rattoppato di pellegrino.

Ma non solo sui monti e nelle alture la pietra è sempre presente; anche sul terreno lavorato, in pianura o in collina, affiora un pietrisco bianchiccio: lo strato coltivabile è in genere pochissimo profondo e, se basta a far prosperare le piante annuali, arresta o mortifica quelle di alto fusto. Tra Spoleto e Norcia questa sensazione di pietrosità prende il suo maggiore sviluppo. 

Sembra che un Dio irato abbia stretto il pugno su questo lembo di terra nell’atto di crearlo e darvi forma. È un cerchio ferreo di monti, alcuni altissimi come la Rotonda, il Bicco, l’Aspro, altri a picchi scoscesi: ora sono monti e colline affiancati, ora cuciti l’uno all’altro, ora accoppiati od ammucchiati con vero capriccio. 

L’unica strada che vi passa, e il Nera che vi scorre, si nascondono nelle pieghe strettissime tra monte e monte. Il treno elettrico che, partendo da Spoleto, percorre tutta la contrada, passato il varco di questo cerchio di rocce sembra non ne possa più uscire.

Arrampicatosi per le cime, resta per qualche poco come sospeso nel vuoto; gradatamente ritorno a poca distanza dalla via fatta, e di nuovo innalza, come per tentare una nuova evasione. e ridiscende, o si rassegna a costeggiare i fianchi di un monte altissimo che gli sta sopra. In certi punti, i regoli sui quali scorre con uno sviluppo di serpentina o di spirale, si vengono a trovare sovrapposti, e un ponte o un passaggio stanno sopra un altro ponte e un altro passaggio come i gradi di una scala aerea e fantastica. 

Aggrappati ai fianchi dei monti più alti, in bilico sul cocuzzolo di quelli più bassi o abbandonati in fondo alle pieghe, tra monte e monte, sono disseminati numerosissimi paesi e villaggi che il treno va a cercare ad uno ad uno, nella sua corsa. S. Anatolia, Scheggino, Ceselli, San Martino sono i primi che vediamo sporgendoci sul vuoto pauroso, e sembrano piccoli mucchi di pietra ruzzolati dall’alto dei tre monti che li sovrastano. 

Ma è raro che questi paeselli sieno in vista tra loro, come quelli nominati, anzi pare che, a posta, si nascondano gli uni agli altri. Sembra impossibile vi sieno tanti uomini nascosti in questa solitudine, eppure i paesi si susseguono con suono subito familiare: Vallo di Nera, Piedipaterno, Triponzo, Tassano, Borgo Cerreto, Sellano, Visso, Grotti, Cascia… Si guarda con la sospesa meraviglia che coglie chi ficca l’occhio nel cavo di un tronco e vi scopre un insospettato popolo di abitatori, o solleva un sasso in primavera e si accorge di aver forzato la porta di una città sotterranea nella quale ferve il traffico consueto di una grossa colonia di insetti. Tuttavia la solitudine di questi centri abitati, in qualche punto, è spaventosa: si pensa che se, in una notte, uno di questi paesi si mettesse a gridare, forse non potrebbe essere inteso da nessuno, e la sua voce si aggirerebbe di balza in balza senza poter uscire dal cerchio dei monti. 

Le rocce ci stanno sempre sul capo; sembra anche a noi di esserci smarriti dentro le pieghe della terra; siamo posseduti, siamo attaccati alle sue mostruose rotondità che ci avvolgono come una cosa carnale ma fredda su cui la peluria delle boscaglie non ha fremiti. 

In certi punti, le rocce nere e rosee, hanno la struttura delle fibre del legno; scendono dall’alto a striature, a strati verticali, come enormi tronchi fossili scortecciati. Pare che anche le piante si sieno mutate in pietra, in un paesaggio irreale. 

