(Tratto da Altreconomia 242 — Novembre 2021)
I Landay sono versi anonimi che denunciano la miseria della condizione femminile e le violenze degli uomini. Sono tramandati e raccontati da donna a donna in spazi sicuri in un Paese dove le poetesse vengono perseguitate
In
Afghanistan esiste una fitta rete di poetesse anonime che fanno circolare
oralmente messaggi rivoluzionari di resistenza e denuncia delle violenze, delle
invasioni, delle guerre e delle leggi tribali e fondamentaliste che impediscono
loro di esprimersi liberamente. Una “poetica ribellione” portata avanti dalle
donne attraverso i Landay: particolari versi che appartengono a un’antica
tradizione poetica orale pashto che risale al 1700, quando le popolazioni
nomadi di questa etnia usavano spostarsi in lunghe carovane dall’Afghanistan
verso il Pakistan o l’India e gli amanti, per comunicare da una parte all’altra
della carovana, utilizzavano brevi poesie di due versi (distici). Un’usanza che
con il tempo si è consolidata, diventando caratteristica di feste e matrimoni
durante i quali questi componimenti venivano recitati accompagnati dal suono
del tamburo e dalle danze.
I Landay che
conosciamo oggi però sono poesie anonime, immaginate da donne spesso analfabete
o quasi, che utilizzano il linguaggio semplice e la musicalità delle rime per
far circolare un messaggio chiaro e pungente come un “serpentello velenoso”,
espressione che traduce fedelmente il termine. Come i Landay da dolci versi che
ricordano quasi una ninna nanna siano diventati uno strumento clandestino di
ribellione per una rete fittissima di donne, al di là del loro ceto sociale e
della loro istruzione, lo chiarisce Eleonora De Pascalis, che fa parte
del Coordinamento
italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) e che nel
luglio 2017 ha dedicato proprio a questo tema la sua tesi di laurea in Lettere
moderne, conseguita all’Università del Salento.
“Ordini
stupidamente di tacere,
non capisci che la voce della verità è più forte del tuo raglio.
Non è manipolando le frasi dei Profeti
Che la tua ignoranza diverrà verità”
“A partire
dall’invasione sovietica del 1980, la tradizione popolare orale del Landay è
stata raccolta dalle donne che hanno cominciato a usare queste poesie per
infondere il coraggio necessario a imbracciare le armi e combattere il nemico:
‘Sorelle mie, legatevi il velo attorno come cinture, / raccogliete i fucili e
partite verso il campo di battaglia’”. Con l’avvento dei Talebani -provenienti
in larga parte proprio dalla citata etnia pashtun-, i Landay si sono nuovamente
modificati per adattarsi al nuovo contesto e denunciare la miseria della
condizione femminile. Un altro esempio: “Possa Dio distruggere i Talebani e porre
fine alle loro guerre. / Hanno reso le donne afghane vedove e prostitute”.
Sotto il
regime talebano si è affermata con ancor più forza l’esigenza per le autrici
dei Landay di rimanere nell’ombra: “Negli anni Novanta i Talebani vietarono
ogni espressione artistica: una donna scoperta a cantare, recitare o danzare
era considerata una prostituta e veniva uccisa -continua De Pascalis-. Sono
tante le storie che ci portano a dire che la poesia possa rappresentare una
causa di persecuzione per le donne: c’è il caso di Rahila Muska, picchiata
ferocemente dai fratelli dopo essere stata scoperta a trascrivere i propri
testi su un quaderno, o quello di Nadia Anjuman, uccisa a 25 anni nel 2005 per
il fatto di essere una poetessa”.
I versi dei
Landay contengono messaggi che colpiscono l’orgoglio e la virilità degli
uomini, criticando in modo aspro l’ipocrita morale pashto imposta alle donne. I
versi dei Laday riportati nell’articolo sono contenuti in “Come ginestre nel
deserto. La speranza augurale delle donne afghane nella tradizione poetica dei
Landay”, la tesi di laurea di Eleonora De Pascalis che fa parte del Cisda
E questa
violenza è esattamente ciò che i Landay denunciano, dando vita a una forma di
ribellione che può essere custodita e tramandata grazie all’anonimato delle
autrici: i versi vengono raccontati da donna a donna, in contesti sicuri,
lontano da orecchie indiscrete, ma nessuna conosce l’identità della poetessa
originaria e non esistono occasioni pubbliche di condivisione di questa
sfuggente forma d’arte.
