(Valentina Bennati intervista Paolo Bellavite)
Ci sono medici che hanno riposto ogni fiducia solo nel “vaccino” e altri
che, invece, in questi ultimi 20 mesi hanno lavorato, e molto, per curare i
malati ed evitare che giungessero troppo aggravati in ospedale. Dalla loro
esperienza – che ha dimostrato che, se si interviene nella fase iniziale con
terapie appropriate, di COVID si può guarire tranquillamente a casa – è
nato uno studio, ora a disposizione della comunità scientifica.
Pubblicato in anteprima l’8 dicembre dalla rivista peer-review ‘Medical
Science Monitor’ con il titolo “Retrospective Study of Outcomes and
Hospitalization Rates of Patients in Italy with a Confirmed Diagnosis of Early
COVID-19 and Treated at Home Within 3 Days or After 3 Days of Symptom Onset
with Prescribed and NonPrescribed Treatments Between November 2020 and August
2021 (Studio retrospettivo sugli esiti e sui tassi di ospedalizzazione di
pazienti in Italia con diagnosi confermata di COVID-19 precoce e trattati a
casa entro 3 giorni o dopo 3 giorni dall’insorgenza dei sintomi con farmaci di
prescrizione e non di prescrizione tra novembre 2020 e agosto 2021)”, il
lavoro ha, come prima firma, quella del professore Serafino Fazio,
componente del Consiglio Scientifico del Comitato Cura Domiciliare COVID-19,
già professore di medicina Interna all’Università di Napoli. I co-autori
sono Paolo Bellavite (già professore di Patologia generale
alle Università di Verona e di Ngozi-Burundi), Elisabetta Zanolin (Dipartimento
di Diagnostica e Sanità Pubblica dell’Università di Verona), Peter A.
McCullough (Department of Cardiology, Truth for Health Foundation,
Tucson, AZ, USA) che ha sottoscritto lo schema terapeutico del Comitato Cura
Domiciliare COVID-19, Sergio Pandolfi (Neurochirurgo –
Ozonoterapeuta, Docente al Master di II° livello in ossigeno-ozono terapia
Università di Pavia) e Flora Affuso (ricercatrice
indipendente).
Lo studio ha evidenziato,
in un gruppo di 85 pazienti con COVID-19, un azzeramento dei ricoveri
se la terapia viene messa in atto nei primi tre giorni e conferma
quello che già altri
studi pubblicati a partire da maggio 2020 (ad esempio da Paesi come Stati
Uniti, Corea, Iran e India) hanno messo in luce ossia i benefici
positivi delle cure precoci e in particolare dell’utilizzo dell’indometacina,
farmaco antinfiammatorio non steroideo e agente virale ad ampio spettro che
costa poco più di un euro e che sembrerebbe in grado non solo di fornire un
sollievo sintomatico più rapido ai pazienti, ma di prevenire anche le
complicanze.
Dopo lo studio Remuzzi-Suter dell’Istituto Mario Negri, che ha avuto il
merito in Italia di imporre il tema delle cure domiciliari anche nel campo
delle pubblicazioni scientifiche, questa nuova pubblicazione dovrebbe
rappresentare un vanto nazionale e richiamare l’attenzione dei
principali giornali nazionali e della TV, mentre finora è stata pressoché
ignorata. Ne ha parlato, invece, di recente un
importante giornale indiano che ne ha sottolineato
l’importanza.