Gli uomini hanno scavato pazientemente qualche viottolo su questa terra massiccia e vi si inerpicano fin dove può giungere la forza delle loro gambe: rintracciano i tartufi, raccolgono le ghiande, bruciano la legna per farne carbone; le pecore e i maiali a piccole frotte, ma frequenti, strappano un po’ d’erba ai piedi dei monti giganteschi come se li accarezzassero; ma si comprende che questa è terra di nessuno: la natura, qui, non si lascia possedere, respinge ogni velleità dell’uomo, e non sarà domata che dall’acqua e dall’aria, nei millenni. 

Per ora, resta lungamente estatica nella notte sotto le stelle; beve l’acqua nelle lunghe giornate di pioggia, ed offre le sue cime vergini al giuoco folleggiante dei venti. 

Caratteri 

C’è in tutti, forse favorita dalla solitudine di questa terra, tra i monti, una particolare disposizione a risentire la compagnia delle cose naturali e degli animali. Ciò che una volta si liberò in un canto di amore universale, e un’altra volta riuscì ad ammansire il feroce lupo. 

Ma dovunque è presente questa concordia. Già notammo come, a mano a mano che si penetrava nel cuore dell’Umbria, i bovi ingentilivano le loro linee e presentavano una faccia più quieta e più debole, ora vediamo che c’è diversità anche nel modo di aggiogarli. E il giogo umbro, al confronto di quello laziale, accenna ad un trattamento più riguardoso dell’animale, più attento e sollecito. Ha il legno dolcemente rialzato nella parte centrale della scannellatura, dove il collo dell’animale poggia per il maggiore sforzo, e quella specie di collare che serve a tenerlo fermo, non è di ferro o di corda, ma di corda all’estremità e di legno piatto nel mezzo, di modo che, nella trazione, sono le due tavolette che poggiano sul collo e non l’offendono come farebbero la corda o la catena. 

Per quanto i contadini abbiano dei tratti comuni in tutti i paesi, pure, parlando, ad esempio, della diffidenza del contadino umbro, bisogna subito avvertire che essa è posta a guardia di un’intima coscienza di bonomia e di innocenza, magari a protezione della sua indolenza; ad ogni modo è qualche cosa di molto diverso dalla diffidenza dei meridionali, fatta di realistica conoscenza del cuore umano, e, in fondo, di disistima dell’uomo. 

Andavo a Gubbio. 

Guardavo avidamente la campagna che qui, più che altrove, mi appariva umile ed armoniosa, affettuosa quasi. Sembra che gli animali sieno chiamati a far compagnia all’uomo che vive solitario: non esiste, o non appare, l’allevamento industriale, l’armento, il gregge, il branco numeroso e rumoroso. 

Le pecore, a piccole frotte, in piccolo numero, si trovano quasi in ogni podere; i piccioni volano su ogni casa, i tacchini errano su ogni prato, e di maiali neri, di piccola mole e col pelo lucido e corto, ce ne sono quasi quanti sono i ragazzi che li guardano in ogni tenuta; mentre le mucche, i bovi, i vitelli sporgono le teste dalle stalle dove fanno vita ritirata in compagnia delle donne che custodiscono le case. 

Lungo tutta la via, era un accorrere di bimbi, di ragazzetti, di mocciosetti tenuti in braccio da ragazze più grandicelle: quasi tutti biondi, tutti scalzi. Venivano fuori dalle case di campagna, sbucavano dalle siepi, avanzavano correndo dalle viottole incassate tra le boscaglie; si piantavano in fila sul ciglio della via, appena sentivano il rombo dell’autobus, alzavano le manine nel saluto, poi si curvavano a terra come per raccattare qualche cosa. 

