Come premessa, conviene rimarcare che il termine “razzismo”, al singolare, è preferibile a “razzismi”, se si vuole cogliere il carattere unitario del concetto, al di là delle variazioni storiche ed empiriche del fenomeno. Paradossalmente, per nominare un tale sistema, siamo costretti/e a usare un lemma la cui etimologia rimanda alla credenza nell’esistenza delle “razze”, criticata e poi abbandonata da una buona parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla. “Razza” è, infatti, una pseudo–categoria tanto infondata quanto paradossale, essendo basata sul postulato che istituisce un rapporto deterministico fra caratteri somatici, fisici, genetici e caratteri psicologici, intellettivi, culturali, sociali.
In sintesi, il razzismo è definibile come un sistema di credenze,
rappresentazioni, norme, discorsi, comportamenti, pratiche, atti politici e
sociali, volti a svalorizzare, stigmatizzare, discriminare, inferiorizzare,
subordinare, segregare, perseguitare categorie di persone alterizzate,
e ciò fino alla strage e allo sterminio.
Scrivo alterizzate poiché nella realtà fattuale, il
“colore” o l’effettiva distanza culturale e/o sociale dal noi sono
alquanto irrilevanti nella scelta delle vittime, come comprova la tragica
storia dell’antisemitismo. Lo stigma applicato a certe categorie di persone
può prescindere da qualsiasi differenza somatica, fenotipica,
culturale o relativa alla provenienza, essendo l’esito di un processo di
costruzione sociale, simbolica, politica.
Basta dire che nella geometria variabile del razzismo italiano dei decenni
più recenti, il ruolo di capri espiatori e di bersagli di campagne
allarmistiche è stato attribuito, di volta in volta e fra gli altri e le altre,
a persone migranti albanesi, “slave”, romene, delle quali, fino a prova
contraria, non si può dire che siano “negri/e”, oppure che siano estranei/e
alla storia e alla cultura europee.
Il razzismo diviene sistemico quando è direttamente o indirettamente
incoraggiato o legittimato da istituzioni, nazionali e sovranazionali, nonché
da mezzi di comunicazione. Quando l’intolleranza “spontanea” verso
determinati gruppi o minoranze, diffusa nella società, è avallata e legittimata
da istituzioni, anche europee, e da apparati dello Stato, nonché dalla
propaganda e da una parte del sistema dell’informazione, è allora che s’innesca
il circolo vizioso del razzismo.
Il sistema-razzismo è il più delle volte sorretto da dispositivi simbolici,
comunicativi, linguistici, che sono in grado di agire sul sociale, producendo e
riproducendo discriminazioni e ineguaglianze. Soprattutto esso è
riprodotto, avvalorato, legittimato da un complesso di leggi, norme, procedure
e pratiche routinarie: ciò che viene detto razzismo istituzionale,
il quale finisce per generare non solo discriminazione, ma anche
stratificazione di disuguaglianze in termini di accesso a risorse sociali,
materiali, simboliche (status, cittadinanza, lavoro, servizi sociali,
istruzione, conoscenza, informazione…).
A tal proposito, esemplare è il caso della delegittimazione istituzionale,
se non della criminalizzazione, non solo delle ONG che praticano ricerca e
soccorso in mare, ma anche di chiunque, fosse pure individualmente, compia
gesti di solidarietà verso persone profughe e migranti. Tutto ciò per non dire
del contributo delle istituzioni italiane alla strage di persone profughe e
migranti, del quale uno dei pilastri è costituito dal Memorandum
d’intesa fra la Libia e l’Italia, la quale in tal modo legittima non
solo le stragi nel Mediterraneo, ma anche gli orrori compiuti dalla cosiddetta
Guardia costiera libica e quelli che si consumano nei “centri di accoglienza
per migranti”, in realtà degli autentici lager.
È indubbio che un tale esempio dall’alto non faccia che incoraggiare e
legittimare intolleranza e razzismo “dal basso”. Per limitarci all’Italia, si
potrebbero citare i numerosi episodi di barricate (reali o simboliche) contro
l’arrivo di richiedenti-asilo; ma anche le sempre più numerose rivolte, dette
spontanee, in quartieri popolari, contro l’assegnazione di alloggi a famiglie
di origine immigrata. E’ ben noto: più che mai in tempi di crisi, ma anche allorché le
rivendicazioni sociali e il conflitto di classe (come si
diceva un tempo) non hanno più lingua e forme in cui esprimersi, accade che il
disagio economico e sociale e il senso di abbandono da parte delle istituzioni
alimentino risentimento e ricerca del capro espiatorio.
Tuttavia, in questi casi non potrebbe essere più impropria e
ingannevole la formula “guerra tra poveri”, che, solo in apparenza non-razzista,
finisce per rappresentare aggressori e aggrediti/e quali vittime simmetriche; e
per fare delle persone indigenti “in guerra tra loro” gli attori unici o
principali della scena razzista. In realtà, a socializzare, manipolare,
deviare il rancore collettivo, istigando e talvolta perfino guidando tali
rivolte, sono spesso militanti di gruppi di estrema destra. In tal caso, il
circolo vizioso del razzismo non fa che produrre, se non il rafforzamento,
comunque la legittimazione, per quanto possa essere implicita o involontaria,
della destra neofascista.
Lo schema ideologico e narrativo che fa perno sulla
locuzione “guerra tra poveri” è, in fondo, simmetrico o contiguo a quello che
s’incentra sulle antitesi-chiave sicurezza/insicurezza, decoro/degrado. E a
proposito di circolo vizioso del razzismo, non è casuale che tali antitesi
abbondino, in particolare, nel testo della legge Minniti del 18 aprile 2017, n.
48 («Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città»).
In fondo, tale legge non fa che tradurre e legittimare la percezione comune
per la quale migranti, rifugiati/e, rom, senzatetto, marginali sarebbero
importatori di degrado, insicurezza, disordine sociale. In
definitiva, essa tematizza in termini di pericolosità sociale lo stile
e le pratiche di vita, spesso imposte, di coloro che sono considerati/e “fuori
norma”.
Per tentare di spezzare o almeno incrinare il circolo vizioso del razzismo
occorrerebbe costruire un ampio movimento di massa antirazzista, degno di
un’impresa così ardua. Attualmente siamo alquanto lontani/e da una simile prospettiva.
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