Del resto, è noto come da noi il tema delle cure precoci e
domiciliari sia stato sottovalutato sin dall’inizio. E non si può dire che
il Governo non ne fosse a conoscenza: secondo quanto si può leggere nell’interrogazione
parlamentare n° 3-02869, pubblicata il 19 ottobre 2021 – seduta n. 368, “a partire
dal mese di aprile 2020 (dunque, poco tempo dopo l’inizio della pandemia da
Sars-CoV-2) il Ministero della salute era stato adeguatamente informato
sull’esistenza di evidenze cliniche che dimostravano come ottenere, attraverso
un uso combinato di farmaci del prontuario, una pronta guarigione
dall’infezione”. Infatti, fin dalla primavera 2020, erano stati
inviati a Ministero, AIFA e CTS diversi appelli e segnalazioni da parte di
diversi gruppi di medici che – si legge sempre nell’interrogazione
parlamentare – “iniziando a curare precocemente i malati di COVID-19,
andavano scambiandosi man mano esperienze cliniche e si costituivano in
associazioni. Ognuno di questi gruppi, autonomamente, era arrivato alle
medesime conclusioni rispetto all’approccio terapeutico corretto in grado di
contrastare l’infezione, basato sulla consapevolezza dell’assoluta necessità di
un intervento farmacologico tempestivo e di un monitoraggio costante delle
condizioni del paziente, sia attraverso visite a domicilio sia attraverso la
telemedicina, onde contrastare un aggravamento irreversibile delle condizioni
di salute”.
Eppure, nonostante l’autorevolezza delle fonti da cui provenivano
tali indicazioni, non si è ritenuta neppure opportuna un’azione di verifica di
quanto stava emergendo a livello clinico e “il protocollo
ministeriale, emanato in data successiva a questi appelli (novembre 2020),
indicava ancora ai medici di base di non somministrare alcun farmaco ai malati
di COVID-19, anche se sintomatici, nell’arco delle prime 72 ore dall’insorgenza
dei sintomi, tranne il paracetamolo, e anche il successivo protocollo
(attualmente in vigore ed emanato ad aprile 2021) associava al paracetamolo
soltanto i “fans” (antinfiammatori comuni)”.
Viene da chiedersi se non sia questa una delle ragioni per cui in Italia la
‘seconda ondata’ (autunno 2020) ha fatto registrare uno dei tassi di letalità
più alti del mondo (3,5 su 100 soggetti malati di COVID-19). Questo nuovo studio e
quello già citato del Mario Negri sembrano confermare questa ipotesi.
La motivazione addotta nelle stesse linee guida del Ministero, dove
addirittura sono stati sconsigliati determinati farmaci, è stata
ricondotta “all’assenza di studi scientifici in grado di comprovarne
l’efficacia per il COVID-19”, farmaci in realtà già noti e diffusi in tutto
il mondo anche per la cura domiciliare di comuni patologie e che, sotto
appropriato controllo medico, non hanno mai causato effetti collaterali gravi.
Magari studi scientifici di verifica verso ciò che stava emergendo a
livello clinico avrebbero potuto promuoverle quelle stesse autorità che li
invocavano, le quali, però, hanno voluto puntare tutto sui vaccini, in realtà
farmaci dichiaratamente sperimentali, come scritto dalle stesse case
farmaceutiche.
Il dramma è che tuttora le molteplici opzioni farmacologiche da utilizzarsi
già nelle prime fasi della malattia, o persino in soggetti semplicemente
positivi al tampone, sono per lo più sconosciute alla popolazione e
probabilmente agli stessi medici di medicina generale che, di fatto,
non riescono ad applicare protocolli più complessi e avanzati rispetto alle
linee guida del Ministero.
Tornando allo studio di cui si parlava in apertura di articolo, la sua
recente pubblicazione potrebbe rappresentare l’occasione per riconoscere
finalmente il giusto valore alle cure precoci domiciliari e diffonderne la
conoscenza, soprattutto rendere i medici di famiglia capaci di metterle in
pratica e, magari, istruire finalmente un tavolo tecnico finalizzato alla
revisione dei protocolli ministeriali. Tanto più che i riflettori
continuano ad essere puntati su varianti e aumento dei contagi.
Pare opportuno, quindi, nell’intento di diffondere ogni informazione utile
allo sviluppo di una sempre maggiore conoscenza e consapevolezza, non solo dare
notizia di questa importante pubblicazione, ma anche dare la parola a
uno degli autori, il Professor Paolo Bellavite.
* * * *
Prof Bellavite perché è importante questo studio, che periodo ha coperto e
che tipologia di pazienti ha preso in esame?