Guardavo, ma non riuscivo a dare un senso a quella stranezza ormai costante da quasi a mezzo il viaggio da Perugia. Ma, fattomi più attento, vidi che il fattorino del servizio, un omaccione sulla sessantina dalla faccia larga e cordiale, tirava fuori da un grosso cartoccio delle caramelle e dallo sportello accanto al guidatore, o dal lato opposto, che egli raggiungeva a fatica, buttava tante caramelle quante, ad una sua rapida inchiesta, gli pareva ne occorressero per il gruppetto dei ragazzi che egli si trovava di fronte. Alle volte, allarmato dall’avidità o dalla maggiore età di qualcuno del gruppo, si sporgeva col capo in fuori e gridava con paterna sollecitudine: «Una per uno! ». E l’autobus filava incontro ad altri bimbi, ad altri saluti, ad altre trepide attese e sorrisi di gratitudine e di contentezza. Ed era strano vedere che l’uomo non appariva né divertito né compiaciuto, anzi era piuttosto serio e grave, e di tanto in tanto si asciugava il sudore dal faccione rosso. 

I viaggiatori, tutte persone del luogo che non erano nuove a quella funzione, vollero presentare a me, che ero l’unico forestiero, il sor Giovanni della posta di Gubbio, e seppi così che egli ogni domenica comprava una cartocciata di caramelle e le distribuiva, al modo che avevo veduto, sulla via tra Perugia e Gubbio, da uomo solo quale era, ed amantissimo dei bambini. 

« Quando morrà » disse uno dei viaggiatori « tutti questi bambini che già gli vogliono bene, si ricorderanno del sor Giovanni della posta di Gubbio ». 

Il piccolo episodio che ho raccontato non è altro che la bizzarria di un brav’uomo, ma una bizzarria che, per il suo carattere, difficilmente riusciremmo a collocare in un’altra regione italiana con uguale naturalezza, con uguale pudore silenzioso, e l’assenza completa di leziosaggine e di scherzo. Allo stesso modo, certe cose viste in questi luoghi, anche le più insignificanti, restano lungamente nella memoria, per una grazia tutta particolare che ricevono dal colore stesso del paese, per l’ambientazione arcaica e ferma che prendono: si tratti di alcuni asinelli visti entrare, una domenica, per una porta di Spello, o di due poveri sposi incontrati in autobus, con un sacchetto bianco sulle ginocchia, seduti accanto, senza parlarsi, senza curiosità degli altri, e gli occhi lontani e buoni e l’aspetto umile; sia che capiti di vedere, come io ho visto a Gubbio, un agnello bianchissimo nella bottega di un fabbro starsene accucciato in un canto della bottega nera e sonante, quasi a far compagnia al lavoro del suo padrone. 

Né questa ambientazione si perde se i nostri ricordi vi collocano arditamente la figura di quel l’uomo che, per queste strade ghiaiose e dure, andò prima a San Damiano, poi verso il Subasio, e un giorno, mezzo nudo, a Gubbio per chiedervi un vestito. 

Anzi, l’atto decisivo del mercante di Assisi, che sulla via tra Santa Maria degli Angeli e Foligno, sceso da cavallo, dette al lebbroso la borsa, fatto non nuovo, ma quel che fu più importante, gli baciò la mano, sembrerebbe, anche oggi, assistito da una diffusa disposizione di questa terra, che è terra veramente amorosa; dolce, cioè, ma energica come dev’essere l’amore che vuol diventar realtà. 

Guardandola da queste alture di Assisi, non so perché, mi tornano alla memoria parole lette tanto tempo fa: « il mondo è un paradiso, ma gli uomini non lo sanno, e non vogliono saperlo ».

Si comprende perché non vogliono saperlo, quando si pensa da che oscuro travaglio nasce la bellezza di questa terra e la soave dolcezza dei suoi santi. 

Né idillica, né sentimentale, ma frutto della rara armonia in cui si fondono quegli aspetti che finora ci sono apparsi opposti e contrastanti tra loro: forza e gentilezza, bontà ed energia. 

Se Perugia fu terribile contro i suoi nemici, San Francesco fu terribile contro se stesso: così, dietro le soavi figure dei santi umbri, mostrano i loro profili arcigni le ombre minacciose degli Oddi, dei Baglioni, degli Ansidei, dei Della Corgna, come tra la levità e gentilezza della vegetazione, umile e nana, la terra umbra mostra la sua pietra dura e ferrigna. 

