giovedì 20 gennaio 2022

Prefazione a «Moby Dick» di Herman Melville - Cesare Pavese


« … benché si tratti di un’opera ispirata da esperienze di vita quasi barbarica ai confini della terra, Melville non è mai un pagliaccio che si metta a fingere anche lui il barbaro e il primitivo, ma, dignitoso e coraggioso, non si spaventa di rielaborare quella vita vergine attraverso lo scibile della terra. Poiché credo che ci voglia meno coraggio ad affrontare un capodoglio o un tifone che a passare per un pedante o un letterato.»

 

      Tradurre Moby Dick è un mettersi al corrente con i tempi. Il libro – ignoto sinora in Italia – ha tacitamente ispirato per tutta la metà del secolo scorso imaggiori libri di mare. E da qualche decina di anni gli anglo-sassoni ritornano a Melville come a un padre spirituale scoprendo in lui, enormi e vitali, i molti motivi che la letteratura esoticheggiante ha poi ridotto in mezzo secolo alla volgarità.

      Herman Melville, nato a New York nel 1819 da una famiglia antica e nobilesca, morì a New York nel 1891, dopo essere passato anche per gli impieghi statali, immiserito, sconosciuto e sdegnoso. Ma queste sue infelicità non ci toccano. È la solita sorte dei grandi, su cui piace ai posteri spargere eloquenza, salvo poi a trattare anch’essi i contemporanei nell’antichissimo modo. Questa infelicità di Melville anzi ha avuto qualche parte in Moby Dick. Benvenuta, quindi. Poi bisogna ricordare i quattro anni della giovinezza passati su navi baleniere e da guerra, nel Pacifico, nell’Atlantico, tra cacce, tifoni, bonacce e avventure d’inferno o d’arcadia, tutta materia che è stata colata, con un lento lavoro di assimilazione, nelle opere. 

      E l’arcadia c’è in Typee, c’è in Omoo, c’è in Mardi, le storie ispirate dai mesi di vita che l’autore condusse in comune coi cannibali di un’isola oceanica. L’inferno è in White Jacket – spigliato e spietato giornale della vita di bordo su una nave da guerra – e in Pierre, una truce storia morale fallita, che serve a mostrare a quale prezzo e con quali fatiche l’autore di Moby Dick sia giunto al capolavoro.  

      Il lettore deve anzitutto pensare che corre quasi un secolo da quando questo libro venne pubblicato per la prima volta. L’ambiente spirituale da cui è uscito è ormai interamente dimenticato anche in America e tutte le volte che si vuole illustrarne qualche aspetto occorre uno sforzo pedante di rievocazione. Tuttavia in Italia sono abbastanza noti due scrittori rappresentativi, su per giù, di questo stesso ambiente. Si pensi che Herman Melville è una specie di fusione e, con ciò, di superamento di Edgar Poe e Nathaniel Hawthorne. Nel nostro caso, Moby Dick è, in un migliaio di pagine, una novella alla Poe, con tutta la sua costruzione, i suoi effetti ragionati di terrore; e, insieme, una di quelle analisi morali di peccatori, di ribelli a Dio che, espresse in uno stile caldo e sfavillante da sermone, legano il nome della Lettera Scarlatta più forse alla storia del puritanesimo che non a quella della poesia. 

      In quel tempo, in America o più precisamente nella Nuova Inghilterra, la stabilità nazionale raggiunta aguzzava il desiderio di una cultura propria, di una tradizione. Questo che sarà il problema cronico degli Stati e susciterà ancor oggi tanti disprezzi in Europa verso questi parvenus della cultura, è invece il segno della nobiltà del loro sforzo e del loro destino. 

    Poiché avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla. 