“È importante perché è il primo studio italiano che ha paragonato il
risultato di una terapia secondo il tempo passato dal momento in cui è
iniziata. Mi spiego meglio: si sono confrontati due gruppi e, nella scienza,
quando si confrontano due gruppi è sempre un avanzamento di conoscenza. Di
questi due gruppi, un gruppo di 85 persone è stato curato entro 3 giorni
dall’inizio dei sintomi, mentre un altro gruppo di 73 persone, che avevano
ritardato a rivolgersi al medico, sono state curate dopo 3 giorni, dunque dal
quarto in poi. In generale si è trattato di soggetti di età media intorno ai 45
anni anche con comorbilità e stiamo parlando dell’ondata tra novembre 2020 fino
ad agosto 2021. Fondamentalmente il lavoro ha dimostrato che se questa terapia
comincia a presto, entro 3 giorni dall’inizio dei sintomi, allora il risultato
è enormemente migliore di quello che si ottiene se la terapia comincia dal
quarto giorno in poi, cioè tardi. Il punto nodale è proprio questo: cominciare
presto. Cominciando precocemente, nel nostro caso la malattia è durata
mediamente 6 giorni e di 85 persone neanche una è finita in ospedale. Nel
gruppo dei 73 ‘ritardatari’ la malattia è durata mediamente 13 giorni e in 14
casi è stata necessaria la ospedalizzazione a seguito del peggioramento delle
condizioni polmonari.”
Anche il nefrologo e chirurgo di trapianto renale di Chennai, Rajan
Ravichandran, in India ha usato con efficacia l’indometacina per curare i
pazienti COVID-19. La squadra italiana ha seguito il suo protocollo o ha creato
un proprio schema terapeutico?
“Il professor Fazio ha studiato molto la terapia del COVID-19 perché ha
curato i pazienti già dalla prima ondata ovvero già dalla primavera del 2020 ed
è stato uno dei fondatori del gruppo delle terapie domiciliari. Nella sua lunga
esperienza è arrivato a concepire questa multiterapia dopo studio, osservazione
e riflessione sui diversi risultati ottenuti con diverse formulazioni.
L’utilizzo dell’indometacina non è stato un “colpo di genio” improvviso, né è
stato ispirato dal collega indiano, anzi è stata una sorpresa e una conferma
per lui vedere che anche altri l’avevano usata con successo. La scelta del
farmaco, in realtà, è stata fatta per i suoi effetti al contempo
antinfiammatori e antivirali.
Inoltre, il prof. Fazio in passato aveva molto studiato i benefici della
dieta e i flavonoidi insieme alla moglie, Flora Affuso, che è una degli altri
autori dello studio e, indipendentemente da me e dalle mie ricerche in merito,
sono arrivati a concepire l’utilizzo di integratori alimentari che contengono
queste sostanze vegetali, in particolare quercetina e esperidina. Possiamo dire
che, in maniera parallela, sia io che il Prof. Fazio siamo arrivati a capire
tre importanti funzioni di queste sostanze naturali, soprattutto se utilizzate
in una particolare formulazione che contempla anche l’utilizzo della vitamina
C: funzione antiossidante, antivirale e antinfiammatoria. Infine, c’è una
quarta e utile funzione, quella di protezione della barriera intestinale,
perché i flavonoidi agiscono favorevolmente sulla flora batterica.
Il terzo prodotto che fa parte dello schema terapeutico utilizzato sui
pazienti dello studio, dopo indometacina e i flavonoidi, è l’aspirina da 100
gr, piccolo dosaggio, quella che viene usata normalmente per prevenire la
trombosi e l’infarto: la prevenzione della trombosi è importante perché la
malattia COVID-19, quando si complica, provoca anche disturbi della
coagulazione e dell’aggregazione piastrinica quindi, anche se in molti pazienti
questo non si verifica, dare una copertura con questo popolare farmaco
antinfiammatorio è utile.