Sul punto di allontanarci, ci sembra di udire, per la campagna che si fa buia, il saluto che erano soliti ripetere per queste vie i primi seguaci del Santo: « Dio vi dia la pace ». Ma queste parole, così belle ad udirsi nelle prime ombre della sera, non suonano come un vago augurio, bensì come un appello severo, perché quelli che le ripetevano avevano vinto se stessi e tornavano, stanchi ma sereni, dal duro lavoro manuale d’una intera giornata.

 

Le fatiche del Nera 

Il Nera, che di tanto in tanto si nasconde, ma che subito ritroviamo, ci assicura che non ci smarriremo: egli, che sa la via, ci chiama col suo intimo e contento borbottio. Per lunghi tratti si va proprio insieme e come in compagnia, e non ci stanchiamo di fissare il suo occhio nero e limpido di montanaro. Di tanto in tanto si allontana e ci lascia, come il vero padrone di questi luoghi che ha le sue cose da fare; poi si affretta, saltellando, e lo ritroviamo fresco e rinfrancato dai lunghi e sereni riposi delle marcite di Norcia. La quale appare, dopo Serravalle, dove la terra si allarga e distende in un illusorio respiro, libera dai monti, che però alle sue spalle sono sempre in agguato. 

Intanto essa si gode l’altipiano che è amenissimo. Le mura che la recingono non hanno l’aspetto  arcigno che abbiamo ritrovato altrove, ma piuttosto campestre e familiare: le sue porte si aprono subito sui campi ben coltivati; le sue strade sono liete ed agevoli. 

Tutti sanno che le marcite sono prati perenni di graminacee spontanee, ma non tutti sapranno che queste di Norcia sono le marcite classiche. Qui, per opera di San Benedetto, se ne fece la scoperta, applicando il principio che le acque di certi fiumi hanno temperatura costante, di modo che le erbe che ne sono sommerse trovano un mezzo più adatto dell’ambiente esterno, e possono continuare a vegetare ed a crescere anche durante l’inverno. Qui non presentano quella rete di canali simmetrici che si vede altrove: bastano dei solchi scavati con l’aratro e rifiniti con la vanga. come invito al limpido Nera di entrare; bastano dei rozzi sportelli di tavole inchiavardate, perché esso sia persuaso a sostare. E il Nera entra confidenzialmente nei campi, sparge con imparziale generosità le sue acque; si distende su tutta la conca tra Serravalle e Norcia, e dà volentieri una mano al contadino per provvederlo di foraggio per tutto l’anno. I prati, perennemente di un verde vivo, sembrano intrisi di tenerezza in questo punto del territorio, e staccano su tutto il resto, per la loro luce. 

Questa si può dire la prima fatica del Nera, che è tutta dedicata ai poveri contadini che hanno nelle stalle tanti bovini da mantenere ed ingrassare. E par, quasi, di leggere nei volti la gratitudine, vedendoli tornare dalle marcite con quelle loro grandi corbe di giunchi, a mezzo tondo, colme di bella erba tenera, ancora gocciolante. 

Più avanti il nostro fiume è fermato da altri postulanti, ma la richiesta di aiuto non è così franca e cordiale: accenna già ad un tranello, ad un’insidia. Gli uomini gli sbarrano il passo con le pietre di un mulino. 

Ma il Nera, paziente, dà una mano anche qui, anzi, alle volte, dà tutte e due le spalle, ché le macine sono assai pesanti da trascinare e il lavoro della molitura assai faticoso. Poi riprende il suo cammino, e riguadagnato il suo alveo muschioso, sembra tutto dimenticare, anzi pare che più spedito e veloce voglia correre per allontanarsi dall’ostacolo che lo intralciò, e in questa corsa sembra anche più allegro. 

Le sue acque tornano serene e limpide. In certi punti, filari di esili pioppi chiudono, da una sponda e dall’altra, la sua limpidità. come le lunghe ciglia che circondano i dolci occhi delle ragazze di Perugia. 

