« … benché
si tratti di un’opera ispirata da esperienze di vita quasi barbarica ai confini
della terra, Melville non è mai un pagliaccio che si metta a fingere anche lui
il barbaro e il primitivo, ma, dignitoso e coraggioso, non si spaventa di
rielaborare quella vita vergine attraverso lo scibile della terra. Poiché credo
che ci voglia meno coraggio ad affrontare un capodoglio o un tifone che a
passare per un pedante o un letterato.»
Tradurre Moby Dick è un mettersi al corrente con i tempi. Il libro – ignoto sinora in Italia – ha tacitamente ispirato per tutta la metà del secolo scorso imaggiori libri di mare. E da qualche decina di anni gli anglo-sassoni ritornano a Melville come a un padre spirituale scoprendo in lui, enormi e vitali, i molti motivi che la letteratura esoticheggiante ha poi ridotto in mezzo secolo alla volgarità.
Herman Melville, nato a New York nel 1819 da una famiglia antica
e nobilesca, morì a New York nel 1891, dopo essere passato anche per gli
impieghi statali, immiserito, sconosciuto e sdegnoso. Ma queste sue infelicità
non ci toccano. È la solita sorte dei grandi, su cui piace ai posteri spargere
eloquenza, salvo poi a trattare anch’essi i contemporanei nell’antichissimo
modo. Questa infelicità di Melville anzi ha avuto qualche parte in Moby
Dick. Benvenuta, quindi. Poi bisogna ricordare i quattro anni della
giovinezza passati su navi baleniere e da guerra, nel Pacifico, nell’Atlantico,
tra cacce, tifoni, bonacce e avventure d’inferno o d’arcadia, tutta materia che
è stata colata, con un lento lavoro di assimilazione, nelle opere.
E l’arcadia c’è in Typee, c’è in Omoo,
c’è in Mardi, le storie ispirate dai mesi di vita che l’autore
condusse in comune coi cannibali di un’isola oceanica. L’inferno è in White
Jacket – spigliato e spietato giornale della vita di bordo su una nave
da guerra – e in Pierre, una truce storia morale fallita, che serve
a mostrare a quale prezzo e con quali fatiche l’autore di Moby Dick sia
giunto al capolavoro.
Il lettore deve anzitutto pensare che corre quasi un secolo da
quando questo libro venne pubblicato per la prima volta. L’ambiente spirituale
da cui è uscito è ormai interamente dimenticato anche in America e tutte le
volte che si vuole illustrarne qualche aspetto occorre uno sforzo pedante di
rievocazione. Tuttavia in Italia sono abbastanza noti due scrittori
rappresentativi, su per giù, di questo stesso ambiente. Si pensi che Herman
Melville è una specie di fusione e, con ciò, di superamento di Edgar Poe e
Nathaniel Hawthorne. Nel nostro caso, Moby Dick è, in un
migliaio di pagine, una novella alla Poe, con tutta la sua costruzione, i suoi
effetti ragionati di terrore; e, insieme, una di quelle analisi morali di
peccatori, di ribelli a Dio che, espresse in uno stile caldo e sfavillante da
sermone, legano il nome della Lettera Scarlatta più forse alla
storia del puritanesimo che non a quella della poesia.
In quel tempo, in America o più precisamente nella Nuova
Inghilterra, la stabilità nazionale raggiunta aguzzava il desiderio di una
cultura propria, di una tradizione. Questo che sarà il problema cronico degli
Stati e susciterà ancor oggi tanti disprezzi in Europa verso questi parvenus della
cultura, è invece il segno della nobiltà del loro sforzo e del loro
destino.
Poiché avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che
si può viverla.