Dunque lo schema terapeutico che abbiamo utilizzato si fonda su tre
prodotti: l’indometacina, un integratore alimentare a base di flavonoidi e
l’aspirinetta. Sono tutti farmaci sicuri e già in commercio che i medici già
conoscono, di facile reperibilità e dal costo relativamente basso. Poi, siccome
gli antinfiammatori qualche volta, in alcune persone, possono dare problemi a
livello gastrico, si può aggiungere omeprazolo, un inibitore della pompa
protonica per coprire il rischio dell’effetto gastro lesivo
dell’antinfiammatorio. Si tratta di un elementare concetto di prudenza
clinico-terapeutica, anche se recenti studi sembrerebbero suggerire che
l’omeprazolo potrebbe forse ridurre i recettori del virus sulle cellule.
È sempre importante sottolineare che è un medico che deve fare la diagnosi
di COVID-19, la prescrizione e poi seguire il malato. L’autocura è sempre
sconsigliata, anche perché possono esserci interazioni con altri farmaci che un
individuo, eventualmente, sta assumendo o controindicazioni in certe
situazioni.”
Lo studio italiano raccomanda di iniziare il trattamento entro tre giorni
dall’insorgenza dei sintomi invece del protocollo standard di vigile attesa e
paracetamolo. Quali sono i sintomi che devono allertare e far capire che è il
momento di ricorrere alle cure?
“I sintomi iniziali della COVID-19 si conoscono ormai bene e sono: mal di
testa, mal di gola, rinite, spossatezza, male alle articolazioni, dolori
muscolari, tosse, talvolta diarrea. La febbre di solito c’è ma non è detto che
sia molto alta, almeno all’inizio. Ci può essere anche la perdita del gusto e
dell’olfatto. Circa il 20% dei nostri pazienti presentavano anche dolori al
petto. Si tratta di sintomi che però non si presentano sempre tutti o possono
variare, nello studio c’è tutto un elenco dei sintomi che sono stati misurati
precisamente.
Una persona attenta che sa ascoltare il suo corpo lo capisce che non si
tratta di un semplice raffreddore e si rende conto quando il malessere
peggiora. Siamo nel periodo epidemico e può capitare di frequentare persone
positive anche asintomatiche, la probabilità si alza allora. In caso di dubbio
il paziente deve chiedere che il medico di medicina generale si occupi di lui:
il medico deve curare, non può non farsi trovare disponibile o imporre
trattamenti contro la volontà del paziente. Altrimenti è bene rivolgersi ai
medici delle cure domiciliari e, in questi quasi due anni, sono nate varie
iniziative: il gruppo delle terapie domiciliari COVID-19 fondato dall’avvocato
Grimaldi che è anche citato nel nostro studio e ha dato un grosso contributo,
poi c’è il gruppo di Ippocrateorg.org ugualmente molto attivo e, di recente, è
nata l’iniziativa del Dottor Stramezzi che adesso sta diffondendo una app con
cui si potrà gestire il rapporto con i medici. In caso estremo, se proprio il
paziente non trovasse nessuno, potrebbe rivolgersi direttamente al farmacista
che può dare sempre un consiglio.
Una possibilità da valutare, in periodo epidemico, potrebbe essere di
andare dal medico facendo conoscere il nostro articolo (in cui sono citate
altre esperienze analoghe) e chiedere preventivamente la prescrizione della
cura da usare eventualmente in caso di bisogno per averla subito disponibile a
casa. Poi il medico, comunque, dovrà seguire il paziente effettuando un attento
monitoraggio, perché ci possono essere dei casi in cui il paziente magari
necessita di altri farmaci. Infatti è giusto precisare che i farmaci che ho citato
non sono gli unici medicinali possibili, ci possono essere anche varie altre
opzioni, ma in questo momento stiamo parlando di quella che è stata la nostra
esperienza e del risultato del nostro studio.”
L’Italia continua ad avere un approccio ‘aspetta e osserva’ e a consigliare
l’isolamento domiciliare e il paracetamolo per alleviare i sintomi durante
l’insorgenza dell’infezione da Sars-CoV-2. Che Lei sappia è l’unico Paese al
mondo? Tra l’altro l’uso del paracetamolo è stato messo in discussione in
quanto aumenterebbe proprio la suscettibilità alla polmonite da COVID-19. Vuol
precisare perché?