“Il mio
amato vuole trattenere la mia lingua nella sua bocca,
non per diletto di essa, ma solo per stabilire i suoi costanti diritti su di
me”.
“Io brucio in segreto, piango in segreto,
sono la donna pashto che non può svelare il proprio amore”
Anche i
Landay qui riportati sono frutto della trascrizione e della traduzione di versi
“ascoltati” in Afghanistan e raccolti in due volumi: “I am the beggar of the
world: Landays from contemporary Afghanistan”, realizzato durante un viaggio da
Eliza Griswold, e “Songs of love and war: Afghan women’s poetry” del poeta e
intellettuale afghano Bahāʼ al-Dīn Majrū, che raccoglie poesie degli anni
Ottanta e Novanta.
Per via
della loro coralità e della loro clandestinità, a volte l’impressione è di
trovarsi di fronte a messaggi contraddittori. De Pascalis lo chiarisce con
degli esempi: “Alcuni Landay esprimono tutto l’odio per le invasioni straniere
come quello che recita ‘Il mio Nabi è stato ucciso da un drone. / Possa Dio
distruggere i tuoi figli, America, tu hai assassinato il mio!’. Altri versi
arrivano addirittura a invocare che i Talebani liberino il popolo
dall’invasione straniera. Però poi ci sono poesie nelle quali l’autrice
racconta l’amore per un soldato statunitense o in cui si legge di popcorn
portati in offerta a Dio nel tempio. Tutto questo da un lato riflette la
complessità della situazione e la varietà del punto di vista offerto dalle
donne pashtun, che altro non è che l’esternazione delle loro vicende
quotidiane, la storia non influenzata dal punto di vista mediatico; dall’altro
dipende proprio dalla qualità democratica della poesia: non c’è filtro tra loro
e l’esperienza di uno sguardo occidentale, la poesia popolare è il veicolo
indipendente e trasparente della voce corale che ha attraversato i decenni
della storia afghana”.
I Landay
sono in tal senso anche un modo per denunciare la rigida -e ipocrita- morale
pashto alla quale le donne sono sottomesse: “Mi hai venduta a un vecchio,
padre, / possa Dio distruggere la tua casa, io ero tua figlia”, e ancora
“Quando le sorelle siedono assieme, sempre pregano per i propri fratelli. /
Quando i fratelli siedono assieme, sempre vendono le proprie sorelle”, oppure
“Guarda la terribile tirannia dei mariti: prima mi picchiano poi mi proibiscono
di piangere”. “Il messaggio che trasmettono colpisce nell’orgoglio, nell’onore
e nella virilità gli uomini, che sono il vero bersaglio delle poesie -spiega De
Pascalis-. Sono donne molto consapevoli della propria condizione soggettiva e
sono molto critiche nei confronti degli uomini che gliela impongono: per me è
l’aspetto rivoluzionario dei Landay”.
Una potenza
che emerge in particolare in quei versi nei quali le poetesse parlano della
loro sessualità in un contesto in cui anche scambiare uno sguardo con un uomo è
vietato: “L’altra notte sono stata con il mio amato, oh, non tornerai mai più
pomeriggio d’amore! / Come una campana, con tutti i miei gioielli, fino a
tardi, suonavo tra le sue braccia!”, oppure “Mi sono fatta bella nei miei
vestiti logori / come un giardino fiorito in un villaggio devastato”.
“Sono parole
che esprimono una dimensione intima, il desiderio di farsi bella, di vivere la
propria sessualità nonostante il corpo martoriato e limitato -conclude la
studiosa-. Questi versi custodiscono anche degli antichi riferimenti culturali
che diversamente andrebbero persi: i melograni di Kandhar, così come i fiumi e
le montagne di cui parlano spesso i Landay, appartengono a un’antica simbologia
pashto. I bracciali, ad esempio, sono il simbolo della femminilità, infatti
quando una donna viene uccisa vengono rotti i suoi bracciali e posti sulla
tomba”.
https://altreconomia.it/la-poetica-ribelle-e-clandestina-delle-donne-dellafghanistan/
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