E Melville e contemporanei la cercarono, da buoni puritani, nel
secolo delle lotte religiose in Inghilterra, in quel secolo di visionari, di
libellisti teologici e di interpretatori della Bibbia, da cui era nata
l’America. Anche Poe, che pure è nella sua opera abbastanza areligioso, ha
fatto grandi indigestioni di ‘500 e ‘600, volgendosi essenzialmente agli
scrittori di magia, di cose occulte e ai platonisti. Tutta gente che non
dispiaceva neanche a Melville. Ma Moby Dick, così ragionato e
tecnico com’è, vale anzitutto per l’ispirazione biblica. In esso la Balena,
dopo tutte le classificazioni e i nomi scientifici ed archeologici, rimane
soprattutto il Leviatan.
Si legga quest’opera tenendo a mente la Bibbia e si vedrà come
quello che potrebbe anche parere un curioso romanzo d’avventure, un poco lungo
a dire il vero e un poco oscuro, si svelerà invece per un vero e proprio poema
sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano. Dal
primo estratto di citazione «E Dio creò grandi balene» fino all’epilogo,
di Giobbe: «E io solo sono scampato a raccontarvela» è tutta
un’atmosfera di solennità e severità da Vecchio Testamento, di orgogli umani
che si rintuzzano dinanzi a Dio, di terrori naturali che sono la diretta
manifestazione di Lui. Quei primi capitoli, che sono anche parsi superflui,
sulle tetre lapidi dei balenieri di New Bedford e sul sermone di Giona, sono
invece parte essenziale del racconto: il brivido della baleneria che si fonde,
al primo manifestarsi, col terror sacro puritano. Poiché non c’è nulla di
superfluo, rispetto al tono del libro, in quest’epigrafe:
CONSACRATO ALLA MEMORIA
DI
JOHN TALBOT
CHE A DICIOTT’ANNI SI PERDÉ NEL MARE
VICINO ALL’ISOLA DELLA DESOLAZIONE
AL LARGO DELLA PATAGONIA
IL 1° NOVEMBRE 1836
QUESTA LAPIDE ALLA MEMORIA
LA SORELLA POSE
Il continuo alone soprannaturale che trasfigura fin le più
spregiudicate e positive ricerche dell’autore, non è che un modo di esprimere,
attraverso ogni laicismo di cultura, lo spirito biblico della concezione.
Questo traspare persino nei nomi che accompagnano la tragedia: Ismaele, Giona,
Elia, Bildad, Achab «di cui i cani leccarono il sangue».
Bisogna tuttavia riconoscere la complessità di questa cultura
melvilliana, che a volte (Giona storicamente considerato) sembra giocare
proprio con la sua più alta ispirazione. Oltre che un mito morale, la favola di
Moby Dick è anche una sorta di oceanico trattato zoologico e baleniero, e un
poema dell’azione e del pericolo. Qualche lettore più recente ravvisa, anzi, in
questo tono il suo fascino più vero.
Le lunghe dissertazioni cetologiche, le minuzie descrittive sui
particolari della caccia e della navigazione, le compiaciute e maliziose
digressioni d’ogni genere, non soltanto testimoniano dell’estro multicolore
dell’autore, ma inducono a riflettere sul singolare intreccio di questi motivi
con quelli biblici suaccennati. È innegabile che lo sforzo stilistico e
costruttivo di Melville fu tutto diretto a effettuare questo contemperamento, e
altrettanto innegabile ce ne pare la riuscita. Ogni capitolo, ogni periodo,
ogni frase del libro ha quell’aria inevitabile e fatale che è come un suggello
di classicità. Nel rigoglio quasi seicentesco delle sue invenzioni e delle sue
immagini, noi nulla vorremmo sfrondare o smorzare. Passiamo dal soprannaturale
brivido che incutono Lo Spruzzo fantasma o Quiqueg
nella bara, alla curiosità divertita delle ricerche sulla Balena
fossile e dei pettegolezzi sul Gam e non ci pare di
fare uno sforzo. La parola fantastica o raziocinante di Melville assorbe ogni
volta in sé senza residui tutta la vita del libro, connettendovisi per fili
sottili, per la suggestione di un richiamo, di un’eco, di una cadenza.