“Peter A. Mc McCullough, che tra l’altro è anche co-autore dello studio, ha
detto che in America è la stessa cosa. Anche negli Stati Uniti, per iniziativa
di Fauci, è tutto concentrato sempre sulla campagna vaccinale, anche lì
ritardano le cure e non hanno sviluppato dei protocolli o politerapie né ancora
hanno focalizzato l’importanza di cominciare presto la presa in carico del
paziente. Egli ha scritto due tre lavori importanti, prima di noi, in cui
sottolinea l’importanza di cominciare presto le cure, ma la situazione
purtroppo, a quanto pare, è simile alla nostra anche in altri Paesi.
Per quanto riguarda il paracetamolo, è uno dei farmaci più usati al mondo ma
bisogna stare molto attenti a non superare i dosaggi consigliati. Inoltre, nel
caso della COVID-19, ci sono due motivi fondamentali per cui è stato criticato:
innanzitutto viene metabolizzato attraverso la via del glutatione, che è la
stessa via che serve per difendersi dal virus. Dando il paracetamolo si rischia
di aumentare lo stress ossidativo, consumare glutatione e quindi di complicare
la vita alla cellula che già sta combattendo contro il virus. Il secondo motivo
per cui l’uso del paracetamolo potrebbe essere sconsigliabile è perché molti
malati di COVID-19 hanno anche problemi al fegato e il paracetamolo viene
metabolizzato proprio nel fegato, dove produce una sostanza che è tossica
proprio per il fegato stesso. Quindi il danno del farmaco con il suo
metabolita, se preso più o meno avvertitamente in eccesso, andrebbe a sommarsi
con il danno del virus. Comunque il nostro articolo non confuta direttamente il
paracetamolo, è una critica ben documentata nei confronti del ritardo delle
terapie”.
Il vostro studio ha dato risultati molto incoraggianti e ha richiamato
l’attenzione della stampa estera, ma non ha ricevuto la giusta considerazione
in Italia. Eppure, secondo le previsioni emanate il 17 dicembre dalla
Presidenza della Comunità Europea e rilanciate continuamente dai media, la
variante Omicron è destinata a divenire dominante in Europa nel gennaio 2022.
Se non si provvede a potenziare urgentemente l’assistenza di base a livello
domiciliare, non si rischia che la popolazione si trovi senza cure efficaci e
che ci sia una conseguente ondata di ricoveri ospedalieri che potrebbe mettere
nuovamente a repentaglio il funzionamento del sistema sanitario?
“Ovvio! Quelli che si curano presto, con gran probabilità non andranno
incontro all’ospedalizzazione, ma se si aspettano più giorni, il rischio di
ospedalizzazione aumenta enormemente, addirittura nel nostro studio abbiamo
fatto un calcolo che ogni giorno di ritardo aumenta di 4-5 volte il rischio di
finire in ospedale. Va detto però che il nostro studio non ha considerato la
variante Omicron, che parrebbe mono patogena anche se più contagiosa.
La precocità delle cure è una cosa fondamentale ed è quello che noi abbiamo
evidenziato e, tra l’altro, è una conferma di un’altra serie di ricerche che,
come già accennato, sono state fatte dal gruppo del Mario Negri capitanato dal
Professor Remuzzi. Anche loro avevano già pubblicato un’osservazione – con un
metodo diverso dal nostro in realtà – che, cominciando presto, già dal primo
giorno si riducevano ospedalizzazioni dal 10% al 1%: parliamo di 10 volte di
meno! Dieci volte di meno vuol dire che se noi abbiamo un milione di persone
malate, di cui 100.000 andrebbero a finire in ospedale, con le cure precoci ce
ne finirebbero solo 10.000! La cosa cambia notevolmente per le terapie
intensive, è una differenza enorme. Ovviamente questi dati sono da considerarsi
come preliminari perché le metodologie non consentono conclusioni definitive. I
nostri studi andrebbero ripresi e fatti da altri gruppi magari confrontando
diversi protocolli, ma è innegabile l’esperienza più che positiva che in questi
due anni diversi medici hanno fatto curando le persone a casa: hanno avuto dei
grossi risultati. Sarebbe stato molto più valido se ci fosse stato un
coordinamento nazionale, ma lo avrebbe potuto fare solo il Ministero della
Sanità che avrebbe dovuto permettere ai medici di prescrivere ciò che
ritenevano più utile in scienza e coscienza e raccogliere i dati e le
casistiche in modo tale che a livello centrale, una volta raggiunti grossi numeri
trattati da centinaia di medici, si potesse poi facilmente capire dove
indirizzarsi per avere i risultati migliori. Purtroppo, non è stato fatto nulla
di questo.”