     E Melville e contemporanei la cercarono, da buoni puritani, nel secolo delle lotte religiose in Inghilterra, in quel secolo di visionari, di libellisti teologici e di interpretatori della Bibbia, da cui era nata l’America. Anche Poe, che pure è nella sua opera abbastanza areligioso, ha fatto grandi indigestioni di ‘500 e ‘600, volgendosi essenzialmente agli scrittori di magia, di cose occulte e ai platonisti. Tutta gente che non dispiaceva neanche a Melville. Ma Moby Dick, così ragionato e tecnico com’è, vale anzitutto per l’ispirazione biblica. In esso la Balena, dopo tutte le classificazioni e i nomi scientifici ed archeologici, rimane soprattutto il Leviatan.  

     Si legga quest’opera tenendo a mente la Bibbia e si vedrà come quello che potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo a dire il vero e un poco oscuro, si svelerà invece per un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano. Dal primo estratto di citazione «E Dio creò grandi balene» fino all’epilogo, di Giobbe: «E io solo sono scampato a raccontarvela» è tutta un’atmosfera di solennità e severità da Vecchio Testamento, di orgogli umani che si rintuzzano dinanzi a Dio, di terrori naturali che sono la diretta manifestazione di Lui. Quei primi capitoli, che sono anche parsi superflui, sulle tetre lapidi dei balenieri di New Bedford e sul sermone di Giona, sono invece parte essenziale del racconto: il brivido della baleneria che si fonde, al primo manifestarsi, col terror sacro puritano. Poiché non c’è nulla di superfluo, rispetto al tono del libro, in quest’epigrafe: 

     

CONSACRATO ALLA MEMORIA 

DI 

JOHN TALBOT 

CHE A DICIOTT’ANNI SI PERDÉ NEL MARE 

VICINO ALL’ISOLA DELLA DESOLAZIONE 

AL LARGO DELLA PATAGONIA 

IL 1° NOVEMBRE 1836 

QUESTA LAPIDE ALLA MEMORIA 

LA SORELLA POSE

       

     Il continuo alone soprannaturale che trasfigura fin le più spregiudicate e positive ricerche dell’autore, non è che un modo di esprimere, attraverso ogni laicismo di cultura, lo spirito biblico della concezione. Questo traspare persino nei nomi che accompagnano la tragedia: Ismaele, Giona, Elia, Bildad, Achab «di cui i cani leccarono il sangue».  

    Bisogna tuttavia riconoscere la complessità di questa cultura melvilliana, che a volte (Giona storicamente considerato) sembra giocare proprio con la sua più alta ispirazione. Oltre che un mito morale, la favola di Moby Dick è anche una sorta di oceanico trattato zoologico e baleniero, e un poema dell’azione e del pericolo. Qualche lettore più recente ravvisa, anzi, in questo tono il suo fascino più vero.  

      Le lunghe dissertazioni cetologiche, le minuzie descrittive sui particolari della caccia e della navigazione, le compiaciute e maliziose digressioni d’ogni genere, non soltanto testimoniano dell’estro multicolore dell’autore, ma inducono a riflettere sul singolare intreccio di questi motivi con quelli biblici suaccennati. È innegabile che lo sforzo stilistico e costruttivo di Melville fu tutto diretto a effettuare questo contemperamento, e altrettanto innegabile ce ne pare la riuscita. Ogni capitolo, ogni periodo, ogni frase del libro ha quell’aria inevitabile e fatale che è come un suggello di classicità. Nel rigoglio quasi seicentesco delle sue invenzioni e delle sue immagini, noi nulla vorremmo sfrondare o smorzare. Passiamo dal soprannaturale brivido che incutono Lo Spruzzo fantasma Quiqueg nella bara, alla curiosità divertita delle ricerche sulla Balena fossile e dei pettegolezzi sul Gam e non ci pare di fare uno sforzo. La parola fantastica o raziocinante di Melville assorbe ogni volta in sé senza residui tutta la vita del libro, connettendovisi per fili sottili, per la suggestione di un richiamo, di un’eco, di una cadenza. 