Ora, questa riuscita s’intende soltanto avendo presente il senso
del mito di Achab. Questi insegue Moby Dick per sete di vendetta, è chiaro, ma,
come succede in ogni infatuazione d’odio, la brama di distruggere appare quasi
una brama di possedere, di conoscere, e nella sua espressione, nel
suo sfogo, non sempre è distinguibile da questa. Se poi ricordiamo che Moby
Dick assomma in sé la quintessenza misteriosa dell’orrore e del male
dell’universo (si veda uno qualunque dei farneticanti monologhi di Achab),
avremo senz’altro capito come le tante didascalie digressive, raziocinanti e
scientifiche, non si contrappongano al reverente timor sacro puritano ma
piuttosto l’avvolgano in un lucido alone di sforzo, d’indagine, di furore
conoscitivo, che ne è come dire il riflesso laico. La coerenza del libro si
celebra proprio in questa tensione che l’ombra fuggente del mistico Moby
Dick induce nei suoi cercatori. Elogeremo a questo punto la finezza di
cui diede prova Melville lasciando indefinito il senso della sua allegoria. I
commentatori hanno potuto sbizzarrirsi e vedere simboleggiati nel mostro
infiniti concetti. Ciò è indifferente. La ricchezza di una favola sta nella
capacità ch’essa possiede di simboleggiare il maggior numero di
esperienze. Moby Dick rappresenta un antagonismo puro, e
perciò Achab e il suo Nemico formano una paradossale coppia d’inseparabili.
Dopo tante disquisizioni, tanti trattati e tanta passione, l’annientamento
davanti al sacro mistero del Male resta l’unica forma di comunione
possibile.
Nessuna corda della sua cultura Melville lascia intentata per
rendere il senso di quest’inevitabile catastrofe: dalle già accennate paurose
cadenze bibliche all’asciutto e settecentesco nerbo dei capitoli informativi;
dal capriccio scherzoso delle pause digressive che ricordano irresistibili
tanta letteratura saggistica, all’alta e shakespeariana tensione fantastica di
certe scene drammatiche. Ciò che tutto coordina e armonizza è il ricco e
sapiente fraseggio, vibrante di risonanze, di echi, di sfondi così come il mito
è una pregnante creazione che contempera successive sfere spirituali.
Rimarrà sorpreso il lettore aprendo il libro a quelle pagine
di Estratti iniziali sulla balena e crederà che almeno queste
pedantesche citazioni si possano saltare, almeno queste sian superflue. Neanche
queste.
L’interessante lista di riferimenti, pescati in tutte «le
Vaticane e le bancarelle della terra» e le etimologie in più d’una dozzina
di lingue, che precedono, servono a portare il lettore a quel grado di
universalità, ad ambientarlo in quell’atmosfera laica di dotta discussione, che
sarà il nerbo, talvolta umoristico e talvolta eroico, di tutti i futuri
capitoli. Poiché, questo è curioso in Moby Dick e in Melville:
benché si tratti di un’opera ispirata da esperienze di vita quasi barbarica ai
confini della terra, Melville non è mai un pagliaccio che si metta a fingere
anche lui il barbaro e il primitivo, ma, dignitoso e coraggioso, non si
spaventa di rielaborare quella vita vergine attraverso lo scibile della terra.
Poiché credo che ci voglia meno coraggio ad affrontare un capodoglio o un
tifone che a passare per un pedante o un letterato.
E Melville, nel ringraziamento al Vice-vice-bibliotecario, ch’egli
finge gli abbia fornite le citazioni, lo compiange per uno di quella «classe
disperata e ingiallita che nessun vino al mondo scalderà mai più e per i quali
persino il pallido Xeres sarebbe troppo generoso»; lo compiange col suo
solito tono scherzoso di uomo che conosce ben altro nella vita oltre le
Vaticane e i bancherottoli e sa che i migliori poemi sono quelli raccontati da
marinai illetterati sul castello di prora (cfr. La storia del «Town-ho»);
sa tutto questo, e scherza, ma non si vergogna di mostrarsi qual è, un marinaio
che ha studiato: un letterato.
Cesare Pavese, ottobre 1941
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