Ci sono sempre più persone vaccinate eppure sempre maggiori contagi per i
quali si dà la colpa ai non vaccinati, ovviamente. Il vostro schema potrebbe
essere di aiuto anche ai vaccinati che si contagiano?
“Il professore Fazio recentemente ha cominciato a curare anche molti
vaccinati che si ammalano e sta ottenendo buoni risultati anche con loro, per
il momento non c’è questa grossa differenza nelle risposte alle terapie.
Un’osservazione che mi riferisce il collega è che i vaccinati si presentano con
sintomi di COVID-19 iniziali leggermente inferiori a quanto era abituato a
vedere con i non vaccinati.”
L’esperienza sta dimostrando che i vaccini anti-COVID non possono garantire
un’immunizzazione sterilizzante dall’infezione, dunque, nemmeno l’immunità di
gregge. Perché le cure domiciliari continuano a non interessare?
“L’immunizzazione con il vaccino non funziona anche perché non si formano
le immunoglobuline della classe A che sono quelle durano, stanno sulle mucose e
dovrebbero bloccare il virus prima dell’ingresso nelle cellule. Questi farmaci
fanno produrre gli anticorpi che per un periodo di qualche mese proteggono la
persona “dall’interno”, cioè dalle conseguenze organiche più gravi, ma non sono
comunque protette le mucose e infatti il vaccinato è contagioso come può
esserlo il non vaccinato. Può darsi che abbia meno sintomi, ma il fatto che
abbia meno sintomi, se è un bene per lui, non è un necessariamente un bene per
la collettività, perché ovviamente la persona va in giro mostrando il “super
green pass” ma può diffondere il virus.
La cosa importante che posso dire a tal proposito è che i flavonoidi che
abbiamo sperimentato nello studio, presi lontano dai pasti con la forma
“orosolubile”, si liberano in notevoli concentrazioni nella bocca, nella
faringe e nell’esofago e ci rimangono in una concentrazione notevole quindi c’è
una probabile inibizione dell’attacco eventuale del virus. Quello che non
riescono a fare gli anticorpi se non ci sono le immunoglobuline di classe A, lo
possono fare questi flavonoidi: almeno questo evidenziano gli studi di
laboratorio, ovviamente non abbiamo ancora una prova clinica che questo succeda
anche in vivo però è molto plausibile che questo succeda anche perché la
concentrazione che si raggiunge nella bocca è molto elevata quindi è altamente
probabile che si formi una barriera all’ingresso del virus nelle cellule o un
blocco della sua replicazione.
Infine mi chiede perché le cure domiciliari continuino a non interessare.
Bella domanda!
Avrei due risposte. C’è la versione, che sarebbe da prediligere, della
‘sbornia del vaccino’ che rimanda a una forma di ignoranza delle altre
possibilità, come se il vaccino avesse obnubilato le menti. Poi c’è un’altra
versione più drammatica o ‘complottista’ e cioè che, se ci fossero state le
cure, non si sarebbero più potuti propagandare i vaccini. Vaccini che, come ha
detto il filosofo Agamben ai senatori, non sarebbero in realtà lo scopo finale
delle autorità governative, poiché lo scopo finale sarebbe il green pass sempre
più rafforzato, vale a dire una forma di controllo totale sui cittadini. In
questo caso non ci sarebbe più da parlare di ignoranza o trascuratezza, ma di
una volontà politica che ‘usa’ la pandemia per un disegno diverso e quindi non
accettabile.”
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