Questa è ancora la giovinezza del Nera: è ancora fresco il ricordo delle cose fatte ed è vicina in promessa delle più liete avventure del suo viaggio: l’incontro col salubre e freschissimo Campiano, a Ponte di Chiussita, che ha la trafugata dolcezza di un rapimento amoroso, e il chiassoso ed allegro abbraccio col Velino che gli salta addosso, balzando di roccia in roccia, tra le rupi di Papigno. 

Poi un triste presagio offusca le sue acque di smeraldo, qualche cosa come è per noi (giacché le nostre sorti si somigliano) la fine della buona salute e della spensieratezza, la soggezione all’età, la mortificazione nell’ingranaggio sociale. Lo vediamo ancora libero ed agile folleggiare con le piante delle sue sponde, alle volte piegando le più audaci con carezze rudemente cordiali, ma non passa molto che il triste presagio si avvera. È verso Triponzo, che leggiamo la notizia della cattura del Nera! La lapide di pietra chiara, recente, murata su quella più scura della roccia del monte, ha la perentoria ed improvvisa eloquenza di un bollettino guerresco: 

Tre fiumi 

La virtù italica costringeva… 

Tra questi è il Nera. Qui, in queste gole profonde, egli cade nell’agguato dell’ingegneria moderna, che lo ha strappato al suo letto naturale e buttato nel buio carcere di una galleria di quarantadue chilometri. Ne esce, straniato, in una illusoria libertà, nel lago di Piediluco, ma subito è mescolato alle acque del Velino, poco prima, suo confluente. Si vedono ancora le lacerature dei monti, gli squarci orribili del suolo, i detriti e le macchie dell’immane lavoro. E queste impronte, lasciate dagli uomini che ora si sono allontanati, pesano sinistramente sulla vergine e linda natura che sembra rimasta silenziosamente offesa. 

E questo punto segnala la fine del fiume Nera. 

Le sue acque continueranno ad essere, ma il suo volto ed il suo nome non saranno più: sono spariti per sempre. Da questo punto in poi, nessuno potrà chiamarlo il « Nera »; i contadini umbri non insegneranno il suo nome ai loro figli, né lo presenteranno al viandante di altre contrade con quell’aria tutta intima e di parentela, quale si era formata nei secoli. 

Si rivede il nome del Nera a grandi caratteri l’intonaco bianco delle pareti della stazione di Montoro, ma già sembra un’iscrizione mortuaria. Ha una vistosità quasi impudica; non è più un suono vivo, come quando lo coglievamo sulle bocche dei montanari scendendo dal passo di Valloprare o sulla via di Norcia; non richiama più il verde smeraldo di un’acqua che aveva quasi un volto. 

Ora una specie di vita di al di là comincia per il fiume morto. La sua culla appare ormai lontanissima, quasi sfugge nel ricordo. Quei due fori a forma di narici ciclopiche, per i quali il grembo della terra lo mette alla luce, hanno preso nel nostro ricordo la velatura irreale delle cose ed aspetti dell’infanzia, che esistono nella memoria ma senza corpo, senza materia, ed in una dolorosa incertezza ed estraneità. 

Ora i frutti della fatica del Nera, che continua anonima ed annegata nel flusso di questa sua seconda vita, sono invisibili e problematici: maturano occultamente negli stanzoni di una fabbrica industriale, tra il fumo delle ciminiere e l’urlo delle macchine: si chiamano acciaio, ammoniaca, prodotti azotati ed anche luce elettrica. Forse altrove, in un’altra contrada che non fosse l’Umbria, non ci sarebbe capitato di compiangere un fiume? 

È certo che, dopo averlo seguito per quasi tutto il suo corso, a Terni, provammo una grande pietà per il Nera, come fosse stato una creatura viva.

 

Tratto da:

Nino Savarese, Cose d’Italia : con l’Aggiunta di alcune cose di Francia ; Roma : Tumminelli, 1943

 

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