      Ora, questa riuscita s’intende soltanto avendo presente il senso del mito di Achab. Questi insegue Moby Dick per sete di vendetta, è chiaro, ma, come succede in ogni infatuazione d’odio, la brama di distruggere appare quasi una brama di possedere, di conoscere, e nella sua espressione, nel suo sfogo, non sempre è distinguibile da questa. Se poi ricordiamo che Moby Dick assomma in sé la quintessenza misteriosa dell’orrore e del male dell’universo (si veda uno qualunque dei farneticanti monologhi di Achab), avremo senz’altro capito come le tante didascalie digressive, raziocinanti e scientifiche, non si contrappongano al reverente timor sacro puritano ma piuttosto l’avvolgano in un lucido alone di sforzo, d’indagine, di furore conoscitivo, che ne è come dire il riflesso laico. La coerenza del libro si celebra proprio in questa tensione che l’ombra fuggente del mistico Moby Dick induce nei suoi cercatori. Elogeremo a questo punto la finezza di cui diede prova Melville lasciando indefinito il senso della sua allegoria. I commentatori hanno potuto sbizzarrirsi e vedere simboleggiati nel mostro infiniti concetti. Ciò è indifferente. La ricchezza di una favola sta nella capacità ch’essa possiede di simboleggiare il maggior numero di esperienze. Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e perciò Achab e il suo Nemico formano una paradossale coppia d’inseparabili. Dopo tante disquisizioni, tanti trattati e tanta passione, l’annientamento davanti al sacro mistero del Male resta l’unica forma di comunione possibile. 

     Nessuna corda della sua cultura Melville lascia intentata per rendere il senso di quest’inevitabile catastrofe: dalle già accennate paurose cadenze bibliche all’asciutto e settecentesco nerbo dei capitoli informativi; dal capriccio scherzoso delle pause digressive che ricordano irresistibili tanta letteratura saggistica, all’alta e shakespeariana tensione fantastica di certe scene drammatiche. Ciò che tutto coordina e armonizza è il ricco e sapiente fraseggio, vibrante di risonanze, di echi, di sfondi così come il mito è una pregnante creazione che contempera successive sfere spirituali.  

     Rimarrà sorpreso il lettore aprendo il libro a quelle pagine di Estratti iniziali sulla balena e crederà che almeno queste pedantesche citazioni si possano saltare, almeno queste sian superflue. Neanche queste.  

     L’interessante lista di riferimenti, pescati in tutte «le Vaticane e le bancarelle della terra» e le etimologie in più d’una dozzina di lingue, che precedono, servono a portare il lettore a quel grado di universalità, ad ambientarlo in quell’atmosfera laica di dotta discussione, che sarà il nerbo, talvolta umoristico e talvolta eroico, di tutti i futuri capitoli. Poiché, questo è curioso in Moby Dick e in Melville: benché si tratti di un’opera ispirata da esperienze di vita quasi barbarica ai confini della terra, Melville non è mai un pagliaccio che si metta a fingere anche lui il barbaro e il primitivo, ma, dignitoso e coraggioso, non si spaventa di rielaborare quella vita vergine attraverso lo scibile della terra. Poiché credo che ci voglia meno coraggio ad affrontare un capodoglio o un tifone che a passare per un pedante o un letterato.  

     E Melville, nel ringraziamento al Vice-vice-bibliotecario, ch’egli finge gli abbia fornite le citazioni, lo compiange per uno di quella «classe disperata e ingiallita che nessun vino al mondo scalderà mai più e per i quali persino il pallido Xeres sarebbe troppo generoso»; lo compiange col suo solito tono scherzoso di uomo che conosce ben altro nella vita oltre le Vaticane e i bancherottoli e sa che i migliori poemi sono quelli raccontati da marinai illetterati sul castello di prora (cfr. La storia del «Town-ho»); sa tutto questo, e scherza, ma non si vergogna di mostrarsi qual è, un marinaio che ha studiato: un letterato.  

      Cesare Pavese, ottobre 1941


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